Censura letteraria

Censura e rito iniziatico nelle “letture proibite” del Seicento
di Enzo Kermol

Pal.-Ferrante

Premessa
Con il termine di censura ci si riferisce ad un esteso e disomogeneo insieme di meccanismi di controllo comprendenti forme che vanno dalla censura intrapsichica, cioè quella funzione che tende ad impedire ai desideri inconsci di affiorare al sistema preconscio-conscio, alla censura economica, cioè quella serie di “pressioni” svolte per favorire od ostacolare un prodotto sul mercato. L’uso più comune del termine prevede il caso di un controllo esercitato da un’autorità su opere artistiche o letterarie per motivi politici, religiosi o morali.
L’Inquisizione cattolica romana, istituita nel 1542 contro il diffondersi della Riforma in Italia, portò, nel 1548, all’emanazione del primo Index autorum et librorum su ciò di cui era proibita, e di conseguenza su ciò di cui era permessa, la lettura.
Il caso che esamineremo risulta essere piuttosto singolare nel panorama dell’attività dell’Indice dei libri proibiti e difficilmente ricollegabile ad episodi analoghi in altre epoche, se non con modalità talmente divergenti da rendere inutile la comparazione.
L’Ufficio dell’Inquisizione delle diocesi di Aquileia e Concordia istruì centoventidue processi fra il 1648 e il 1659 per il reato di lettura, o per il possesso, di libri posti all’Indice. Si tratta della maggior concentrazione di processi con tale imputazione nell’arco dell’attività di questo Ufficio inquisitoriale. Infatti dal 1551, anno di istituzione, al 1798 anno di soppressione, si contano solo poche decine di processi per questo reato, con una sola altra concentrazione, numericamente di gran lunga inferiore, nel periodo 1577-1616 riguardante testi di carattere religioso ed ereticale.

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Luoghi e contenuti
La particolarità dei processi di metà seicento si ritrova innanzitutto nei titoli dei volumi citati nelle deposizioni. La maggior parte risulta appartenere alla produzione letteraria di Ferrante Pallavicino e, in misura minore, degli altri membri dell’Accademia degli Incogniti di Venezia. I libri più citati scritti dal Pallavicino sono La rete di Vulcano, Il corriere svaligiato, La retorica delle puttane, La pudicizia schernita, Il divorzio celeste, Il principe ermafrodito. Argomento di questi libri, accanto ad una forte critica sociale, spesso espressa attraverso l’uso di metafore, la liberalizzazione dei costumi, in particolare di quelli sessuali.
La corrente culturale – filosofica a cui appartengono questo e gli altri autori, può essere considerata derivare dal libertinismo dotto, di vasto respiro, del cosiddetto “ridotto morosiniano”, sito in Venezia tra la fine del XVI secolo e il primo decennio del XVII, ove si ritrovavano studiosi quali Paolo Sarpi, Fulgenzio Micanzio, Galileo Galilei, Andrea Morosini, e altri di pari fama.
Poiché accanto al libertinismo dell’intelletto esiste quello di costume, espresso in varie accezioni, possiamo considerare gli “Accademici Incogniti”, e i loro lettori friulani, forse più vicini al cosiddetto libertinismo “nobiliare”, descritto dallo Schneider, che ad altre forme dello stesso fenomeno. Oltre ad un’analisi storica di questi avvenimenti, peraltro già compiuta (1), è possibile tentare un approccio diverso, più empirico, ma che può rivelarsi meno prevedibile nei risultati. Ipotizziamo che il libro proibito faccia parte della struttura simbolica di comunicazione in un gruppo ristretto. Lo consideriamo come uno degli elementi più significativi ed appariscenti del codice di comunicazione di un gruppo sociale particolare.
Lo Schneider (1972) dà una precisa classificazione dei significati contenuti nel termine “libertinage”. Quello più vicino ai lettori friulani del Seicento si riassume “nell’atteggiamento di rifiuto del comportamento e del modo di pensare comuni assunto da molti nobili per volontà di distinguersi” (2). Intendendo tutta una serie di atteggiamenti tenuti da una parte di una classe che si sentiva minacciata nei suoi privilegi economici e politici. Ma questa accezione, seppure importante, non soddisfa appieno i nostri intenti. Infatti se da un lato il comportamento di questi “lettori friulani” della metà del XVII secolo corrisponde alla descrizione fatta dallo Schneider, così come la composizione sociale del gruppo comprende un alto numero di nobili, resta tuttavia un po’ privo di spiegazioni il comportamento di una parte cospicua di lettori non nobili appartenenti alla classe borghese in ascesa, come i medici, i notai, ed altri gruppi similari.
Il rituale, nel caso della lettura dei libri proibiti facilmente assimilabile alla struttura del codice ristretto poiché “qualsiasi gruppo strutturato […] finisce con lo sviluppare una sua propria forma di codice ristretto che abbrevia il processo di comunicazione condensando le unità di significato in forme codificate e predisposte” (3). Inoltre osserviamo che “questo codice fa sì che determinati schemi di valori vengano rinforzati e consente ai membri di interiorizzare la struttura del gruppo e le sue norme in un reale processo di interazione”.
A prima vista l’insieme dei “lettori friulani” può apparire privo di connotazioni atte a strutturarlo in gruppo, oltre a quelle riferite alla lettura dei libri posti all’Indice. Non vi sono cioè caratteristiche precise di riconoscimento esteriore immediato, come accade alla “società” formata dai membri di un governo locale, dai componenti di un’istituzione universitaria, dai religiosi di una comunità ecclesiastica, e cosi via. In sostituzione di questi elementi abbiamo invece una serie di fattori comuni che creano un più vasto e perfettamente localizzabile gruppo, il cui comportamento sociale verso l’esterno, e la sua coesione interna, sono il più tangibile segno di riconoscimento: esso ha origini comuni, quali localizzazione territoriale, studi in un’unica università, cioè Padova, una fascia d’età estremamente condensata, determinati interessi verso una località precisa, nella fattispecie Venezia, status sociale, condizioni economiche, tutta una serie di elementi che fanno presupporre valori comuni, ed appaiono evidenti nel rituale di lettura dei libri proibiti.
Ciò che dobbiamo considerare, posto che il rituale sia una forma di codice ristretto, è che la “condizione per il formarsi di un tale codice sia che i membri del gruppo si conoscano talmente bene da condividere un patrimonio comune di credenze di fondo che non richiedano di essere formulate esplicitamente” (4). Una condizione di tale genere risulta evidente in questi “lettori” è non solo da ciò che traspare dai singoli resoconti processuali, meglio di tutti nel caso del medico udinese Enrico Palladio (5) dove, grazie alla concessione di un maggior spazio di discussione all’imputato, si ha una descrizione precisa del comportamento di questi friulani del Seicento, riuniti in occasione di una festa a casa di Padre Antonio Rocco a Venezia, ma anche dall’analisi stessa di quei romanzi, oggetto della comunicazione privilegiata che, come quelli del Brusoni o dello stesso Pallavicino, rispecchiano lo stile di vita e i modelli di riferimento dei lettori medesimi.

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Tipologia di codice
Due autori, Eco (1979) e Iser (1978), hanno lungamente analizzato i rapporti fra lettore e testo attraverso “la cooperazione interpretativa nei testi narrativi” e con l’esposizione di “una teoria della risposta estetica”. Come ci illustra amabilmente Eco (6) le informazioni che ricaviamo dal testo narrativo sono di gran lunga superiori a quanto il testo contenga. Esse derivano dall’interpretazione che il lettore da allo scritto completandolo nelle parti a suo avviso mancanti e quindi reinterpretando la versione completa del messaggio, dando luogo quindi a versioni narrative diverse tra lettore e lettore a seconda dell’enciclopedia informativa in suo possesso.
Sostanzialmente la lettura di un testo rappresenta il confronto fra due codici, quello dell’emittente (l’autore) e quello del ricevente (il lettore). Tanto maggiore sarà la differenza tra gli elementi costituenti i codici, tanto maggiore sarà la differenza nell’interpretazione del testo. Per Iser (7) la funzione dell’opera letteraria soprattutto quella di rinnovare le tavole di valori, il senso della vita, attraverso l’esame critico delle fondazioni morali o comportamentali dei personaggi del testo narrativo. Questi elementi ci permettono di affermare che nei testi scritti dal Pallavicino fra messaggio proposto dall’autore e interpretazione (ed uso) fattone dai “lettori friulani” intercorre una notevole diversità d’intenti.
Tuttavia non ci soffermeremo sul problema dell’interpretazione del testo, di un testo la cui analisi sarebbe peraltro piuttosto interessante, ma sull’uso di questo testo nell’ambito della struttura dei processi comunicativi.
Solo apparentemente la lettura di questi libri può essere considerata come di trasgressione alle norme. Infatti il codice ristretto che essa rappresenta “viene usato economicamente per trasmettere informazioni e per sostenere una determinata forma sociale: ad un tempo un sistema di controllo e di comunicazione, analogamente al rituale crea solidarietà” (8) nel gruppo sociale di questi “lettori”.
Apriamo qui una breve parentesi per definire i concetti di “codice ristretto” e “codice elaborato” usati, poiché ci si riferisce dapprima ai due diversi tipi di classificazione nei codici linguistici in cui essi sono originari, per poi analizzare le derivazioni e il contesto in cui essi sono stati applicati liberamente. Nel “codice elaborato” il parlante sceglie entro un vasto campo di alternative sintattiche, organizzate flessibilmente: questo linguaggio richiede una programmazione complessa. Nel “codice ristretto” il parlante attinge da un assorbimento molto più angusto di alternative sintattiche, e queste sono organizzate in modo più rigido (9).
Il “codice ristretto” strettamente legato all’ordinamento sociale, e il linguaggio ha una duplice funzione: utilizzato per trasmettere le informazioni, ma soprattutto esprime la struttura sociale e la rafforza. Questa indubbiamente la funzione assunta dalla lettura dei libri proibiti, in cui più che il contenuto informativo viene privilegiato il rituale di lettura e il possesso di determinati libri, oltre a ciò che circonda il compimento di questa serie di azioni. Riguardo invece al “codice elaborato” esso si colloca in una posizione in cui la funzione di mantenimento della struttura si va lentamente eliminando, poiché il suo scopo quello di “organizzare i processi mentali, di distinguere e combinare i concetti” (10). Evento questo lontano dagli scopi dei lettori seicenteschi di questa letteratura.
Gli eventi connessi a tutti i passaggi dei libri proibiti hanno essenzialmente l’effetto di richiami di status per coloro che ne fruiscono, “il loro effetto di trasmettere la cultura, o una cultura locale, in modo tale da accrescere la somiglianza di chi li riceve con gli altri membri del gruppo” (11). Ma quali sono le caratteristiche di questo gruppo?
Socialmente vasto, il cui stile di vita stato descritto dal Tassini e dallo Spini nonché dal Pellegrini (12). Di quest’ultimo in particolare il riferimento ad un episodio che coinvolse il poeta Eusebio Stella e Alvise Spilimbergo in una rissa con un gruppo di giovani a causa di una prostituta incontrata in una notte a Spilimbergo. Commentando il fatto alla luce della vita notturna nel Friuli seicentesco il Pellegini lo considera “ambiente concretissimo che incontreremo nei versi friulani di Eusebio”.
Interessante la collocazione del poeta come elemento di spicco nel quadro sociale di quel periodo storico in cui “linguaggio e pensiero sono stati elaborati fino a strumenti specializzati per scelte decisionali, ma la struttura sociale conserva una forte presa sui suoi membri, tanto da non ammettere sfida ai suoi principi fondamentali” (13). Si può quindi riscontrare che il linguaggio elaborato risente pesantemente del “codice ristretto” a causa dei vincoli con la struttura sociale.
Il “codice ristretto” rappresentato dalla lettura dei libri proibiti (limitatamente a quelli dei libertini veneti) non investe la struttura rappresentata dalla Chiesa cattolica, ed per questo che non ne viene perseguitato. Diversamente accade per gli autori genuinamente avversi ad ogni forma di controllo sociale. Basti pensare alla tragica fine di Ferrante Pallavicino, dapprima attirato in un agguato, imprigionato, torturato ed infine decapitato ad Avignone in territorio papale nel 1644.

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Osservazioni conclusive
Nel meccanismo processuale dell’Inquisizione cattolica viene esercitato il controllo da parte di una struttura rigida anche sui minimi accenni alla trasgressione delle norme di comportamento. Ma alla data dei processi tali mezzi di controllo avevano dimostrato ormai la loro efficacia sia come vettori repressivi che come instauratori di modelli di comportamento. Tanto più che la mitezza della pena (si tratta di semplici atti di pentimento), nonché le protezioni di cui godevano gli imputati, e il loro rango sociale, li poneva al di fuori di ogni giudizio da parte dell’autorità ecclesiastica.
Queste particolari caratteristiche fanno prendere l’aspetto quasi di un “gioco di società” all’intera vicenda degli imputati nei processi per la lettura dei libri proibiti, scritti dagli “Incogniti veneti”, nel Friuli seicentesco.
L’appartenenza a una fascia d’età giovanile e omogenea, le protezioni che stendono un velo sull’attività di questi lettori, la sostanziale impressione di cultura di maniera e mondana espressa dai fruitori di questa letteratura, lo stesso contenuto dei libri, insieme al gusto “trasgressivo” per un proibito che per presenta scarsi rischi, porta a formulare l’ipotesi che il “gioco” del libro posto all’Indice assuma il valore di un rituale. La giovane et dei lettori, il contenuto spesso “sessuale” dei libri, induce a pensare ad una sorta di rito di passaggio, che possiamo definire impropriamente, ma coloritamente, come di “iniziazione sessuale” delle classi colte: “qualsiasi azione porta l’impronta dell’apprendimento, dal mangiare al lavarsi, dal movimento al riposo e soprattutto alle attività sessuali. Nessun comportamento più di quello sessuale viene trasmesso attraverso un processo di apprendimento sociale ed esso è, naturalmente, strettamente legato alla morale dominante” (14).
D’altra parte la “tendenza alla promiscuità sessuale non è una reazione alla repressione, anzi la si incontra più di frequente là dove la repressione è meno evidente” (15), perciò in quel settore sociale che possiede maggiori privilegi senza dover contemporaneamente ottemperare a obblighi e costrizioni particolari.
In conclusione l’intera vicenda dei lettori di libri proibiti dell’Accademia degli Incogniti nel Friuli seicentesco può essere ricondotta ad un fenomeno “di costume” che non contiene nulla di eversivo, anzi rafforza in coesione un gruppo elitario perfettamente inserito nella struttura sociale del tempo con ruoli e mansioni direttive, anche se, ricordiamolo, una troppo spinta generalizzazione di questi dati porterebbe ad errore. Infatti accanto ai lettori “morigerati libertini” che abbiamo visto ne esistono altri, all’interno degli stessi processi, la cui varietà di letture e capacità di elaborazione fanno pensare ad attività originali nel campo dello studio e del pensiero, che si discostano da questi e poco concedono al gusto “modaiolo” in auge nel gruppo sociale esaminato.

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Note

1) E. Kermol, La rete di Vulcano. Inquisizione, libri proibiti e libertini nel Friuli del Seicento, Udine, Edizioni Borgo Aquileia, 1989.
2) G. Schneider, Il libertino, Bologna, Il Mulino, 1974.
3) M. Douglas, Natural Symbols, Harmondsworth, Peguin Books, 1970. Tr. it., I simboli naturali, Torino, Einaudi, 1979, p.79.
4) M. Douglas, 1979, p. 80.
5) Processo n. 37, busta 31 “Secundum Millenarium”, Sant’Uffizio, Archivio della Curia Arcivescovile di Udine (ACAU).
6) U. Eco, Lector in fabula, Milano, Bompiani, 1979.
7) W. Iser, The Act of Reading, Baltimora, Johns Hopkins University Press, 1978. Tr. it., L’atto della lettura, Bologna, Il Mulino, 1987.
8) M. Douglas, 1979, p. 81.
9) M. Douglas, 1979, p. 42.
10) M. Douglas, 1979, p. 42.
11) B. Bernstain,Social Class and Psycho-therapy,  “British Journal of Sociology”, XV, 1964, pp. 54-64.
12) G. Tassini, Cenni storici e leggi circa il libertinaggio in Venezia dal secolo decimoquarto alla caduta della Repubblica, Venezia, Filippi, 1888;
G. Tassini, Feste, spettacoli, divertimenti e piaceri degli antichi veneziani, Venezia, Filippi, 1890;
G. Spini, Ricerca dei libertini, la teoria dell’impostura delle religioni nel Seicento italiano, Roma, Universale di Roma, 1950;
R. Pellegrini, Eusebio Stella poeta nel Friuli del Seicento, Udine, Il Campo, 1980.
13) M. Douglas, 1979, p. 48.
14) M. Mauss, Le tecniques du corps, “Journal de Psychologie”, XXXII, 1936.
15) M. Douglas, 1979, p. 124.

Cyrano de Bergerac e il cinema

Cyrano: “Giusto al fin della licenza io tocco…”
di Enzo Kermol

 

Cyrano de Bergerac, di Jean-Paul Rappeneau (Francia, 1990), con Gerard Depardieu

Cyrano de Bergerac, di Jean-Paul Rappeneau (Francia, 1990), con Gerard Depardieu

Cyrano de Bergerac, “commedia eroica” di Edmond Rostard, apparve la prima volta sulle scene di Parigi il 28 dicembre 1897. Da allora considerata come una delle opere teatrali più importanti, e più note, nel panorama letterario francese, al pari di quelle scritte da Molière o da Corneille. La vicenda, che prende l’avvio nel 1640, narra la vita e le gesta di Cyrano di Bergerac, capitano dei cadetti di Guascogna, letterato e spadaccino formidabile nonché fortunato innamorato della bella Roxane. Poiché egli ritiene (a torto o a ragione) che il suo aspetto (il celeberrimo “naso”) lo renda poco adatto alla seduzione della dama, decide di aiutare il cadetto Christian de Neuvillette, di piacevole aspetto, ma di scarsa capacità espressiva, nell’impresa, scrivendo e declamando in sua vece delle meravigliose lettere d’amore.
L’opera basata sulla vita di un personaggio storico, Hector Savinien Cyrano de Bergerac, nato nel 1619 a Saint-Forget e morto nel 1655 a Sannois, intellettuale dai mille interessi, autore di drammi, opere filosofiche, romanzi fantascientifici e poesie, nonché, ovviamente, schermidore eccellente.
Così lo presenta Rostard nel suo libro “Astronomo, filosofo eccellente. Musico, spadaccino, rimatore, Del ciel viaggiatore, Gran mastro di tic-tac, Amante — non per sé — molto eloquente. Qui riposa Hercule Savinien de Cyrano de Bergerac, Che in vita sua fu tutto e non fu niente!”.

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Jose Ferrer in Cyrano de Bergerac, diretto da Michael Gordon nel 1950

Varie sono le versioni cinematografiche tratte dal testo di Rostand. Ricordiamo che già nel 1909 apparve un cortometraggio dal titolo Cirano di Bergerac, di soli 276 metri, prodotto a Torino da Pasquali e Tempo, dal regista sconosciuto, forse lo stesso Pasquali. Nel 1922 venne girato il primo lungometraggio, Cirano di Bergerac, diretto da Augusto Genina, prodotto in Italia dalla Extra Film, con Pierre Magnier nel ruolo del protagonista. Entrambe le versioni erano mute. Passando al sonoro nel 1946 troviamo la prima edizione francese, Cyrano de Bergerac, di Fernand Rivers con Claude Dauphin, Ellen Bernsen e Pierre Bertin. Segue una produzione statunitense, Cyrano de Bergerac, diretta da Michael Gordon nel 1950 con Josè Ferrer (premio Oscar per l’interpretazione), Mala Powers e William Prince. Nel 1963, di nazionalità francese, un curioso cambiamento di titolo e di storia, Cyrano contre D’Artagnan, di Abel Gance, sempre con Josè Ferrer nei panni dello spadaccino (unico attore ad aver interpretato due volte sullo schermo questo eroe letterario), nonché Sylva Koscina, Jean Pierre Cassel e Philippe Noiret.

Cyrano de Bergerac, diretto da Michael Gordon nel 1950

Cyrano de Bergerac, diretto da Michael Gordon nel 1950

Abbiamo poi visto una versione “modernizzata”, ambientata ai giorni nostri, Roxanne (USA, 1987) diretta dall’australiano Fred Schepisi, con il comico Steve Martin nei panni di un tale C.D. Bates, capo dei pompieri, alias Cyrano, che duella con le racchette da tennis e, novità, vincente anche in amore. Infine l’ultimo film prodotto, Cyrano de Bergerac, forse il più bello, quello di Jean-Paul Rappeneau (Francia, 1990), con Gerard Depardieu, uno dei maggiori attori francesi, Cyrano insuperabile. Girato a Budapest, in Ungheria e in Francia, il film ha vinto un Oscar per i costumi, ben dieci premi Cesar, la Palma d’oro a Cannes per l’interpretazione di Depardieu, il Golden Globe come miglior film straniero negli Stati uniti nel 1991, quattro premi BAFTA, il David di Donatello. Raramente nella messa in scena di questo testo vi è, come in questo caso, un tal ritmo tra parola e gesto. La battuta, il verso, sottolineano il procedere dell’azione, combaciano perfettamente, testo e movimento, come ha detto lo stesso Rappeneau “la mia idea era che la forma poetica percorresse tutte le scene come una colonna sonora, facendo del film quello che io volevo: una specie di opera lirica recitata”. La macchina da presa segue con i suoi movimenti i versi, si libra nell’aria e colpisce come una stoccata, affondando nel cuore dello spettatore, dando a Cyrano una duplice dimensione, d’immagine e di linguaggio, che si fondono in un insuperabile prodotto filmico, raggiungendo la perfetta coniugazione tra teatro, cinema e letteratura.
Il personaggio di Cyrano – Depardieu oggi, secondo alcuni, potrebbe apparire “poco attuale”, poiché, allo stesso tempo, un cavaliere romantico, coraggioso e imbattibile, fiero e indipendente; rifiuta di assoggettarsi al controllo di qualsiasi potente, ed infine fedelmente convinto del proprio ideale d’amore per tutta la vita. Contemporaneamente tanto distaccato dalle quotidianità della vita sociale (ne un freddo osservatore, ne analizza i costumi, ne deduce i comportamenti) da utilizzare le proprie produzioni poetiche attraverso il vuoto involucro del rivale – sostituto per raggiungere lo scopo prefisso.

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Cyrano de Bergerac, di Jean-Paul Rappeneau (Francia, 1990), con Gerard Depardieu

Può il modello umano di Cyrano essere attuale nella società odierna ?
La risposta ovviamente morale, non tecnica. I denigratori di tale modello si ritrovano in quei “critici”, un po’ arrivisti, un po’ cialtroni, pronti a cambiare opinione per un soldo dato da chiunque si etichetti come “padrone”. Viceversa i sostenitori dei valori di Cyrano saranno molto più simili all’eroe da loro scelto. Definizioni queste un po’ manichee, ma che forse si discostano dalla realtà meno di quanto si possa immaginare. Sulla scia del successo del Cyrano interpretato da Depardieu venne allestita a Parigi un’edizione teatrale interpretata da Jean Paul Belmondo, indubbiamente un attore dal “physique du role” indovinato. Poco riuscita invece l’edizione teatrale italiana di Franco Branciarori (attore dal fisico pesante e dalla recitazione noiosa e vanesia, più a suo agio nelle alcove di Tinto Brass che nei panni di qualsiasi spadaccino, romantico o meno).
Ritornando al cinema una citazione d’obbligo deve venir fatta per un altro eroe guascone, più ricco di adattamenti per il grande schermo, che appare anche nel testo di Rostand: D’Artagnan. Le fortune cinematografiche di questo personaggio sono più vaste. Ricordiamo solo alcuni titoli. Si va da I quattro moschettieri (Italia, 1919), di Filippo Costamagna, della Albertini film di Torino, al Visconte di Bragelonne (Italia, 1955), di Fernando Cerchio. Da The Three Musketeers, (USA, 1939) di Allan Dwan, a D’Artagnan contro i tre moschettieri (Italia, 1963) di Fulvio Tului. E ancora, dai film di Richard Lester The Three Musketeers (Panama, 1973) e The Revenge of Milady (Panama-Spagna, 1975) ai Three Musketeers (USA, 1948) di George Sidney e a Les ferrets de la reine e La vengeance de Milady (Francia, 1961) di Bernard Borderie. E si potrebbe continuare a lungo intaccando anche altre storie del genere “cappa e spada”. Ma se in queste pellicole rimaniamo nella stessa epoca quanto ad ambientazione, diversa diventa l’impostazione del racconto e il suo significato. Solo una citazione aggiuntiva per I tre moschettieri (The Three Musketeers)  del 2011 diretto da Paul W. S. Anderson, in quanto si tratta di un film fantasy che può fungere da elemento di congiunzione con gli analoghi film cinesi.

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Cyrano de Bergerac, di Jean-Paul Rappeneau (Francia, 1990), con Gerard Depardieu

L’altro parallelo può essere infatti compiuto con i film asiatici, in particolare quelli di Hong Kong di derivazione letteraria, in cui la figura del letterato-maestro d’arti marziali o dello studioso-spadaccino enormemente diffusa. Ricordiamo alcuni dei film più noti anche in occidente: Gli omicidi farfalla (Diebian, 1979, di Tsui Hark), La fanciulla cavaliere errante (Xianu, 1970, di King Hu) e il fantastico Storia di fantasmi cinesi (Qian nu Yohoun, 1987), diretto da Siu-Tung Ching. Qui le doti dell’eroe sono dilatate all’estremo, egli eccelle nelle attività di pensiero come in quelle d’azione. Lo studio e l’arte della spada si accompagnano in universi spesso degradati in cui il romanticismo dei personaggi (melò) si alterna a furibondi combattimenti il cui premio è la vita stessa.

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Cyrano de Bergerac, di Jean-Paul Rappeneau (Francia, 1990), con Gerard Depardieu

Nota
L’articolo originale venne scritto attorno al 1990, dopo l’uscita del film di Jean-Paul Rappeneau. L’ho riletto, rivisto e ripulito.

Divismo vecchio e nuovo

Modelli del divismo
di Enzo Kermol

John Wayne

John Wayne in “Ombre rosse”

Il divismo sorto all’inizio del secolo, e giunto sino a noi attraverso continue trasformazioni, si basa nella sua costituzione, rispetto alle forme storicamente precedenti, soprattutto sull’elemento visivo. Anche precedentemente l’immagine costituiva un elemento fondamentale, ma rispetto all’avvento del cinema con la sua essenza visiva, i mezzi a disposizione in tal senso erano ridotti ed erano minori le occasioni di riprodurre l’effige del divo.

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Arnold Schwarzenegger in “Conan il barbaro”  

Inoltre la distribuzione sommaria di disegni, e più tardi delle fotografie, non può minimamente paragonarsi alla divulgazione capillare dell’immagine cinematografica prima e televisiva poi. In ogni caso e stata proprio l’utilizzazione intensiva del vedere che ha permesso la nascita dell’archetipo del divismo. In seguito, sempre attraverso l’uso dell’immagine, la funzione sociale del divismo si e dilatata progressivamente aumentando la propria influenza, sviluppando i suoi modelli di riferimento, inserendosi nei vari settori della comunità.

L’uso di ciò che si vede per la creazione di forme d’arte non e certo una metodologia recente, infatti “l’attività creatrice di immagini sia che si tratti di arti plastiche, di musica o di tragedia, e, secondo Platone, compresa nel campo della mimetica o attività imitatrice” (1).
L’elemento visivo era dunque ben utilizzato nel mondo classico: “Le phantasiai dei Greci, che i romani designavano con il termine visiones costituivano le visioni immaginative tramite le quali le immagini delle cose assenti sono presentate all’anima in modo tale che sembra di percepirle con gli occhi e di averle presenti. Tali phantasiai si sono sviluppate da quando l’uomo e riuscito a simbolizzare e si deve ad esse la capacita umana di costruire la favola e il mito” (2). Favola e mito generano vari tipi di eroi, che si possono conoscere attraverso la letteratura classica, dalle tragedie greche fino a quella del Rinascimento. Possiamo quindi continuare in questo apprendimento, esaminando la letteratura moderna, arrivando ai modelli contemporanei, in cui le figure di eroe e divo tendono sostanzialmente a fondersi.

Il segno di Zorro

“Il segno di Zorro”

La narrazione orale prima e la carta stampata poi hanno avuto fin dalle origini il compito di trasmettere gli elementi che contribuiscono al mantenimento dello status divistico. Quest’opera fondamentale e continuata anche durante il periodo aureo del divismo cinematografico, cedendo infine il ruolo di mezzo principale della persuasione (occulta e palese) alla televisione, sul finire degli anni sessanta. Precedentemente, ad esempio i divi del teatro ottocentesco, trovavano nel medium per eccellenza della loro epoca, la stampa quotidiana e periodica – ed anche attraverso l’immagine prima disegnata e poi fotografata, su locandine, giornali e ritratti – l’elemento fondamentale per la costruzione, e quindi per la conservazione, del proprio ruolo divistico.
La recitazione, cioè la propria capacita artistica, non poteva essere utilizzare in maniera adeguata per alimentare il divismo a causa del numero relativamente basso di rappresentazioni teatrali che l’attore poteva interpretare, sia in una singola sede che in assoluto durante la propria carriera. Di conseguenza anche il pubblico aveva una possibilità ancora minore di vedere il proprio divo, sia a teatro che in altre occasioni di apparizioni mondane, rispetto alla quantità di volte in cui il fan “ideale” potrà vedere in seguito il divo preferito.

John Wayne (2)

John Wayne in “Ombre rosse”

Il fenomeno del divismo muta radicalmente con l’avvento, e la successiva ampia diffusione, del media cinematografico. Il divismo assume una nuova dimensione molto più composita, nella quale la possibilità di vedere il proprio divo diviene ripetibile per il devoto ammiratore, e quindi praticamente infinita. Nello stesso tempo la stampa specializzata si trasforma e si rafforza, contribuendo di conseguenza ad irrobustire il nascente mito del nuovo divismo.
Metz conferma questa teoria dichiarando che “il significante cinematografico e percettivo (visivo e uditivo). Lo e anche quello della letteratura, poiché occorre leggere una catena di parole scritte, ma quel significante interessa un registro percettivo più ristretto: solo dei grafemi, una scrittura. Lo e anche quello della pittura, della scultura, dell’architettura, della fotografia, ma ancora con dei limiti che sono diversi: assenze della percezione uditiva, assenza nel visivo stesso, di certe dimensioni importanti come il tempo e il movimento (c’e ovviamente il tempo dello sguardo, ma l’oggetto osservato non si iscrive in un segmento preciso del tempo, con le sue consecuzioni obbligate e esterne allo spettatore). Il cinema e più percettivo di molti altri mezzi di espressione” (3).
Grazie al momento di grande espansione del cinema, il divismo si trasforma da elemento di garanzia per la vita e lo status di un ristretto numero di beneficiari, a mezzo che supporterà un’ampia struttura economica e porterà a un grande coinvolgimento sociale strati sempre più ampi di popolazione. La cinematografia sarà lo strumento che permetterà il verificarsi di questa prima fase del “nuovo” divismo.

Maciste Alpino - Bartolomeo Pagano

Bartolomeo Pagano in “Maciste Alpino”

“L’edificazione dell’industria comincio con la produzione di film a soggetto in numero tale da consentire frequenti cambiamenti dei programmi di proiezione e, quindi, un adeguato flusso di entrate che giustificassero la costruzione di locali stabili per gli spettacoli” (4).
Visto ormai in un’ottica industriale, il divismo viene interpretato come un meccanismo soggetto alle leggi dell’economia di mercato che permette ingenti investimenti finanziari ed enormi utili. In tal modo si modifica, improvvisamente, la sua funzione originaria, adeguandola alla mutata situazione richiesta dalla società.
Il cinema diviene, dal punto di vista produttivo e distributivo, una struttura dominata da un gruppo economico e culturale vicino all’elite politica che controlla lo Stato, in maniera più palese nei regimi totalitari, meno evidente nelle democrazie liberali. L’attore (sono più frequenti i casi maschili) proclamato “divo”, grazie ai notevoli capitali ottenuti da questo status, spesso diviene successivamente anche produttore finanziario di film, raggiungendo in tal modo il controllo dei mezzi di produzione e distribuzione. Altrettanto di frequente il divo (in questo caso sono maggiori le dive) entra a far parte dell’elite politico-economica in seguito al matrimonio con un suo esponente.

L'aereo più pazzo del mondo (2)

“L’aereo più pazzo del mondo”

Anche la televisione, in seguito alle modifiche intervenute nella diffusione dei media, con il declassamento del cinema, subentra nella struttura economica informativo-spettacolare con le stesse caratteristiche del suo predecessore. Nelle strutture del divismo televisivo, l’appartenenza dei divi all’elite di potere diviene ancora più evidente ed immediata. Inoltre la televisione viene gestita prevalentemente dal potere politico, sia direttamente con la suddivisione delle reti di proprietà dello Stato fra i partiti parlamentari, sia con il controllo indiretto delle maggiori reti private nazionali (o viceversa, reti nazionali controllano movimenti politici). Nel caso dell’Italia esiste anche, da parte del gruppo di potere politico-economico, il controllo di emittenti dei paesi confinanti che trasmettono in lingua italiana sul territorio nazionale come, ad esempio, Telemontecarlo e Telecapodistria.
Questa situazione desta interesse, poiché si colloca in una posizione vicina a quella analizzata dalla teoria marxista del divismo, dove lo Stato, agenzia della classe dominante, utilizza la televisione come fonte principale delle notizie divistiche: da informazioni sulla vita privata dei divi, li presenta in tutti i modi possibili, fa nascere rubriche di pettegolezzo su di loro, li crea e li distrugge nell’arco di pochi giorni o ne mantiene la notorietà per lunghi periodi di tempo.
La terza categoria mediale del divismo, la stampa quotidiana e periodica – sul cui reale pluralismo si può esprimere più di un dubbio, come ci illustra, rimanendo nel solo ambito cinematografico, tutta la filmografia da Quarto potere (Citizen Kane, USA, 1940, di Orson Welles) in poi – non detiene piu un ruolo fondamentale nella propagazione del modello divistico, ma continua sempre ad esserne un valido supporto, soprattutto nella propagazione di indiscrezioni ed episodi biografici “originali”.
L’area del cosiddetto privato, presente in tutte le società, e quella in cui agisce il pettegolezzo collettivo. A seconda del tipo di società, cioè se in essa viene esercitata una maggiore o minore forma di controllo per individuare eventuali comportamenti devianti, avremmo o meno un’area preclusa all’osservazione collettiva. Questa suddivisione, valida per tutta la popolazione, sembra non esserlo più quando si parla di soggetti divistici. Nel caso dei divi esiste apparentemente solo un’area pubblica, con uno spazio privato praticamente nullo.
“Apparentemente” poiché noi sappiamo solo ciò che ci viene riportato dai media e non abbiamo notizie di prima mano sulla situazione nella vita “reale” dei divi. “Il divismo si può costituire solo in una grande società in cui manca la possibilità di interazione diretta prolungata col divo, ma in cui le informazioni che lo riguardano sono mediate dai mezzi di comunicazione a distanza” (5), scrive Alberoni e, per supportare tale affermazione elabora una teoria in cui “il fatto che in un sistema stazionario ogni aspirazione alla modificazione del proprio status sia vissuta come socialmente pericolosa sottende un meccanismo di pensiero per cui l’acquisizione, da parte di qualcuno, di qualcosa in più ha il significato di un danno portato agli altri … questo meccanismo tende a scomparire in un sistema economico in cui i beni sono in quantità non finita, ma addirittura accrescibile illimitatamente attraverso un certo tipo di azione individuale e collettiva, razionalmente volta ad accrescerli”.
L’errore di chi ha analizzato in questo modo il fenomeno e quello di continuare a considerare i divi solo come un’emanazione del cinema o, per estensione, del settore dello spettacolo in generale, connotando come negativa, immorale, questa categoria e di conseguenza perniciosa per i ruoli pubblici di potere, che invece sarebbero “altamente morali”, e di non prendere in considerazione l’ipotesi secondo la quale coloro che formano l’elite di potere si comportano proprio come i divi cinematografici, anche perche ricoprono dei ruoli divistici simili a quelli, ma in un’altra categoria sociale. Infatti “gli eroi e i divi forniscono ai membri di una società dei modelli di comportamento ai quali conformarsi. L’imitazione appare già nei giochi infantili, ma non e mai fine a se stessa: nel gioco si attua una forma di imitazione in cui l’assimilazione domina sull’accomodamento” (6). Ed e ovvio che i modelli ricoprono tutto lo spettro visibile delle professioni (vuoi per motivi cinematografici, letterari, televisivi, di vicinanza, ecc.). Nella teoria piaggettiana l’imitazione (che risulta utile a spiegare il valore di modello raggiunto dal divismo) deriva da tre tipi diversi di giochi.

John Wayne (3)

Nell’infanzia appaiono dapprima i giochi di esercizio che sono poco stabili perche hanno funzione vicaria: “essi sorgono insieme ad ogni nuova acquisizione e scompaiono dopo saturazione” (7). Si passa quindi ai giochi simbolici, attraverso l’acquisizione di uno schema simbolico al posto di uno schema sensorio-motore che regola i precedenti. Allorché lo schema simbolico diviene simbolismo collettivo questo “può generare la regola, donde la possibile trasformazione di giochi di finzione in giochi di regole” (8). “La vita affettiva, come quella intellettuale, e un adattamento continuo e i due adattamenti sono al tempo stesso paralleli e interdipendenti poiché i sentimenti esprimono gli interessi e i valori delle azioni di cui l’intelligenza costituisce la struttura. Il pensiero simbolico, secondo Piaget, e la sola presa di coscienza possibile dell’assimilazione tipica degli schemi affettivi: e una presa di coscienza incompleta, e di conseguenza deformante, proprio a causa della carenza di accomodamento che e insita nella natura simbolica stessa dei rapporti di gioco. Per questo il pensiero simbolico, pur traducendo gli schemi in immagini, (e non in concetti o relazioni) si modella sull’organizzazione o assimilazione di questi schemi. Il pensiero simbolico resta dunque prelogico, come il pensiero intuitivo. La condensazione, caratteristica di questi due tipi di pensiero, consiste nel costruire” (9) “un significato comune ad un certo numero di oggetti distinti, il che permette appunto di esprimere la compenetrazione di più schemi affettivi che assimilano l’una alle altre situazioni diverse e spesso lontane nel tempo” (10). In questa fase del pensiero simbolico possono essere inseriti l’epica, le arti, e soprattutto i miti, le immagini e i modelli imitativi. Il pensiero simbolico si caratterizza come una parte dello sviluppo della mente umana, che può trasformarsi in elemento stabile, provocando quei fenomeni di squilibrio tra assimilazione e accomodamento da cui deriva l’imitazione dei modelli che proprio dal pensiero simbolico traggono origine.

Chaplin

Charlie Chaplin

Posti nell’infanzia i primi elementi di imitazione dei modelli divistici, resta da vedere come si “costruiscono” in seguito. Quali sono gli elementi che permettono di “creare” un divo (ad esempio del cinema o della televisione, ma un’analisi simile puo essere compiuta per qualsiasi genere sociale che produce divi) in grado di divenire un modello sociale soggetto ad imitazione? La figura divistica deve essere composta da una serie di elementi, le qualità, che possono differenziarsi a seconda del tipo di divo richiesto (dipende dal genere cinematografico in cui agirà: comico, avventuroso, commedia brillante, pornografico) e dalla fascia di pubblico a cui e principalmente indirizzato (intellettuale, d’essai, popolare, giovanile, per famiglia).
Appaiono cosi fondamentali le categorie costitutive (le qualità) dei modelli divistici. Ne elenchiamo un buon numero, sufficienti a descrivere ogni tipo di divo, raccolte in coppia con i loro opposti che, ha seconda del ruolo sociale ricoperto saranno di volta in volta considerate valide: bellezza-forza-debolezza, simpatia-antipatia, intelligenza-stupidita, violento-pacifico, altruista-egoista, sessualmente monogamo-sessualmente promiscuo, divertente-noioso, amante della famiglia-negatore della famiglia, stabile-vagabondo, comune-straordinario, vincitore-perdente, grande-piccolo, con abilita particolari-privo di abilita, atletico-sedentario, tormentato-sereno, complicato-semplice. Questo elenco e composto dalle qualità personali, e da quelle più genericamente umane, che compongono la figura del divo. Esaminiamo, a titolo d’esempio, alcuni modelli maschili riferiti a generi prettamente cinematografici: avventura, comico, commedia.

Leslie Nielsen (2)

Leslie Nielsen in “Una pallottola spuntata”

Nell’avventura la componente fisica ha una grande importanza (anche se vi sono controfigure, modellini o effetti speciali). Che si tratti di Maciste (Bartolomeo Pagano) in Maciste alpino (1916, I, di Giovanni Pastrone), di Zorro (Douglas Fairbanks) in The Mark of Zorro (Il segno di Zorro, USA, 1920, di Fred Niblo), di Ringo (John Wayne) in Stagecoach (Ombre rosse, USA, 1939, di John Ford), o di Conan (Arnold Schwarzenegger) in Conan the Barbarian (Conan il Barbaro, 1982, USA, di John Milius), tutti questi eroi del cinema dovranno avere una corporatura atletica, muscolare, risultare vincitori, simpatici, possedere tutte le caratteristiche positive enumerate nella scala di valori con cui si costruiscono i divi e attenersi, anche nella vita “privata”, ai principi ed ai valori portati sullo schermo, con pena, altrimenti, di una riduzione di notorietà e conseguenti benefici economici.

Buster Keaton

Buster Keaton in “The General”

Il comico, proprio per la sua derivazione circense, deve apparire buffo anche nel corpo: per contrapposizione, un attore grasso e uno magro (Stan Laurel e Oliver Hardy), laido e debordante (Paolo Villaggio), maschera impassibile (Buster Keaton), ritardato mentale (Charlie Chaplin). Negli ultimi anni il cinema statunitense ha ridotto questa derivazione clownesca presentando i caratteri fisici dei protagonisti come simili a qualsiasi altro genere, accentuando invece, per saturazione, le “situazioni comiche” come in L’aereo più pazzo del mondo (Airplane Flyng Hight, USA, 1980, di David e Jerry Zucker), in Una pallottola spuntata (The Naked Gun, USA, 1988, di David Zucker), e con una minor riuscita, in Hot Shots! (id., USA, 1991, di Jim Abrahams).

Stan Laurel - Oliver Hardy

Stan Laurel e Oliver Hardy

Nella commedia ritroviamo un’attenzione inferiore per le caratteristiche del corpo, ne atletico-avventuroso, ne grottesco-comico, mentre vi e una maggiore considerazione nella scelta dei lineamenti del volto, e un’egual oculatezza riferita alla sua espressività. Un caso limite e stato quello di Danny De Vito, che non e mai sembrato cosi “piccolo” e “rotondo” come in I soldi degli altri (Other People’s Money, USA, 1991, di Norman Jewison). In alcune inquadrature i movimenti di macchina ne rivelano una corporatura bassa e tozza. Nondimeno il volto curatissimo, e le inquadrature “alte” ne fanno un eccellente interprete. Sempre nella commedia arriviamo all’altro estremo, quello della trasandatezza degli attori italiani, i meno curati, sia nel corpo che nel volto, un po’ordinari in tutte le loro manifestazioni, che appaiono in film piuttosto grossolani.

Leslie Nielsen

Leslie Nielsen in “Una pallottola spuntata”

Queste brevi considerazioni sono ovviamente valide anche per le dive. Alcuni autori tuttavia approfondiscono i loro studi nei riguardi degli stereotipi femminili. Tessarolo e Giust prendono in considerazione quattro modelli di donna: “la donna idealizzata, la donna d’azione, la donna oggetto e la donna narcisus” (11). Si tratta dei modelli, sulla cui base vengono costruite le dive, si ritrovano sia nel cinema, nelle soap-opera e nella pubblicità. La donna idealizzata rappresenta il modello classico di riferimento per la donna che si occupa dell’andamento dalla casa, dei figli, della famiglia, con una lieve connotazione sessuale. La donna d’azione decisionista, con attività lavorativa extradomestica, con caratteristiche proprie dei modelli maschili, ma per eccesso e compensazione. Sessualità media. La donna oggetto, termine un po’ abusato, per indicare il modello femminile “estroverso”, diretto cioè ad essere supporto per i prodotti che la circondano. In pubblicità carica di fascino e sessualità tutto ciò che la circonda. Nei film le movenze plastiche-feline inducono alla completa assimilazione del modello. Sessualità fortissima. Infine il modello donna “narcisus” che si riferisce ad una donna “rivolta esclusivamente a se stessa e intenta alla cura morbosa e frenetica del proprio corpo”, modello di creme e cerette per la pubblicità, di media presenza nelle soap-opera, marginale al cinema. Sessualità media ma sublimata.

modelle

Modelle

In tutte queste suddivisioni l’elemento visivo ritorna prepotentemente alla luce, facendoci riflettere sull’importanza dei modelli divistici, e sulla loro pesante influenza nella vita quotidiana. Ad esempio la modella Claudia Schiffer, una diva nel settore della moda, la più nota top-model del momento, accumula in se tutte le caratteristiche della donna più bella e quindi più desiderabile. Zigomi, occhi, altezza, dimensioni del corpo. Ma cosa indicano questi parametri? Individuano gli elementi che socialmente rappresentano la sessualità, cioè il grado di fecondità, perciò il grado (la possibilità) di riproduzione della specie. Se certi elementi sembrano universali (ad esempio gli occhi grandi) altri come colore, foggia, lunghezza dei capelli, variano da società a società, e all’interno di ognuna variano tra le diverse classi economiche. Se osserviamo la foto di una particolare diva contemporanea probabilmente ne saremmo attratti. Ma fra qualche anno la stessa immagine, soppiantata da quella di un’altra diva risulterà possedere un minor valore nella scala della bellezza, e qualche anno più tardi magari non rientrerà neppure nella graduatoria dei valori sociali. Tale esperimento lo si può compiere anche a ritroso nel tempo osservando le foto di dive ritenute come modelli di bellezza negli anni venti, quaranta e sessanta. Si noterà, nella maggior parte dei casi un notevole discostamento dai modelli contemporanei. La conclusione e abbastanza ovvia: non esiste alcun modello naturale – nel divismo e nella vita quotidiana – ma solamente il risultato di adeguati condizionamenti compiuti attraverso i media (12).

Note

(1) Vernant J.P. (1982), Nascita di immagini, Milano, Il Saggiatore.
(2) Tessarolo M., Orviati G. (1986), La percezione dell’eroe nell’adolescenza, in “Orientamenti pedagogici”, XXXIII, n. 6.
(3) Metz C. (1977), Le significat imaginaire. Psychanalyse et cinema, Paria, Union Generale d’Editions. Tr. it. (1980), Cinema e psicanalisi. Il significante immaginario, Venezia, Marsilio Editori.
(4) Jarvie I.C. (1970), Towards a Sociology of the Cinema. A Comparative Essays on the Structure and Functioning of a Major Entertainment Industry, London, U.K., Routledge & Kegan Paul. Tr. it. (1977), Una sociologia del cinema, Milano, Franco Angeli.
(5) Alberoni F. (1963), L’elite senza potere, Milano, Vita e pensiero.
(6) Tessarolo M., Orviati G. (1986), op. cit.
(7) Piaget J. (1945), La formation du symbole chez l’enfant, Neuchatel, Delachaux & Niestle. Tr. it. (1972), La formazione del simbolo nel bambino, Firenze, La Nuova Italia.
(8) Piaget J. (1945), op. cit.
(9) Tessarolo M., Orviati G. (1986), op. cit.
(10) Piaget J. (1945), op. cit.
(11) Giust F., Tessarolo M. (1985), L’immagine della donna nella pubblicità, in “Sociologia della comunicazione”, IV, n. 7.
(12) Giunge conferma alle tesi esposte nel saggio di Imbasciati A., La prospettiva psicologica, in Braga G. (1973), Cinema e scienze dell’uomo, Roma, Bianco e Nero: “I mass-media si avvalgono in larghissima parte di una comunicazione visiva attuata per immagini: le immagini sembrano aver sostituito la scrittura, e il linguaggio delle immagini la lingua codificata, scritta o parlata; si parla cosi di linguaggio iconico e di civiltà dell’immagine. In effetti i mass-media per eccellenza, la televisione, il cinema, la pubblicità, esprimono e comunicano appunto attraverso immagini: d’altra parte la stampa – un mezzo di comunicazione più tradizionale – si e in questi ultimi lustri completamente rinnovata, puntando principalmente sulla comunicazione per immagini, anziché su quella scritta; basti pensare alla diffusione del fumetto, del rotocalco, del fotoromanzo”.

La simulazione

Giocare, simulare e recitare

di Enzo Kermol

Il concetto di “gioco” è compreso da tutti, sia dagli adulti che dai ragazzi, per i quali può sembrare un elemento istintivo. Una parte delle attività ludiche normalmente eseguite consiste in rappresentazioni simulate della realtà nelle quali i partecipanti ricreano particolari situazioni ambientali e interpretano il ruolo di personaggi prefissati. La gamma di tali attività si estende dalle finzioni infantili di impersonificazione di figure semplici ai processi simulati di esercitazione per i professionisti e alla complessa organizzazione di corsi di formazione. Negli anni Settanta infatti ci si rese conto che gli elementi del gioco di simulazione potevano essere trasferiti, adattati e impiegati nelle tecniche di apprendimento, sia nella scuola sia nell’istruzione degli adulti. Da qui un’ulteriore diffusione di pratiche raggruppabili nel concetto di “gioco”. Secondo Taylor e Walford “nell’ambito del vasto spettro della simulazione accade che i partecipanti:

  • Assumano ruoli analoghi a quelli del mondo reale e prendano quindi decisioni rispondenti alla loro valutazione dell’ambiente in cui si trovano;
  • sperimentino in proprio le conseguenze simulate connesse alle loro decisioni e prestazioni;
  • verifichino i risultati delle loro azioni e siano indotti a riflettere sulle relazioni fra decisioni prese e conseguenze che ne sono derivate”[1].

Come affermano Taylor e Walford, giocare e recitare sono attività insite nell’uomo, in particolare nel bambino per il quale il gioco è un modo per divertirsi ed esercitarsi ad entrare nella vita adulta. Le prime manifestazioni di semplici giochi di simulazione si verificano dopo il compimento del primo anno di vita. Solamente più tardi, verso i tre anni, il bambino attribuisce agli oggetti un ruolo diverso, rispetto a quello che hanno nella realtà, fingendo che gli oggetti siano qualcosa di altro, per poi passare a “fingere di essere qualcun altro” verso i cinque anni. Un ulteriore passo in avanti si ha quando il bambino, a sei anni circa, programma consapevolmente, attribuendo non solo a sé stesso ma anche ad altri bambini dei ruoli, (inteso come “role-playing”). Negli anni successivi i bambini arricchiscono questi giochi di ruolo con regole che vengono così chiamati “giochi di simulazione”. L’adulto osservando queste attività innate nel bambino ha colto le potenzialità di esse trasferendole nell’età adulta e utilizzandole in un modo più sofisticato e consapevole. Il role-playing, per esempio, a partire dagli anni Trenta, è stato utilizzato all’interno di gruppi ristretti “come strumento per estendere la ricerca sul comportamento umano in vari campi di studio e adottarlo anche come forma di terapia per malattie mentali. Appena negli anni Settanta ha avuto un ulteriore sviluppo nel campo dell’istruzione degli adulti; dalla semplice simulazione usata nei colloqui per l’assunzione al lavoro, il metodo si è diffuso in molti altri settori”[2].

Dai giochi con regole discendono i giochi “gaming-simulation” che sono “simulazioni che si svolgono in forma di gioco, e che possiamo definire tecniche di manipolazione di un modello (simulation) attraverso l’assunzione di ruoli (role) sottoposti a regole (game). Simulation – role – game sono le tre coordinate che delimitano il campo della “simulazione giocata”[3]. Per D’Andrea, il role-playing, inteso come assunzione di ruoli, è “un’attività dove un certo numero di persone si riunisce attorno ad un tavolo con dadi e matite ed inventa un mondo nel quale si svolge una storia: ciascun giocatore crea un personaggio che affronterà in sua vece situazioni rischiose, esotiche, comunque avventurose e lo gestisce attraverso la sequenza di avvenimenti che costituiscono una campagna, descrivendone le azioni, impersonandolo ed interpretando la sua parte in dialoghi e scambi vari”[4].  Gli attori sono i giocatori, il regista e coordinatore – il master – è colui che lega le azioni in una trama coerente ed è responsabile della loro ideazione. Egli descrive oralmente ai giocatori l’ambiente circostante, gli oggetti o creature che vi si trovano ed impersona tutti i personaggi con cui questi vengono in contatto. Occorre solo che i partecipanti accettino una nuova identità, entrino nei panni altrui e agiscano e reagiscano in modo conseguente quanto meglio possono.

I giocatori per iniziare la partita, hanno bisogno di dadi, questi sono sì il simbolo della casualità, ma di una casualità influenzabile. Più esattamente, vengono utilizzati in chiave probabilistica, il loro risultato viene di volta in volta modificato da coefficienti scaturiti dall’applicazione di altre regole; (la stessa cosa avviene anche nei boardgame – o giochi da tavolo). Le personalità dei giocatori sono definite da valori numerici assegnati ad alcune caratteristiche, in linea di massima generati per tiro di dadi. Questi valori numerici, oltre ad avere riflessi sull’azione di gioco, sono vincolanti per la recitazione del giocatore. L’assunzione di un ruolo immaginario da parte del giocatore è governata quindi da una serie di regole.

“Ciò che veramente conta nel role-playing è l’immedesimarsi in un’altra persona. L’allievo è messo in condizione di sentire il suo ruolo, sulla base di informazioni essenziali. Segue poi l’esperienza della correlazione di questa nuova identità con le diverse situazioni degli altri partecipanti, il problema, è cioè di interagire con gli altri”[5]. Con questa partecipazione si spera che i protagonisti acquistino sia una  maggior comprensione di ruoli e rapporti diversi, sia una profonda consapevolezza delle proprie azioni e conseguenze annesse.

Le origini e lo sviluppo di questa tecnica risalgono allo psicodramma moreniano, nel “teatro della spontaneità”. Come ci racconta  Capranico ne è il padre lo psichiatra rumeno Jacob L. Moreno (1889-1974), “il gioco psicodrammatico consiste nell’evincere, superandoli, i limiti della verbalizzazione, del racconto, del self-report: modi che si prestano ad essere lenti, densi di astrattezze, di difese intellettualizzanti. Viene richiesto di agire drammaticamente il tema su una scena, interagendo con altri che rappresentano altri personaggi”[6]. Chiaramente vi sono elementi antecedenti, il teatro in primo luogo, come luogo in cui l’attore recita un ruolo. Mentre il secondo non può essere che il gioco. Negli anni Settanta il role-playing ha avuto uno sviluppo nel campo della formazione degli adulti. Da semplice simulazione usata nei colloqui di assunzione al lavoro, il metodo si è diffuso in molti altri settori educativi e formativi.

Secondo Giuliano simulation – role – game sono le tre coordinate che delimitano il campo della simulazione giocata. “Sono simulazioni che si svolgono in forma di gioco, e che possiamo definire tecniche di manipolazione di un modello (simulation) attraverso l’assunzione di ruoli (role) sottoposti a regole (game)”[7].

Il termine “game” implica la nozione di regole che stabiliscono i limiti concessi alle decisioni da prendere, agendo come meccanismo semplificatore e restrittivo. I giochi impegnano gruppi di giocatori – di coloro cioè che prendono le decisioni – collocati in un ambiente descritto e limitato da sistemi di regole e da metodi di procedura. Nelle simulazioni giocate per prima cosa si precisa una situazione di partenza e si forniscono alcune informazioni sul modo in cui la simulazione dovrebbe svolgersi. Giuliano sostiene che una caratteristica che accomuna la simulazione giocata è il fatto di includere una “assunzione di ruoli” da parte dei giocatori. I partecipanti vengono invitati ad assumere una condotta coerente in vista di uno scopo generale, vincolata dall’ambiente fittizio costituito dalle regole del gioco.

L’introduzione del computer non ha modificato i denominatori comuni delle “simulation – gaming” (assunzione dei ruoli e creazione di regole) menzionate da Giuliano e D’Andrea, ma ha permesso, secondo Taylor e Walford di “sveltire il gioco, far fronte alla complessità dei calcoli, assicurare il massimo grado di precisione”[8]. La novità consiste nel fatto che esistono tipi di simulazione “uomo contro elaboratore” in cui l’elaboratore stesso rappresenta una fonte di materiale e un avversario instancabile comunque lo si affronti. Le tecniche di simulazione con l’impiego dell’elaboratore sono state applicate sia ad argomenti seri che argomenti frivoli[9]. Con l’elaboratore si ha la possibilità, di riprodurre e ricreare le più svariate situazioni di simulazione: dagli incontri di pugilato, alle partite di calcio con giocatori appartenenti ad epoche diverse, e via dicendo. Nel campo educativo, secondo Taylor e Walford, si dispensa anche l’insegnante da tutte quelle ripetizioni che possono rivelarsi necessarie per consolidare l’apprendimento e aggiungervi una nuova dimensione di interesse e di esperienza. Tuttavia già prima dell’introduzione del computer “nelle scienze sociali la simulazione aveva trovato applicazioni prima di tutto all’interno di attività che presentano situazioni di conflitto e delle quali si desiderano prevedere gli sviluppi. Risalgono al secolo scorso le simulazioni strategiche utilizzate dagli Stati Maggiori e poi sviluppate in forma di vero e proprio gioco (wargame) a partire dagli anni cinquanta”[10].

“I giochi d’affari (businnes game) derivano direttamente dai giochi di guerra e devono molto alle iniziative intraprese nel 1956 dalla “American Management Association” (A.M.A., Associazione americana dei dirigenti) che progettarono la “Top management simulation” (Simulazione per dirigenti di alto livello). Dal 1956 la simulazione fu introdotta come valido sistema di addestramento sia nelle università che lavoravano in quel campo, sia nelle industrie e nel commercio”[11]. Per Taylor e Walford l’approccio simulativo, proprio per la sua concreta aderenza alle diverse situazioni, può essere considerato un valido modo per tentare di gestire situazioni complesse e colmare così il divario esistente tra lo studio e la realtà: “Partecipare ad una simulazione dà modo di saggiare il mondo reale e perfino di prendere decisioni tipiche di quel mondo reale; tutto questo avviene in un ambiente privo di rischi, senza danneggiare né sé stessi né gli altri, né attrezzature costose, commettendo errori e imparando da questi, acquisendo, quindi, un’esperienza che più avanti potrà essere utilizzata in situazioni reali analoghe o pertinenti”[12].

Secondo Peters, Vissers e Heijne[13] molte volte è impossibile insegnare o formare studenti in situazioni reali; ad esempio perché la situazione è troppo complessa, o perché ad una persona viene richiesto di possedere una determinata conoscenza o delle abilità, prima che questa possa essere ammessa a quella situazione (ad esempio l’addestramento di un pilota e di un chirurgo). In questi casi l’insegnante può rivolgersi al gioco, o ad una qualsiasi altra forma di simulazione, per trasmettere la conoscenza desiderata.

 La progettazione e messa in opera del modello

In linea di massima secondo Taylor e Walford “la maggior parte delle simulazioni istruttive, che implicano procedimenti basati sul gioco, cercano di realizzare gli effetti desiderati nei modi seguenti: Presentando un’astrazione semplificata degli elementi essenziali delle situazioni, eliminandone aspetti banali o irrilevanti. Sforzandosi di rendere espliciti i rapporti essenziali e l’interazione di fondo tra i ruoli chiave. Facendo scorrere il tempo a un ritmo più veloce del normale affinché gli effetti dell’intervento su una situazione in divenire possano esser percepiti in modo chiaro. Consentendo ai partecipanti di provare in prima persona il peso delle conseguenze delle decisioni prese”[14].

All’interno di questo processo evolutivo, si identificano alcune fasi fondamentali.

  1. L’analisi preliminare:

Enucleazione del problema. Nella progettazione di una simulazione occorre prima di tutto definire con chiarezza lo scopo dell’esercizio. Enucleare lo scopo è una fase essenziale per garantire che le esigenze della simulazione siano ordinate in termini di priorità.

Determinazione del contesto. Una volta deciso lo scopo, occorre trovare un contesto particolare entro il quale la simulazione avrà luogo. A questo proposito si dovrà tenere presente l’argomento della simulazione.

Definire delle componenti del sistema. A questo punto si devono definire gli elementi essenziali del sistema, quantificarli e collegarli tra loro entro il sistema stesso.

  1. Aspetti pratici della produzione di modelli:

L’uso delle risorse. E’ necessario analizzare due elementi importanti che qui entrano in gioco, da un lato, il gruppo di partecipanti cui la simulazione è diretta e le risorse concrete di cui si dispone (dimensione degli spazi, tempo, ecc.) e dall’altro la problematica che si vuole rappresentare, che ha struttura organizzativa, rapporti, motivazioni e risultati suoi propri. Occorre ordinare e utilizzare accuratamente tutte le risorse per permettere la fusione dei due elementi, la simulazione va contenuta nei limiti di ciò che può essere credibilmente rappresentato e portato a termine.

Il funzionamento del modello. Tenendo presente la natura delle risorse si può tentare di riprodurre la natura dinamica del modello, cioè le sequenze che avranno luogo quando la simulazione verrà attuata. L’identificazione preliminare dei partecipanti e degli obiettivi è di fondamentale importanza, ma la chiave di volta della simulazione è l’andamento reale dello sviluppo delle interazioni che possono essere fatte derivare da scelte dei partecipanti che si traducono nelle deduzioni di loro azioni”[15].

Qualunque tipo di interazione si decida di adottare deve fondamentalmente rappresentare un’analogia con il processo che la simulazione cerca di mettere in luce. Occorre poi stabilire le sequenze del “come si gioca” e le regole restrittive che definiscano i limiti esterni del modello, alcune delle quali possono essere inserite nella struttura stessa del modello.

  1. Perfezionamento e prova di controllo:

La messa a punto delle regole. Una volta che le limitazioni dinamiche e operative del modello sono state decise, si possono creare vari sistemi di regole, che possono sia produrre direttamente quelle esistenti nella realtà, sia contenere qualche elemento artificiale, a seconda delle risorse disponibili. La maggior parte dei progettisti propende per il primo tipo di regole, in modo che la struttura del gioco rifletta fedelmente la realtà quali che siano le circostanze del gioco stesso.

L’accordatura del modello. L’ultimo stadio della progettazione richiede una accordatura del modello che assicuri risultati soddisfacenti. L’occhio critico del progettista esperto accorcia questa fase ripetitiva, ma quasi certamente si dovranno fare dei tentativi a vuoto per vedere quali problemi si presentano”[16].

Progettazione e applicazione di un gioco

Un contributo interessante all’approccio simulativo è stato dato da Peters, Vissers e Heijne secondo i quali “se utilizziamo le simulazioni per imparare o insegnare problemi o situazioni, in primo luogo creiamo un modello semplificato della situazione, successivamente impariamo o insegniamo qualcosa su questo modello e infine traduciamo i risultati, ovvero la conoscenza acquisita, e la applichiamo nella realtà” [17]. Il problema o la situazione che è all’oggetto dell’insegnamento, viene chiamato “sistema di riferimento”, esso è il punto di partenza per l’approccio simulativo. Se questo sistema di riferimento è troppo complesso, possiamo utilizzare un gioco per fornire ai partecipanti una nuova conoscenza oppure per offrire loro la possibilità di formazione con nuove abilità. Per creare un modello, descriviamo gli elementi del sistema di riferimento e i rapporti fra loro in termini di un altro noto e conosciuto sistema. Nel processo di traduzione del sistema di riferimento in un modello ludico semplificato, vengono applicati tre principi: riduzione, astrazione e simbolizzazione.

Riduzione: viene effettuata una scelta degli elementi presi dal sistema di riferimento che devono essere inclusi nel modello ludico; vengono inclusi gli elementi che sembrano di rilevanza e tralasciati quegli elementi che sono meno importanti.

Astrazione: implica che gli elementi inclusi nel modello ludico non siano necessariamente così dettagliati come lo sono in realtà: deliberatamente vengono semplificati per rendere il modello meno complesso.

Simbolizzazione:  gli elementi e i rapporti del sistema di riferimento vengono plasmati in una nuova struttura simbolica, in uno scenario, in ruoli, codici e simboli, che sono gli elementi base più importanti di un gioco[18].

Il processo di progettazione e di applicazione di un gioco viene illustrato da Vissers, Heijne e Peters[19].

Il sistema di riferimento deve essere tradotto in un gioco utilizzabile: ovvero dobbiamo capire bene le caratteristiche del sistema di riferimento e trasformare queste caratteristiche in elementi che costituiscono il gioco. Successivamente, il gioco viene fruito dai partecipanti, che acquisiranno così nuove informazioni, conoscenze ed esperienze. A seconda del tipo di applicazione e degli obiettivi del gioco, il risultato del “giocare un gioco” può avere un qualche interesse per il ricercatore o per gli stessi partecipanti. A tal ragione, le osservazioni e le esperienze fatte nella simulazione devono essere riportate al sistema di riferimento. Dopo la fase dell’ apprendimento o la fase pratica, i partecipanti dovranno quindi applicare la loro conoscenza o le loro abilità  acquisite nel gioco, nelle situazioni reali.

Il sistema di riferimento può essere considerato come il punto obiettivo per il processo ludico. Siccome il sistema referenziale è altresì il punto di partenza del processo ludico o di gioco, vediamo che il cerchio simulativo si chiude. Quando i giochi vengono applicati nel contesto descritto, il ragionamento di base è che noi siamo in grado di tradurre la conoscenza e l’esperienze acquisita, da un sistema all’altro. La portata entro la quale questa traduzione sarà una traduzione di successo, dipende tra le altre cose, dal grado in cui il gioco è una valida rappresentazione del sistema di riferimento. In altre parole, la forza delle nostre conclusioni circa il sistema di riferimento è determinata dalla validità o efficacia del modello di gioco.

In rapporto all’utilizzo del gioco nella ricerca, Raser ha definito la validità dei modelli nel modo seguente: “Si può dire che un modello sia valido fino al punto in cui l’analisi di quel modello fornisce gli stessi risultati che una ricerca simile avrebbe ottenuto in un sistema di riferimento” [20]. Qui la validità si basa sui risultati dell’utilizzo del modello.

Raser ha suggerito quattro criteri per la validità del gioco: la realtà psicologica, la validità strutturale, la validità del processo e la validità di previsione.

Il primo criterio per la validità è quello della realtà psicologica. Un gioco è valido fino al punto in cui  fornisce un ambiente che appare realistico per i giocatori. Se essi non riescono a vedere il gioco come reale, potrebbero mostrare un comportamento diverso rispetto a quello che mostrerebbero in una situazione di vita reale. Il risultato sarà che i comportamenti nel gioco non corrisponderanno ai comportamenti nel sistema di riferimento.

La validità strutturale è il secondo criterio di validità. Questo criterio viene formulato come segue: Un gioco è valido fino al punto in cui si può dimostrare che la sua struttura (la teoria, la base concettuale sulla quale esso è costruito) è isomorfica per quel sistema di riferimento. Il termine isomorfico indica che questi elementi ed i rapporti in entrambi i sistemi, non devono necessariamente essere simili, ma ci deve essere una congruenza fra di loro. (In questo caso tra gli elementi nel sistema di gioco e gli elementi nel sistema di referenza). Siccome noi cerchiamo di costruire un modello semplificato del sistema di riferimento, non è necessario che tutti gli elementi e i rapporti siano rappresentati nel modello di gioco. Pertanto, questo aspetto della validità implica che aspetti, caratteristiche molto importanti del sistema di riferimento dovrebbero essere inclusi nel modello di gioco secondo una modalità isomorfica.

La validità del processo, terzo criterio della validità, implica che: Un gioco è valido fin al punto in cui i processi osservati nel gioco sono isomorfici rispetto a quelli osservati nel sistema referenziale. Il precedente criterio dichiarava che ci dovrebbe essere una congruenza fra gli elementi nel sistema di gioco e gli elementi nel sistema di referenza. In modo analogo questo terzo criterio dice che ci dovrebbe essere congruenza tra i processi che hanno luogo in entrambi i sistemi.

L’ultimo criterio è la validità di previsione: Un gioco è valido fino al punto in cui esso è in grado di riprodurre dei risultati storici ovvero predire il futuro. Questo criterio fa riferimento alla precisione dei risultati del gioco: “Siamo in grado di fare una buona stima, valutazione o previsione di ciò che accade nel sistema di riferimento?” Noi possiamo verificare la validità di un gioco cercando di ricostruire le situazioni note. I risultati del gioco possono, quindi essere comparati con i risultati della realtà.

Si è detto che il modello, non può essere ancora considerato una simulazione. “Il simulatore è un modello dinamico, una formalizzazione di un sistema referente progettato per rassomigliare a un sistema dinamico”[21].Per rendere più chiari questi concetti di “modello”, “simulatore” e “simulazione”, Giuliano propone un esempio: “La  scacchiera con i pezzi degli scacchi è un modello; diventa un simulatore quando aggiungiamo le regole di movimento e di comportamento dei pezzi. La simulazione si ha quando due giocatori compiono scelte strategiche muovendo i pezzi sulla scacchiera in base alle regole”[22].

“Il simulatore diventa attivo grazie alla presenza di un “soggetto agente” (attore) che prende le decisioni che rendono operativo il modello dinamico. L’attore non deve essere necessariamente un essere umano, può essere un animale da laboratorio o un circuito elettrico. Un modello rappresenta alcune proprietà invarianti del sistema complesso di riferimento in modo tale che esso diventi accessibile all’esperienza di un attore. Un simulatore include le regole di manipolazione del modello da parte dell’attore, e quindi rappresenta il campo di variazione delle proprietà variabili del sistema, individuate durante la progettazione e affidate alle potenziali scelte strategiche dell’attore.

Una simulazione include l’attore che rende operativo il modello e riproduce il sistema di riferimento con le sue proprietà varianti e invarianti compresa la “produzione di senso” dell’attore, le strategie adottate e la sua “invenzione delle realtà. Restando nell’esempio degli scacchi, gli attori, in questo caso, sono i due giocatori; uno dei due potrebbe essere un computer, questo significa semplicemente che la simulazione (la partita) contiene un simulatore (il giocatore computerizzato) che consente di riprodurre “l’interazione strategica” dei due giocatori”[23].

Note

 

[1] Taylor J. L., Walford R., I giochi di simulazione per l’apprendimento e l’addestramento, Mondadori, Milano, 1979, pag. 17.
2] Taylor J. L., Walford R., I giochi di simulazione per l’apprendimento e l’addestramento, Mondadori, Milano, 1979, pag. 20.
[3] Giuliano L., La simulazione dei ruoli in La simulazione, Kermol E., Proxima Scientific Press, Trieste, 1994, pp. 167-168.
[4] D’Andrea F., L’esperienza smarrita. Il gioco di ruolo tra fantasy e simulazione, Rubbettino Editore, Catanzaro, 1998, pp. 15-16.
[5] Taylor J. L., Walford R., I giochi di simulazione per l’apprendimento e l’addestramento, Mondadori, Milano, 1979, pag. 17.
[6] Capranico S., Role Playing, Cortina editore, Milano, 1997, pag.1. Per approfondire l’origine del Role Playing rinvio direttamente al volume di Capranico, estremamente chiaro ed esaustivo sul funzionamento di questa tecnica.
[7] Giuliano L., La simulazione dei ruoli, in Kermol E., La simulazione, Proxima Scientific Press, Trieste, 1994, pp. 167-168.
[8] Taylor J. L., Walford R., I giochi di simulazione per l’apprendimento e l’addestramento, Mondadori, Milano, 1979, pag. 22.
[9] Taylor J. L., Walford R., I giochi di simulazione per l’apprendimento e l’addestramento, Mondadori, Milano, 1979, pag. 23.
[10] Giuliano L., La simulazione dei ruoli in La simulazione, Kermol E., Proxima Scientific Press, Trieste, 1994, pag. 167.
[11] Taylor J. L., Walford R., I giochi di simulazione per l’apprendimento e l’addestramento, Mondadori, Milano, 1979, pp. 24-25.
[12] Taylor J. L., Walford R., I giochi di simulazione per l’apprendimento e l’addestramento, Mondadori, Milano, 1979, pag. 47.
[13] Peters V., Vissers G., Heijne G., “The Validity of Games”, in Simulation & Gaming, Sage Publications, Vol. 29, n. 1, March 1998, pp. 20-21.
[14] Taylor J. L., Walford R., I giochi di simulazione per l’apprendimento e l’addestramento, Mondadori, Milano, 1979, pp. 52-53.
[15] Taylor J. L., Walford R., I giochi di simulazione per l’apprendimento e l’addestramento, Mondadori, Milano, 1979, pag. 54-55.
[16] Taylor J. L., Walford R., I giochi di simulazione per l’apprendimento e l’addestramento, Mondadori, Milano, 1979, pp. 56-57.
[17] Peters V., Vissers G., Heijne G., “The Validity of Games”, in Simulation & Gaming, Sage Publications, Vol. 29, n. 1, March 1998, pag. 21.
[18] Peters V., Vissers G., Heijne G., “The Validity of Games”, in Simulation & Gaming, Sage Publications, Vol. 29, n. 1, March 1998, pag. 27.
[19] Vissers G., Heijne G., Peters V., Spelsimulatie en bestuurskundig oderzoek (Gaming and research on public administration),Bestuurskunde, 4(4), pp. 178-187, 1995.
[20] Raser J.C., Simulations and society: an exploration of scientific gaming, Allyn & Bacon, 1969.
[21] Giuliano L., La simulazione dei ruoli in La simulazione, Kermol E., Proxima Scientific Press, Trieste, 1994, pp.164-165.
[22] Giuliano L., La simulazione dei ruoli in La simulazione, Kermol E., Proxima Scientific Press, Trieste, 1994, pag. 165.
[23] Giuliano L., La simulazione dei ruoli in La simulazione, Kermol E., Proxima Scientific Press, Trieste, 1994, pp. 165-166.

I film di spionaggio (Spy Movie)

La visione della società attraverso il genere cinematografico
Il cinema come strumento della comunicazione di massa, tra dinamiche politiche, propaganda e immaginario collettivo
di Enzo Kermol

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Premessa

La categoria dei generi cinematografici ha riscontrato notevoli difficoltà a imporsi nel panorama storico critico del cinema a causa della contrapposizione autore – genere. L’attuale analisi punta invece a un approfondimento non solo di origine “letteraria”, come sottolinea Costa, ma attento al processo di produzione e all’organizzazione del lavoro dapprima nello studio system, ora nell’industria dello spettacolo. Per produrre un film, e attualmente un serial, occorre una ferrea organizzazione che parte dall’analisi delle richieste di mercato fino alla confezione del prodotto ultimo (dal film in pellicola al DVD, dalla programmazione televisiva al merchandising). Parallelamente ogni genere può divenire “termometro” di variazioni sociali determinate dal numero e dalla tipologia di genere prodotto. Lo spy movie ben si presta a questa funzione. Vediamone le caratteristiche e le funzioni ricoperte dall’origine del cinema ad oggi.

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Gli attori che hanno interpretato James Bond

Il cinema fin dalla sua nascita è stato intimamente legato alla politica, alla società e alle manifestazioni del potere di governo del sistema dominante. Non è certo un caso che nel secolo scorso in tutti i regimi sia stato percepito come lo strumento principe della comunicazione di massa delle idee, dei principi e del modello sociale proposto. Per il fascismo Mussolini dichiarò “La cinematografia è l’arma più forte”, Goebbels ne fece il cuore della propaganda con autori sia documentaristici, come Leni (Helene Bertha Amalia) Riefenstahl, con cui ebbe un rapporto alterno, sia con la creazione di un sistema cinematografico divistico pari a quello hollywoodiano (pensiamo ad attrici come Zarah Leander, Ilse Werner) composto dal monopolistico blocco delle tre case di produzione (UFA, Tobis e Terra) della “fabbrica dei sogni” tedesca. Non da meno l’URSS in cui venne creata una sola grande industria di cinema di stato, o gli Stati Uniti in cui la produzione era fondata sullo “Star System” basato nella californiana Hollywood.

L’indagine

L’analisi dei vari componenti di questa parte dell’industria dello spettacolo permette, a distanza di tempo, di fornire un quadro dettagliato dell’intero schema sociale presente nel periodo storico prescelto. Una possibile metodologia consiste nell’analizzare una figura ricorrete, un personaggio, una “maschera” tipica dei ruoli cinematografici per dedurne, dai mutamenti occorsi negli anni, quali siano le categorie proposte o negate dal sistema politico vigente, quali siano i mutamenti di percezione sociale, e quali categorie risultano gradite in un determinato periodo storico e in una data connotazione geografica. L’altra possibilità è quella di analizzare i “generi” cinematografici, la loro prevalenza, distribuzione nel panorama generale di produzione, la presenza di “personaggi” particolari, la collocazione temporale del film (coeva al girato o anteriore se non addirittura successiva o fantastica).

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Best Bond Girls

Innumerevoli sono i “generi” cinematografici, anche se il termine stesso non è ben definito, ed anche quando lo è, si associa al termine “contaminazione” di altri generi che permette ogni variabile possibile. Pensiamo a quelli determinati geograficamente, come i film di samurai in Giappone, il “Peplum” nell’antica Roma mitologica, il western negli Stati Uniti, il cinema d’arti marziali cinese, o addirittura con doppia identità come il noir diviso fra il filone francese con il polar e quello statunitense con l’hard boiled. Rimanendo nei generi universali troviamo alcune linee guida come il thriller, il giallo, il poliziesco, lo spionaggio, il noir già citato. Ovviamente le linee guida sono sottili. Facciamo un esempio semplice: il western.

I puristi della critica indicavano una collocazione geografica limitata, dal fiume Mississippi all’oceano Pacifico, un periodo storico preciso, gli ultimi decenni del XIX secolo, un legame stretto con la descrizione di fatti ispirati dalla storia. In realtà il genere comprende tutto ciò che è avvenuto dallo sbarco di Colombo ai giorni nostri, dall’Alaska all’America latina, dalla storia alla fantascienza. Pensiamo a Vera Cruz (1954) o a Major Dundee (Sierra Charriba, 1964) ambientati in Messico, dove un gruppo di reduci della guerra civile combatte per i francesi. Oppure a Hud il selvaggio (1963), western contemporaneo, o al fantascientifico come gli zombie – western The killing box (1993) collocato durante la guerra civile statunitense o Undead or alive (2007), se non l’intera serie di Star Wars (primo episodio 1977) definita da alcuni come un western del futuro.
Da ciò deriva una serie di dubbi, un film ambientato durante la guerra di Secessione, come The Birth of a Nation (1915) o Glory (1989), si colloca nei western o nei film di guerra, mentre un film cantato, come Seven Brides for Seven Brothers (1954) diventa un musical o mantiene il genere d’origine. Inoltre Apocalypto (2006), temporalmente precedente all’arrivo degli europei nel continente americano, diviene un film d’avventura o rimane un western. Infine gli “spaghetti western” italo-spagnoli, come Per un pugno di dollari (1964), con Clint Eastwood, sono definibili come western veri e propri oppure divengono qualcosa d’indefinibile dato il remake da un film giapponese di Kurosawa. La considerazione che ne deriva è che se un genere in apparenza così “ristretto” come il western permette tali e tante divagazioni, oltre che relazioni, con altri generi, immaginiamo quali possono essere le variazioni in un genere invece “aperto” come il cinema di spionaggio.

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La definizione

Il periodo temporale può essere qualsiasi, senza alcun limite. L’azione può svolgersi in un lontano passato (cosa sono altrimenti le decine di rifacimenti di I tre moschettieri, l’ultimo The Three Musketeers (2011) di Paul W.S. Anderson, se non un film di genere sulla caccia alla spia Milady de Winter ) o in un lontano futuro, come I, Robot (2004) di Alex Proyas, (ricerca spasmodica di sofisticati programmi computerizzati apparentemente sottratti in una società profondamente degradata e ostile). Il tempo può addirittura non esistere, nel serial Da Vinci’s Demons (2013) l’agente segreto Leonardo Da Vinci (versione fantascientifica del genio multiforme) si sposta fra universi paralleli e continuum spaziotemporali in un gioco di contrasto di spie papali, medicee, massoniche e quant’altro si ritrova nella letteratura fantastico-fantascientifica. Restringendo il campo, per quegli storici del cinema più rigidi, si va dalla prima guerra mondiale all’attualità, con particolare attenzione al periodo bellico della seconda e della guerra fredda con l’URSS.

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“Nikita” di Luc Besson

Relativamente alla collocazione geografica nella prima ipotesi non vi sono limiti, dallo spazio di Moonraker (1979), la quarta pellicola di James Bond con Roger Moore, diretta da Lewis Gilbert, al profondo degli oceani di Thunderball (Operazione tuono, 1965), sempre con James Bond, ma interpretato da Sean Connery e diretto da Terence Young. Nella versione ristretta la collocazione è prevalentemente europea, con qualche rara punta di esotismo fra Nordafrica, America latina ed estremo oriente. La contaminazione. A essere estremisti diremmo che non può esistere un film di spionaggio non contaminato. Sia in versione calda o fredda spesso vi è una guerra sullo sfondo, come nel serial Strike Back (2010). Ed è impossibile immaginare il genere senza azione e avventura, vedi serial recenti come Alias (2001-2006) o Nikita (2010-2013). Non ultima la componente erotico sentimentale. Pensiamo a Casablanca (1942) di Michael Curtiz con Humphrey Bogart e Ingrid Bergman. Difficile etichettare questo film. Pure la prevalenza dei temi conduttori lo porterebbe nell’alveo dell’opera di spionaggio.

I contenuti

Ogni genere ha i suoi. Da cui derivano ulteriori classificazioni. Il cinema di guerra rappresenta un conflitto. Può essere macroscopico, come l’intera descrizione dell’evento bellico attraverso il pretesto della vita di un protagonista come in MacArthur (MacArthur, il generale ribelle, 1977) di Joseph Sargent con Gregory Peck, storia della vita del generale statunitense e della campagna del Pacifico nella seconda guerra mondiale. O di un eroe come Sergeant York (1941) di Howard Hawks con Gary Cooper, qui la vita di un uomo comune che attraversa la prima guerra mondiale divenendone il maggiore eroe americano. Oppure con taglio quasi documentaristico presentare un grande avvenimento, come in The Longest Day (1962) che narra i preparativi e l’attuazione dello sbarco degli Alleati in Normandia il 6 giugno 1944.

The Wild Geese - inside

The Wild Geese

Se invece l’opera predilige il tema di un “microcosmo”, abbiamo la storia di un piccolo gruppo inserito nello scenario di una guerra, che rimane sullo sfondo, dedito a compiere un’azione generalmente eroica come in Rambo (John Rambo, 2008), quarto capitolo della saga iniziata nel 1982, diretto e interpretato da Sylvester Stallone, dove un riluttante “guerriero” decide di passare all’azione per salvare alcuni ostaggi. Uncommon Valor (Fratelli nella notte, 1983) diretto da Ted Kotcheff e ambientato in Vietnam dopo il termine della guerra; anche qui un salvataggio di prigionieri dimenticati. The Wild Geese (I quattro dell’Oca selvaggia, 1978), un’operazione di recupero di un leader detenuto in Africa, diretto da Andrew V. McLaglen. Dogs of War (I mastini della guerra, 1980), un colpo di stato in Uganda, per abbattere un tiranno, diretto da John Irvin. Ma questi ultimi non sono solo film di guerra poiché nella prima parte di ognuno assistiamo a un’opera d’intelligence che permetterà lo svolgimento dell’azione bellica successiva.

Analogamente al cinema di guerra quello di spionaggio, vuoi per la stretta parentela, vuoi per alcuni “topoi” comuni si colloca sulla stessa linea. L’oggetto è lo spionaggio. Descritto in maniera realistica, come ad esempio Tinker Tailor Soldier Spy (La talpa, 2011) diretto da Tomas Alfredson, ispirato alla vicenda di Kim Philby, un agente doppiogiochista al servizio del KGB fino ai primi anni ‘60, durante la guerra fredda, tratto da un romanzo di John le Carré. Lo scopo è quello di verificare il periodo storico – sociale. O in The Third Man (Il terzo uomo, 1949) diretto da Carol Reed, scritto da Graham Greene, ambientato in una Vienna occupata dalle forze Alleate nell’immediato dopoguerra. Dall’altro lato film in cui predominano gli aspetti maggiormente legati al personaggio, alla sua missione, ad elementi avventurosi e sentimentali. Il prototipo ne è North by Northwest (Intrigo internazionale, 1959) diretto da Alfred Hitchcock con Cary Grant ed Eva Marie Saint, o l’intera serie dedicata all’agente segreto più noto in assoluto, James Bond, tratto dai romanzi di Ian Fleming.

VAN HELSING, Hugh Jackman, Kate Beckinsale, 2004, (c) Universal

Hugh Jackman e Kate Beckinsale in “Van Helsing”

La storia

La nascita di un genere è spesso avvolta in una spessa coltre di nebbia. Vuoi per la perdita delle pellicole infiammabili, e deteriorabili, delle origini, vuoi per il sostanziale oblio in cui cade un’opera cinematografica nel breve lasso di tempo successivo alla sua uscita e all’applicazione di una nuova tecnologia al successivo film (il montaggio, il sonoro, il colore, il miglioramento acustico, il 3D, la velocità di montaggio, gli effetti speciali, ecc.).
Ad ogni modo, il genere risale all’epoca del muto, dove si rappresenta soprattutto nell’ambito della Prima guerra mondiale. Un esempio è dato dal film inglese del 1914 The German spy peril di Bert Haldane, che narra di un attentato compiuto da spie nemiche per distruggere il parlamento, e nel 1928 da Spione (L’inafferrabile) di Fritz Lang tratto dal romanzo di Thea von Harbou, che introdusse alcuni elementi tipici del genere di spionaggio.

Tuttavia la derivazione complessiva del genere è letteraria, ed è relativamente semplice: si tratta di una specializzazione del giallo, della detective story che ha il suo capostipite convenzionale in Sherlock Holmes (1887) di Arthur Conan Doyle. Non a caso in alcuni racconti, L’interprete greco, La casa vuota e soprattutto ne L’avventura dei progetti Bruce-Partington, il detective deve “recuperare” situazioni che vedono coinvolti diplomatici o documenti per il fratello Mycroft, misteriosa eminenza grigia del governo britannico. Con L’avventura dei progetti Bruce- Partington, Conan Doyle crea sostanzialmente il punto di partenza del genere elencando gran parte degli elementi fondamentali del genere, come il segreto delle scoperte scientifiche e militari, la guerra imminente, la destabilizzazione del sistema sociale, l’avversario politico come simbolo del male.

Photo ID - 30529, Year - 1970, Film Title - PRIVATE LIFE OF SHERLOCK HOLMES, Director - BILLY WILDER, Studio - UA, Keywords - 1970, BILLY WILDER

Al cinema Sherlock Holmes si trasforma in “agente segreto” in The Private Life of Sherlock Holmes (La vita privata di Sherlock Holmes, 1980) diretto da Billy Wilder (deve salvare la Gran Bretagna dal furto di armi segrete durante la Prima guerra mondiale) e in The Seven-Per-Cent Solution (Sherlock Holmes: soluzione sette per cento, 1976) di Herbert Ross tratto dal romanzo di Nicholas Meyer. Anche in Sherlock Holmes: A Game of Shadows (Sherlock Holmes – Gioco di ombre, 2011) diretto da Guy Ritchie, ambientato nel 1891, Holmes agisce come agente segreto in un’Europa scossa da attentati che rischiano di alterare i delicati equilibri tra le potenze militari europee. Infine nel fumetto, e nel film, La Lega degli Straordinari Gentlemen di Alan Moore, Mycroft Holmes compare come leader dell’intelligence britannica sotto il nome in codice di “M”, una citazione-omaggio ai romanzi di James Bond di Ian Fleming.

Nel film tratto, The League of Extraordinary Gentlemen (La leggenda degli uomini straordinari, 2003) diretto da Stephen Norrington, invece “M” risulta essere il nemico mortale di Holmes, Moriarty, che sta architettando di impadronirsi del mondo, nel più puro stile bondiano. Non da meno in Elementary, l’adattamento in serial di Holmes trasposto nella New York dei giorni nostri, “M”, diviene una donna, innamorata del detective, posta a capo di un’organizzazione di spionaggio internazionale. Dopo Conan Doyle e Sherlock Holmes la critica ritiene sorgano due filoni. Quello avventuroso con autori come Edward Phillips Oppenheim, John Buchan che crea l’agente segreto Richard Hannay, protagonista di cinque romanzi, tra cui The Thirty-Nine Steps (I trentanove scalini) da cui è stato tratto il film The 39 Steps (Il club dei trentanove, 1935), diretto da Alfred Hitchcock e, ultimo, Peter Cheyney con il personaggio di Lemmy Caution, da cui il film Alphaville, une étrange aventure de Lemmy Caution di Jean-Luc Godard. Questo filone arriverà al massimo risultato con i romanzi di Ian Fleming e le trasposizioni cinematografiche di James Bond.

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XIII

L’altra linea narrativa nasce alla fine degli anni ’30 con il romanzo The mask of Dimitrios (La maschera di Dimitrios) di Eric Ambler, in cui l’agente segreto è solo una pedina sacrificale in un gioco di cui non conosce i contorni. La trasposizione cinematografica con lo stesso titolo del romanzo è del 1944, diretta da Jean Negulesco. Il punto d’arrivo di questo filone sarà rappresentato da John Le Carré, dai suoi romanzi e dai film tratti. Forse potremmo individuare in un prodotto tardivo, il film Black book (2006) di Paul Verhoeven, ambientato durante la Seconda guerra mondiale, la sua massima espressione, in un gioco mortale di spie e agenti doppiogiochisti in cui si stempera la motivazione, i ruoli e ogni azione diviene un automatismo ripetitivo privo di significato.

Negli anni ’30 questo genere cinematografico ottenne notorietà, grazie anche al successo del regista Alfred Hitchcock, che girò alcune opere particolarmente popolari come, oltre alle già citate, The Man Who Knew Too Much (L’uomo che sapeva troppo, 1934), considerata la sua prima spy-story e uno dei primi capolavori, di cui fece un remake nel 1956. Secret Agent (L’agente segreto, 1936), è basato su due racconti The Traitor e The Hairless Mexican della serie “Ashenden o l’agente inglese” di William Somerset Maugham, ispirata all’esperienza dello scrittore nei servizi segreti durante la Prima guerra mondiale. Sabotage (Sabotaggio, 1936), dal romanzo di Joseph Conrad L’agente segreto. The Lady Vanishes (La signora scompare, 1938), anche in questo caso il soggetto è tratto da un romanzo, Il mistero della signora scomparsa (The Wheel Spins) di Ethel Lina White.

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“You Only Live Twice” – Little Nellie – James Bond

Dopo gli anni ’30 Hitchcock proseguì con Notorious (Notorious, l’amante perduta, 1948) ispirato ad un racconto di John Taintor Foote intitolato The song of the Dragon, pubblicato nel 1921. Abbiamo quindi Torn Curtain (Il sipario strappato, 1966), la cui sceneggiatura venne affidata al romanziere Brian Moore e Topaz (id. 1969) tratto dal libro di spionaggio di Leon Uris.
Da questi film appare ancor più evidente un dato che accompagna il genere in maniera più forte rispetto agli altri. Lo stretto legame con la letteratura, da cui attinge ispirazione, trasposizioni, sceneggiatori e consenso di pubblico. Negli Anni ’40 si sviluppano film incentrati sulle spie alleate in azioni di sabotaggio nell’Europa occupata dai nazisti o nell’oriente controllato dai giapponesi, come Man Hunt del 1941 di Fritz Lang, Across the Pacific del 1942 di John Huston con Humphrey Bogart, Blood on the Sun del 1945, di Frank Lloyd, O.S.S. (Eroi nell’ombra, 1946) di Irving Pichel.

Oppure su infiltrati negli Stati Uniti come Confessions of a Nazi Spy del 1939 di Anatole Litvak, Nazi Agent del 1942 di Jules Dasin, 13 Rue Madeleine (Il 13 non risponde, 1947) di Henry Hathaway, quest’ultimo su spie naziste doppiogiochiste.
Ma sarà la Guerra fredda, negli anni ’60, a far giungere al suo apice il numero, la notorietà e gli autori letterari da cui saranno attinte le storie per i film di spionaggio. Il genere si espande, fagocita tutto ciò che può fungere da ispirazione. Le storie divengono sempre più esotiche, ricche di suspense, il cui inossidabile capostipite è l’agente che diverrà il più famoso del mondo, 007, James Bond ideato da Ian Fleming in una lunga serie di romanzi che riportavano citazioni e aneddoti della sua vita trascorsa come agente segreto inglese.

Irish actor Pierce Brosnan as James Bond, with his 'GoldenEye' co-star Izabella Scorupco, circa 1995. (Photo by Terry O'Neill/Getty Images)

Pierce Brosnan è James Bond in “GoldenEye” con Izabella Scorupco

La saga, iniziata nel 1962 con Dr. No (Agente 007 – Licenza di uccidere), diretto da Terence Young, portò sullo schermo Sean Connery nella migliore interpretazione del agente Bond, e produsse 23 film accreditati oltre a tre “apocrifi”. L’antitesi bondiana è rappresentata da The Spy Who Came in from the Cold (La spia che venne dal freddo, 1965) di Martin Ritt e The Deadly Affair (Chiamata per il morto, 1966) diretto da Sidney Lumet, tratti dai romanzi di John Le Carré. L’atmosfera cupa dei libri è trasmessa con una fotografia in b/n, che si oppone al technicolor dei coevi film di James Bond. Lo stesso dicasi della tetra colonna sonora che dà il ritmo a tutta la pellicola. Altro autore da cui sono stati ricavati sei film è Len Deighton, il cui agente Palmer, interpretato da Michael Caine, oscilla fra la depressione di Le Carré e rari guizzi bondiani. Ricordiamo i film più noti The Ipcress File (Ipcress, 1965), regia di Sidney J. Furie e Funerale a Berlino (Funeral in Berlin, 1966), diretto da Guy Hamilton.

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Nikita, serial televisivo

Una citazione a parte meritano i film derivati dalle opere principali, spesso in chiave comica o ironica. Pensiamo a Le magnifique (Come si distrugge la reputazione del più grande agente segreto del mondo, 1973) di Philippe de Broca con uno scatenato Jean-Paul Belmondo. Oppure a Our Man Flint (Il nostro agente Flint, 1966), interpretato da James Coburn e diretto da Daniel Mann, la serie televisiva statunitense Matt Helm trasmessa dal 1975 al 1976 con Anthony Franciosa nel ruolo di Matt Helm o i film omonimi con Dean Martin tra il 1966 e 1969. Il serial britannico The avengers (Agente speciale 1961–1969) con Patrick Macnee, che poi recitò in A View to a Kill (007: Bersaglio mobile, 1985) di John Glen e Diana Rigg, che poi apparve nel ruolo di Tracy Di Vicenzo, la moglie di Bond, in On Her Majesty’s Secret Service (Agente 007, al servizio segreto di Sua Maestà, 1969) diretto da Peter R. Hunt.

Gli anni 2000 segnalano una ripresa dell’instabilità politica mondiale accompagnata, come in passato negli anni ’50 – ’60 della Guerra fredda, da un proliferare di film di spionaggio. Particolarmente ricca la produzione di serial televisivi che, per qualità e recitazione superano gli analoghi film. Ne citiamo alcuni come Alias (2001-2006) la super agente Sydney Bristow, interpretata da Jennifer Garner, fra agenzie segrete, CIA, NSA, e complotti che derivano dal medioevo. Nikita (2010-2013), continuazione dell’omonima serie La Femme Nikita (1997-2001), e dell’omonimo film diretto da Luc Besson nel 1990. N.C.I.S. (2003-2013), la serie televisiva più seguita negli Stati Uniti, che vede una squadra di agenti speciali in funzione di controspionaggio. XIII – The series (2011-2013), basata sull’omonimo fumetto di Jean Van Hamme e William Vance, a sua volta ispirato dal romanzo dello scrittore statunitense Robert Ludlum Un nome senza volto (The Bourne Identity, 1980), da cui è tratta anche la serie di film di Jason Bourne interpretata da Matt Damon. Strike Back (2010-2014), serie britannica, tratta dall’omonimo libro di Chris Ryan, ex agente del SAS inglese. E-Ring (2005) sulle missioni dei servizi segreti del Pentagono. Chaos (2011) commedia umoristica con agenti della CIA della divisione “Clandestine Homeland Administration and Oversight Services” (CHAOS). Chuck (2007-2012), un nerd con un supercomputer neurale al servizio della CIA e NSA. Alphas (2011-2013), un’unità investigativa del Dipartimento della Difesa dotata di poteri paranormali. Braquo (2009-2013), una serie televisiva francese nata come genere poliziesco, creata da Olivier Marchal (ex poliziotto), che si trasforma in spionistica nel secondo anno fra parà della Legione straniera e armi futuribili rubate in complotti internazionali. Covert Affairs (2010-2013), una giovane recluta della CIA che si ritrova catapultata in difficili missioni. “24” (2001-2010), con protagonista l’agente Jack Bauer (interpretato da Kiefer Sutherland) del CTU (Counter Terrorist Unit – Unità anti-terrorismo) di Los Angeles, alle prese con minacce terroristiche d’ogni tipologia.

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ALIAS, serial televisivo

Gli archetipi

Ogni genere ha i suoi modelli stereotipi di riferimento, anche se spesso alcuni di questi sono comuni con altre tipologie narrative, come il western, il film di guerra, il film d’avventure, il poliziesco. La loro ripetizione crea le strutture narrative ricorrenti nel film che, una volta individuate, permettono il riconoscimento e la raccolta per tipologia.
Nella spy story il protagonista principale è l’agente segreto (così come in altre è lo sceriffo, il soldato, lo spadaccino, il detective). Risulta fondamentale il tema della fuga con il relativo inseguimento (comune con il poliziesco, ma soprattutto con il road movie). Un altro topòi è determinato dalla “verità che deve essere svelata” (forse la caratteristica più forte del genere). Accanto vi è il segreto delle scoperte scientifiche o militari.
Mentre il crimine più grave è il tradimento personale, o eventualmente quello che minaccia alla sicurezza nazionale (il tradimento verso il protagonista spesso si sovrappone a quello verso la nazione). A questo si aggiunge l’ambiguità delle persone comuni e della coppia, la cui reale posizione “sociale” si rivela solo nei momenti di massima suspense, come in True Lies (1994) diretto da James Cameron, e interpretato da Arnold Schwarzenegger e Jamie Lee Curtis che a sua volta s’ispira a La Totale! (1991) film di spionaggio francese diretto da Claude Zidi. Una “normale” famiglia in realtà cela super agenti segreti.

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Arnold Schwarzenegger in “True Lies”

Il quartier generale segreto. Lo ritroviamo sia per gli agenti segreti che per i loro nemici. Basta pensare alle serie Alias, Nikita, XIII, agli avversari di James Bond, alla curiosa citazione in Van Helsing (2004) di Stephen Sommers. Ambientato nel 1887 vede Gabriel Van Helsing della setta segreta dei Cavalieri del Sacro Ordine della Città del Vaticano, transitare fra una missione e l’altra nei sotterranei del Vaticano, in una serie di laboratori che ricordano le officine di “Q”, il fornitore di “accessori speciali” all’agente 007. In Bond il quartier generale segreto serve per giustificare la spettacolarità della battaglia finale. Lo troviamo in comune con i film di supereroi.
L’agente segreto identificato con un numero. Da lo Spione di Friz Lang a James Bond l’assegnazione di numeri o pseudonimi è la regola. Molto forte nel genere. Ritroviamo qualche elemento nel cinema di guerra.
La bella agente straniera che aiuta l’eroe e s’innamora di lui. Sempre 007 per tutti. In particolare From Russia with Love (Dalla Russia con amore, 1963) per la regia Terence Young. Daniela Bianchi alias Tatiana Romanova. Accade anche in altri generi, ma qui l’agente non fallisce mai.
Vi è anche l’opposto. La femme fatale e la dark lady del noir si ritrovano anche negli spy movie. Mata Hari (1931), diretto da George Fitzmaurice e interpretato da Greta Garbo è forse la versione più nota della decina di film a lei dedicati. Mata Hari, divenuta agente H21, ottenne un nuovo codice, AF44 (a sostegno dell’assegnazione di numeri e sigle). Fu istruita in Germania dalla famosa spia Elsbeth Schragmüller (Agente 1 – 4 GW), soprannominata “Fräulein Doktor”, come l’omonimo (1969) film dedicatole da Alberto Lattuada, seppur con notevoli libertà storiche.

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Lo scambio di persona. Frequente. Piace molto ad Alfred Hitchcock. Meglio di tutti in North by Northwest (Intrigo internazionale, 1959). Lo ritroviamo in un po’ dappertutto nei generi cinematografici, ma trattato superficialmente. Come le due gemelle in Les Rivières pourpres (I fiumi di porpora, 2000), di Mathieu Kassovitzma ma anche nella misteriosa fuggitiva e nel vendicatore Jean Renò in L’empire des loups (L’impero dei lupi, 2005) di Chris Nahon o nei due agenti segreti doppiogiochisti Robert De Niro e Jean Reno in Ronin (id. 1968) di John Frankenheimer. L’impossibilità per l’innocente di discolparsi. Di totalmente innocenti nei film di spionaggio c’è ne sono pochi. Tuttavia pensiamo ai “fidanzati” delle protagoniste in Alias o Nikita, o vengono eliminati perché potevano aver ascoltato qualcosa o diventano agenti più duri e combattivi delle loro compagne. La rivalità fra il personaggio positivo (l’agente segreto) e il “cattivo”, che desiderano la stessa donna. Comune in tutti i generi. Un buon modo per acuire il conflitto, portarlo alle estreme conseguenze. Tipico anche nel western e nei film medievali (come in Robin Hood in almeno una trentina di remake, famoso quello The Adventures of Robin Hood (La leggenda di Robin Hood, 1938) con Errol Flynn e la regia di Michael Curtiz. Infine l’avversario come simbolo del Male, spesso una mente criminale interessata allo spionaggio, a scopo di lucro, guerra o destabilizzazione. Se non fosse così non sarebbe il “cattivo”. Comune a vari generi, quello dei supereroi in particolare.

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“Ronin”

Conclusioni

Da questa breve disamina si può comprendere che il “genere” è un dispositivo indispensabile per analizzare il cinema come industria, arte, bene di consumo, elemento di comunicazione. E’ la maniera più semplice per comprendere il nuovo prodotto (il film) grazie a un linguaggio simbolico condiviso fra chi lo produce (il regista) e chi lo utilizza (lo spettatore).
Secondo Kaminsky i generi sarebbero gli elementi moderni del concetto di “mito”. I generi cinematografici sarebbero un modo di incarnare gli archetipi. Per Schatz, il genere può essere interpretato sia come “leggi linguistiche che funzionano come canone sia come funzione d’economia narrativa”. Quando si classifica un film all’interno di un genere, ad esempio western, di guerra, musical, poliziesco, ci si riferisce a una serie di elementi (lo sceriffo, la donna, l’indiano, la cavalleria, il bisonte, oppure il soldato, la mitragliatrice, il fronte, o il corpo di ballo, la musica, le canzoni, infine il detective, la pistola, il delitto, ecc.) che non sono necessari esplicitare nelle loro caratteristiche in quanto già appresi e condivisi.
Per Bellour è il gioco che, anche quando viene negato rimanda a un’emozione. Il genere stimola automaticamente una reazione. Infine per Sobchack T. e Sobchack V. possiamo considerare due elementi fondamentali per definire un genere cinematografico, “la formula”, cioè l’insieme delle azioni che formano un film (la storia e le caratteristiche dei personaggi), e la “convenzione” che riguarda “l’unità d’azione” che si ripete in ogni film (ad esempio nei film di spionaggio la presentazione dell’agente segreto).
Il genere secondo Gola è sostanzialmente una standardizzazione industriale che crea film linguisticamente omogenei, con elementi comuni come i temi, le narrazioni, i fattori tecnici. Questo ne facilita la comprensione secondo determinate partizioni. Se comprendiamo il genere, e il suo continuo mutare ed evolversi, comprendiamo anche la società che lo ha prodotto, ne diviene un elemento significativo dei rapporti interni e dei messaggi trasmessi. Il genere, in sintesi, come indicatore delle variazioni che avvengono nel corpo sociale.

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Robert De Niro e Jean Reno in “Ronin”

Bibliografia indicativa

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Altman R., Film/Genere, Vita & Pensiero, Milano, 2004.
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Bellour R., Il Western, Feltrinelli, Milano, 1973.
Bellour R., The Analysis of Film, Bloomington/ Indianapolis, Indiana UP, 2000.
Cappi A. C., Coffrini Dell’Orto E., Mito Bond. Il nuovo cinema di 007, Alacrán, Milano, 2008.
Cappi A. C., Coffrini Dell’Orto E., Mondo Bond 2007, Alacrán, Milano, 2006.
Casetti F, di Chio F., Analisi del film, Bompiani, Milano, 1990.
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Fofi G., Capire il cinema, Feltrinelli, Milano 1977.
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Gola G., Elementi di linguaggio cinematografico, La Scuola, Brescia, 1979.
Kaminsky S.M., Generi cinematografici americani, Pratiche Editrice, Collana Cinema, Milano 1997.
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Polese R, “La seconda giovinezza di 007. Fleming, il vero James Bond”, Corriere della Sera, 9 luglio 2012 (modifica il 12 luglio 2012).
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Sobchack T., Sobchack V., An introduction to Film, Little Brown, Boston, 1980.
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Tudor A., Images and Influence. Studies in the Sociology of Film, Allen & Unwin, London, 1974.

Intervista a Fanny Ardant regista di “Cenere e sangue”

L’intervista venne rilasciata nel 2010 a Trieste

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Fanny Ardant

Come mai al Trieste film Festival?

I festival sono un piacere. Il film è come una bottiglia gettata nel mare. Una porta aperta sul mondo. Ecco la bottiglia è arrivata a Trieste.

Sono arrivata ieri sera. Mi piace Svevo, in particolare “La coscienza di Zeno”, perché è capace di evitare il melodramma.

E’ la prima volta che passa dietro la macchina da presa. Come mai?

Voglia di regia. Penso che i profondi desideri hanno spesso motivi oscuri. Non ero frustrata dal ruolo di attrice. L’occasione è arrivata con la scrittura. Poi l’ho trasformata in immagini. Sono stata felice, ho vissuto intensamente questa esperienza e quindi la considero positivamente.

Il tempo della scrittura era al Théatre de la Madeleine di Parigi, durante le prove di “La bestia nella giungla”, di Henry James, nell’adattamento di Marguerite Duras, con Depardieu. Ci sono lunghe pause e vi era il tempo per scrivere.

Subito dopo avere girato il film sono tornata sul palcoscenico a Parigi, poi alle riprese, come attrice, nel film “Visages” di Tsai Ming-liang.

Come ha pensato il soggetto del film?

L’idea è partita dal libro “Eschilo il gran perdente”, un saggio di Ismail Kadarè.

Nel nord dell’Albania non è cambiato nulla dal tempo di Eschilo. Sono arrivati i turchi, i fascisti, i comunisti, ma nulla è cambiato nello stile di vita.

Ho voluto utilizzare la tragedia per descrivere la situazione, non ambientandola in città per i troppi segni della modernità. Volevo anche evitare il mare, non indicare l’epoca e un luogo preciso. Ho stilizzato, potrebbe essere in qualsiasi luogo del Mediterraneo. L’amore per la terra è molto importante. La natura continua a essere bella anche quando si è tristi o abbattuti.

Non credo che uno possa delimitare le proprie influenze. Sono molto impressionata dal cinema italiano, russo e dall’opera teatrale lirica. Vedo il dramma di sangue come operistico.

Ho detto molto di me con questo film. La mia autobiografia è poco importante. Il cinema e il teatro sono un modo di esprimersi e porre in luce ciò che si prova.

Ma non vi dirò cosa volevo raccontare di me.

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Difficoltà durante la lavorazione del film?

Con la coreografa si coloravano le case con la carta sottile per farle sembrare diverse. Il cinema e l’arte del trucco.

Gli dei del cinema mi hanno aiutato, non ha piovuto durate le riprese, mentre volevo

avere la nebbia. Ed è arrivata come un regalo del tempo.

Mi sono piaciuti gli animali nel film, i cavalli e i lupi. L’addestratore ungherese guidava i lupi con pezzi di carne tenuti in mano. Lo seguivano e poi se li mangiavano.

Nell’ultima scena ero sdraiata con la carne in mano a fianco dell’attrice per far venire i lupi. Dovevo rassicurarla e stare attenta agli animali.

Come valuta un film?

L’emozione mi colpisce nei film. Deve esserci una buona storia, dove posso identificarmi. Il cinema ha permesso ai popoli di unirsi più dei beni materiali, entrare nell’animo delle cose, delle persone.

Non guardo la TV. Mi piace il film in DVD, è il bello della tecnologia. Apprezzo il serial statunitense, in cui l’autore è molto più libero che al cinema e può dire più cose.

Inoltre a Parigi vivo in un quartiere in cui il film circolano molto in pellicola.

Come regista cosa pensa degli attori?

Come diceva l’attore, regista e direttore di teatro Jean Villar: un palco, tende nere, bravi attori e la forza creativa.

Si impara di più dai registi passionali. Le qualità sono l’entusiasmo, l’energia, la passione di fare le cose, l’energia fisica positiva. Il non rimandare a domani.

È importante entrare in sintonia con gli attori che devono essere malleabili.

Ammiro molto gli attori inglesi perché sanno controllare tutto.

Mi fanno paura gli attori che non sanno fare. Bravissima Olga Tudorache, un monumento a Bucarest, una grande attrice. Non occorreva dirle nulla. Non occorre spiegare per ore a un buon attore.

Enzo Kermol

 

 

Intervista a Dario Argento

1999: DARIO ARGENTO, FILM DIRECTOR

Il regista DARIO ARGENTO nel 1999

Rilasciata nel 2003

Sei considerato un “maestro” del cinema italiano, come vivi questo ruolo?

Non ho questa sensazione, sono fatto così, anzi mi da fastidio essere etichettato come “maestro”. Mi ricordo quando ho iniziato a lavorare con Leone, lui in effetti era per me un maestro, però odiava sentirsi chiamare in questo modo, diceva di non essere il maestro di nessuno.

Di rado tengo conferenze all’Università, in America ho fatto questa esperienza, ma è stata deludente, per il tempo dedicatovi, dovrebbe essere una cosa più impegnativa, che dura più a lungo, non semplicemente una conferenza che non muta nulla, non cambia nessuna coscienza. Mi piacerebbe fare delle cose più complesse, più organiche. Bisogna impegnarsi molto se si vuole aiutare altri a fare questo lavoro. Negli Stati Uniti ho insegnato a Los Angeles, New York, ad Albany e Chicago, sempre però per poco tempo perché ero impegnato a girare qualche film. Il tempo giusto per insegnare sarebbe di almeno un anno.

Cosa ne pensi del cinema d’oggi?

Nel cinema contemporaneo c’è un eccesso di idee commerciali, non mi affascina, è falsato da queste persone nuove che provengono dal settore finanziario, bancario. Sono stato al festival di Torino con William Friedkin e parlando con lui si diceva che in America fino a qualche anno fa i produttori sostenevano i film perché avevano idee nuove, erano interessanti, film d’arte, oggi nessuno fa questi discorsi, guardano solo se farà più o meno soldi. Il valore del film, i suoi contenuti, non gli interessano più e si vede.

Del tuo ultimo film, “Il cartaio”, puoi dare qualche anticipazione?

Non posso dire molto, la distribuzione mi ha chiesto di non parlarne. Ad ogni modo è un film ambientato nel mondo del web, c’è un serial killer che sfida la polizia, e quindi un gruppo di investigatori che lavorano per prenderlo. La storia narra la lotta per cercare di individuarlo, di fermarlo. Stefania Rocca è una delle persone che dirigono il gruppo di poliziotti. C’è anche un investigatore inglese, in quanto la prima ragazza uccisa è proprio di questa nazionalità. I rapporti fra le due polizie non sono idilliaci, perché siamo diversi da loro e loro da noi. Però siamo complementari, pregi e difetti si equilibrano.

Abbiamo girato a Roma. E’ la prima volta, è da tanto che non ci ritornavo. Ho voluto presentare questa città – la conosco bene perché ci sono nato – non in maniera pittoresca o caratteristica, non è la Roma dei film di Luigi Magni, di Scola o di Petri, è quella che vedo io, un miscuglio fra medievale e antico, con i diversi caratteri dei quartieri, delle periferie. Sono sempre stato appassionato di architettura, di ambientazioni, di scenografie e sono molto attento a questi dettagli.

Ti diverti quando giri?

No, non molto. E’ impegnativo, duro. Un mezzo incubo. Trovarmi proiettato improvvisamente in mezzo a 120 persone, il continuo parlare, mi angoscia molto, anche se è il mio mestiere, sono ormai 30 anni che lo faccio, dovrei aver imparato, però è la mia psiche che rifiuta un po’.

Se dovessi fare qualcosa d’altro?

Facevo lo scrittore, scrivevo poesie, mi sento più scrittore che regista. Lo sono diventato per difendere le mie sceneggiature. Rappresentate da altri non erano così “giuste”.

E gli Americani, li conosci  bene…

Si, Stephen King, Romero, John Landis, Craven, Carpenter, Tobe Hooper, ho vissuto a lungo in America. Con loro ho un rapporto diverso da quello che posso avere con i miei colleghi italiani. Perché in Italia i registi non si parlano, non si vedono, non si frequentano, non si troverà mai un tavolo in un ristorante in cui ci sono due registi. Invece in America c’è più solidarietà, fratellanza, i registi amano le opere degli altri, li vogliono incontrare, ci si racconta le proprie esperienze, si va al cinema insieme, si va in giro. Penso a Quentin Tarantino che mi cita sempre nei suoi film…

 Enzo Kermol

Vampiri al cinema e dintorni

VAN HELSING, Hugh Jackman, Kate Beckinsale, 2004, (c) Universal

Van Helsing (id., 2004), di Stephen Sommers con Hugh Jackman e Kate Beckinsale

A lei piacerebbe passare quattrocento anni vestito come un capocameriere?
Amore al primo morso (Love at First Bite, 1979, di Stan Dragoti)

La continua mutazione del vampiro[1]

Il  “vampiro” e indubbiamente un fenomeno culturale.  Questa figura e talmente diffusa in tutti i luoghi e le epoche da divenire  una costante dei processi culturali. In alcuni  periodi storici  il  “soggetto  vampiro” rimane  un  po’ discosto, nelle “tenebre”, per poi riemergere alla “luce” con tutta la sua forza.

Attualmente – non a caso ci troviamo a ridosso del passaggio del millennio – la situazione politica, sociale ed economica “sembra” (anche se in realtà si tratta di pura apparenza) in fase di crisi e mutamento. Periodo quindi ideale per il risorgere di credenze  e  miti che  affondano  le  loro  origini  nell’irrazionale. L’elemento scatenante del fenomeno attuale, che ha periodi di latenza alternati ad altri   manifesti,  e   stata   una   produzione cinematografica. Sull’onda del successo internazionale avuto  dal film  di  Francis Ford Coppola, Dracula (Bram  Stoker’s  Dracula, Usa,  1992)  – rivisitazione del mito,  interpretata  con  guizzo personalistico  dal  regista autore della saga del Padrino  (The Godfather, 1972) – sono stati prodotti saggi,  rappresentazioni teatrali, convegni, nuove interpretazioni del fenomeno. Infine il tema  del vampiro ha nuovamente popolato gli schermi  del  cinema con nuove pellicole. Produzione in costante aumento.

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La maschera del demonio (1960) diretto da Mario Bava con Barbara Steele

Le origini

Il  mito del vampiro affonda le radici nelle  prime  civiltà mediterranee ed orientali, in quelle classiche, percorre tutto il Medio Evo per arrivare ai nostri giorni.

La  derivazione del vampiro “moderno” e abbastanza nota.  Il 15  giugno 1816 nella villa Diodati a Ginevra si riunì un  gruppo di amici, scrittori, Byron, Shelley, sua moglie Mary e  Polidori. Si sfidarono, per gioco, nello scrivere un racconto  dell’orrore, ognuno  diverso  dall’altro.  Mary  Shelley  scrisse  il famoso Frankenstein e Byron – altri indicano invece come autore Polidori – la celebre novella The Vampire, capostipiti entrambi del genere horror. L’ulteriore codificazione della figura del vampiro si  ebbe nel 1897 con  l’uscita del romanzo  di  Bram  Stoker  Dracula. Dopodiché   le quotazioni della letteratura dell’orrore si impennarono, facendo sfornare agli autori del genere romanzi  su romanzi di varia qualità.

Ma, fra tanti nomi, credenze, spicchi d’aglio, crocefissi  e raggi  di sole, il mito del “succhiatore di sangue”,  antecedente alla  moderna  letteratura dell’orrore, si  perde  nelle  brumose lande di qualche nordico paese dell’est europeo. Dracula – Drakul o Drtakul nella grafia originale – infatti, il vampiro più  noto, aveva  come  campo d’azione la Moldavia e le zone  più  orientali della Romania. Narra la leggenda che dovesse spostarsi – era  tra l’altro un vampiro-demone – portando con se la propria  bara,  e durante  le  apparizioni  lasciasse  le  proprie  vesti  in  tale contenitore.  Per  fermarlo si dice che bastasse sottrargli l’abbigliamento, abbandonato nella tomba momentanea.

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Nosferatu (Nosferatu, eine Symphonie des Grauens, 1922) di Friedrich Wilhelm Murnau

Nosferatu, noto per aver popolato  con la sua presenza anche l’omonimo  film  di  Friedrich Wilhelm  Murnau  (Nosferatu,  eine Symphonie  des  Grauens,  1922)  e il  remake  girato  da  Herzog (Nosferatu,  Phantom der Nacht, 1978), prediligeva  la  Valacchia oltre  alla sempre apprezzata Romania. Aveva altri nomi, tra  cui Moroi  che significa “non morto”, e per diventarlo la  condizione principale era, ovviamente, di essere morti, possibilmente con  i capelli  rossi. Per eliminarlo bisognava inchiodarlo  nella  bara con un ramo d’abete, quindi bruciare tutto.

 Ma se, anziché compiere una panoramica in giro per il  mondo – che riserverebbe episodi “gustosi”, come i vampiri cinesi,  tra cui  Ch’Ing  Shi, essere orrendo dal volto pallido,  con  capelli verdi  incolti, occhi rossi e sguardo crudele – ci  spostiamo  in regioni   più  vicine  a  noi,  osserviamo   una   concentrazione particolarmente  elevata  di vampiri nelle  terre  che  formavano l’ormai disciolta repubblica della Yugoslavia.

Il  Blautsauger,  originario della Bosnia-Erzegovina,  e  un morto-vivente  privo di scheletro, tutto ricoperto di pelo, con grandi occhi infossati di topo. Si dice che debba portare con  se parte  della terra in cui e stato sepolto, con la quale  diffonde il  vampirismo  fra coloro che dormono.  Per  arrestarne  l’opera bisogna  disseminare la sua tomba di fiori di  biancospino,  che, cosi continua la superstizione, per oscuri motivi sarà  costretto a raccogliere. Al sorgere dell’alba si troverà all’aperto, dove i raggi del sole lo dissolveranno.

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In Dalmazia invece circola il Kuzlak o Kuzlai. Vampiro bimbo che,  invece  del  latte, succhia il sangue.  Un  po’  spiritello matacchione  si diletta nei “fenomeni paranormali”, come  oggetti spostati,  mobili volanti, ecc. Anche qui per eliminarlo  occorre un paletto appuntito di biancospino, con il quale trapassarne  il cuore, meglio se tenuto in mano da un francescano. Stesso  metodo per  il vampiro dell’Istria, lo Strigon, che vaga nottetempo  per casolari  e  villaggi, aggredendo bimbi e donne,  anche  solo  in forma  sessuale.  Teme  i  Kresniki,  cacciatori  di  vampiri   e licantropi,  “nati con la camicia” – la placenta – un po’  come  i Benandanti friulani che, fra il cinque e seicento, proteggevano campi, raccolti e popolazione da streghe e demoni.

Un po’ più giù, verso la Serbia si aggira il Mulo, che deriva da  uno zingaro assassinato o da un bimbo  morto  prematuramente. Beve  il vino oltre al sangue (come dice un noto  proverbio).  E’ sempre ben vestito, anche se predilige il colore  bianco. Può  trasformarsi  in oggetti e vegetali. Infine, la  sua  specialità: rapisce  le belle  ragazze, le mette a  bollire  tutte  nude  in pentoloni  d’acqua, per poi disossarle rendendole cosi della sua stessa consistenza. Esiste, anche in questo caso, l’ammazzavampiro specifico, il Dhamphir, che con riti magici  può batterlo e distruggerlo.  Sempre in Serbia, terra ricca di mostri e vampiri, si trova il Vlkodlak, maschio trentenne,  dall’aspetto rubizzo e “sanguigno”. La sua attività e ciclica, della durata di sette  anni.  Poi  vi e un periodo  di  latenza,  utilizzato  per spostarsi  in un’altro territorio “vergine”,  dopodiché  riprende per un altro periodo settennale. Tra le varie doti necessarie per divenire vampiro e richiesta la qualifica di spergiuri, assassini e,  inoltre,  di  aver avuto rapporti  sessuali  con la propria madrina.  E’ possibile trasformarsi nell’abitatore della notte anche  in  seguito  al  morso  di un  lupo  mannaro  o  nel  caso particolare  in cui ci si sia  cibati di carne contaminata da  un licantropo. Per  distruggerlo  bisogna  tagliargli  i   piedi, piantargli   un  chiodo  nella  fronte,  poi  infiggere il sempre presente  paletto di biancospino nell’ombelico, quindi coprire  le  zone pelose del non-morto con pezzi  di  stoppa,  ed infine  dare  fuoco a tutto quanto con le candele  usate  per  la veglia   funebre   del  “bevitore   di   sangue”.   Un’operazione indubbiamente complessa.

Per favore non mordermi sul collo! (The Fearless Vampire Killers, 1967) di Roman Polanski

Per favore non mordermi sul collo! (The Fearless Vampire Killers, 1967) di Roman Polanski

Anche la Croazia ha il suo “mostro” originale,  il  Pjwika, che oltre a comportarsi come un normale vampiro, necessita di una metodologia   particolare  per  la  sua   eliminazione. Bisogna tagliargli la testa e infilarla fra le sue gambe  (eventualmente, se ciò non e possibile, in seconda scelta, fra le braccia).

E  in  Italia?

Oltre ai classici vampiri,  che  ritroviamo provenienti dal vicino confine slavo, sembra non  vi  sia  una caratterizzazione   autoctona.  Il  discorso  pero  muta  se   ci soffermiamo   sulle  donne.  Sembrerebbe infatti  che  in  questa “specie” la casistica “demoniaca” sia più ricca. La   derivazione   e  classica,  proveniente dalle Lamie dell’antica Grecia, presenti nella mitologia come vampiri, spesso sotto  sembianze di uccelli, che succhiano il sangue agli  uomini  mentre  dormono.  Da  qui  si  trasferiscono nella Roma antica prendendo il nome di Striges o Mormos, continuando a compiere  le stesse  azioni  di notturne dissanguatrici. Non a  caso  venivano indicate,  pure  con  il  nome  di  Striges,  le  cortigiane  dai prorompenti  costumi sessuali, quasi a sottolineare un  parallelo con i significati simbolico – sessuali del vampirismo[2].

Sessualità e delitto

Ma  quali  sono  i  motivi per cui si  crea  la  figura  del vampiro?  Esistono  a  chiarimento  alcuni  casi di vampirismo documentato in tempi moderni, e quindi confrontabili  con  le lontane credenze,  che permettono di  risalire  all’origine del fenomeno.

La  contessa  Erszebet Bathory faceva il  bagno  nel  sangue delle  giovani a cui aveva fatto tagliare la gola, ne uccise più di  600,  ritenendo  che  la sua  pelle  beneficiasse  di  queste immersioni. Non era “propriamente” una vampira, anche se vi erano parecchi  punti  di  contatto  tra  le  sue  pratiche  e   quelle specificatamente vampiriche.sangueelarosadvd

Il più noto e sicuramente Peter Kurten, nato in Germania nel 1883.  Dalle sue gesta vennero tratti due noti film M, il  mostro di  Dusseldorf (M, 1931) di Fritz Lang, e La belva di Dusseldorf (Le  vampire  de Dusseldorf, 1965) di Robert Hossein. A  13  anni aveva  tentato di violentare le sue coetanee a scuola,  uccidendo anche due bambini. Fra i 17 e i 43 uccise altre tre volte  tentando altri sei omicidi. Ma fu solo nel 1925 che inizio la  catena di delitti che lo rese famoso. Dieci omicidi, quattro tentativi di omicidio, 14 aggressioni, diciotto incendi. Di notte girava  con un’ascia e dei grossi coltelli che utilizzava per placare la  sua sete di sangue, bevuto direttamente dal collo delle sue  vittime. Inoltre  abusava sessualmente dei cadaveri delle bambine  da  lui uccise.

Non  era da meno Vincenzo Verzeni, nato in Italia nel  1849. Uccise due donne, unicamente per poterne bere il sangue.  Ciò gli procurava  un  grande  piacere,  superiore  a  quello sessuale. Dichiaro  al  processo “strangolare le donne mi dava  un  piacere incredibile, accompagnato da vere e proprie erezioni seguite  da uno sfogo completo […] non mi e mai venuto in mente di guardare i genitali  di una donna; mi bastava stringere loro il collo e succhiare il loro sangue”.  Ma anche la Gran Bretagna ebbe il suo vampiro  sotto  le spoglie di John Haigh, giustiziato nel 1949.

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Van Helsing è una serie televisiva statunitense del 2016

Uccise nove volte allo scopo di bere il sangue delle vittime. Nel suo memoriale scrisse: “le ho praticato un’incisione alla gola  e ho  bevuto un bicchiere di sangue. Portava una catenina  con  una croce al collo;  provai  un  godimento  straordinario  nel calpestarla”. Un’azione simile a quella  dei vampiri letterari o cinematografici di tutto il secolo.

Anche in tempi recenti si sono verificati altri episodi simili. A Rio  de Janeiro e stato arrestato Marcello Costa Andreade di 25 anni  che ha ucciso, nel solo 1991, 14 bambini, sodomizzandoli e bevendo il loro sangue, e dall’inizio della sua “carriera”  almeno  80.  E’ stato soprannominato il “Vampiro di Rio”.

Appare  chiaro  che le connessioni fra  sessualità  distorta (dal comportamento sociale,  da  esperienze precedenti, da patologie preesistenti, ecc.) e “desiderio” del sangue sono molte e fondamentali. Analogamente la costruzione del “mito”  vampirico si osserva in periodi di turbamenti sociali esasperati  (potremmo dire  perciò  molto  spesso).  Un ultimo  caso,  descritto  dallo psichiatra  Frank Caprio – nel suo trattato Omosessualità  della donna (1961)  –  appare illuminante: “avevo  notato  anche che arrivava  allo stato di eccitazione sessuale mordendo il collo e le spalle della compagna durante la masturbazione reciproca. Amava  mordere e succhiare la sua amica fino a  provocarle  delle ecchimosi.  Un giorno che la sua compagna si era tagliata un  dito aprendo  una  scatola  di conserve, ella le  aveva  succhiato il sangue dicendole che la sua saliva era antisettica e guariva  le ferite. La  malata parlo a lungo dell’eccitazione sessuale  che aveva  provato succhiando il sangue dell’amica. Ciò prova come a volte l’eccitazione sessuale sia legata al cosiddetto vampirismo”.

Space Vampires (Lifeforce, 1985, di Tobe Hooper

Space Vampires (Lifeforce, 1985), di Tobe Hooper

Questo ci porta a Carmilla di Joseph Sheridan Le Fanu,  che, accanto  al Dracula di Bram Stoker, risulta essere il  testo  più visitato dalle trasposizioni cinematografiche. Film che divengono esempi  per dimostrare – in versioni più o meno fedeli  al  testo originario – gli elementi fondamentali del fascino, dell’uso e della strumentalizzazione della figura del vampiro.

Carmilla seduce le sue vittime scegliendole tra le fanciulle più  belle che popolano l’area geografica delimitata dal  massimo spostamento consentito  dall’ubicazione  della cripta – rifugio (ritorno  al ventre materno) in cui deve “rientrare”  ogni  sera.

Duplice  quindi  la  funzione simbolica: il  non  distacco  dalla madre,  un  legame  inibitore, e una  sessualità affiorante prepotentemente, ma inibita nel suo realizzarsi dal “sangue”  (e dalla figura  parentale) assunto quale valore di vita. Parallelamente,   altro  elemento  interpretativo, esiste una funzione  sociale  del soprannaturale[3] “per  molti  autori  il soprannaturale  non era che un pretesto per descrivere  cose  che non avrebbero mai osato menzionare in termini realistici”. Questa interpretazione  vista soprattutto[4] come  trasgressione  delle regole sociali  e  non  indirizzata  ad   una visione del soprannaturale. Nel caso specifico di Carmilla come  accettazione dell’omosessualità femminile, cosi come più in generale la figura del  vampiro richiama esplicitamente ad una promiscuità  sessuale posta in una luce ambigua di desiderio-maledizione.

Space Vampires (Lifeforce, 1985, di Tobe Hooper 1

Space Vampires (Lifeforce, 1985), di Tobe Hooper

Immagini e movimento

Nel cinema il fattore determinato dal binomio omosessualità femminile – vampiri  diviene  molto evidente. Il  regista  spagnolo Jesus Franco intitola addirittura un film Vampyros lesbos  (1970, con  Soledad  Miranda), ma pensiamo anche a Vampiri  amanti  (The Vampire Lovers, 1970) di Roy Ward Baker che descrive gli  “amori” tra  Ingrid  Pitt  (Carmilla) e Pippa  Steele,  o  alla  Carmilla interpretata da Alexandra Bastedo in Un abito da sposa macchiato di sangue (La novia ensangrentada, 1972) di Vincente Aranda.  Non da  meno in Miriam si sveglia a mezzanotte (The Hunger, 1983)  di Tony Scott, in cui assistiamo ai saffici e sanguinari piaceri tra Catherine  Deneuve e Susan Saradon. Risale agli anni sessanta  la prima  versione cinematografica di Carmilla, lo stereotipo  della vampira  lesbica, grazie a Roger Vadim con il suo Il sangue e  la rosa  (Et  mourir  de plasir,  1960)  e  all’esasperazione  delle ambiguità  sessuali  legate  al  romanzo.  D’altra  parte nelle centinaia di pellicole dedicate – o in cui appaiono – vampiri troviamo  di  tutto e possiamo analizzarle ed  interpretarle in maniera diversa a seconda del momento storico in cui appaiono.

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Anne Parillaud, ex Nikita, nel ruolo di una vampira “al servizio della legge” in Amore all’ultimo morso (Innocent Blood, 1992, di John Landis)

Se dopo  il  Nosferatu  di  Murnau si  passa  al  Vampyr  (L’etrange aventure de David Gray, 1932) di Carl Theodor Dreyer e al Dracula (1930) di Tod Browning interpretato da Bela Lugosi, ben presto il genere  si tinge delle caratteristiche di parodia o film  comico. Pensiamo a Il cervello di Frankenstein  (A.&C. Meet Frankenstein, 1948) diretto da Charles T. Barton  con  Gianni e Pinotto (Bud Abbott e Lou Costello), nonché nel ruolo del vampiro Bela Lugosi, per arrivare a Tempi duri per i vampiri  (1959)  di Steno, con Renato Rascel e Christopher Lee, attore  quest’ultimo interprete  di oltre 13 apparizioni vampiresche a cominciare da quella in Dracula il vampiro (Horror of Dracula, 1958,  di Terence  Fisher) in cui viene proposto anche Peter  Cushing,  nei panni  dell’antagonista  di  sempre, Van  Helsing.  Carriera  che continuerà  in  parallelo a quella del vampiro. Non  ultimo,  per comicità,  il  celebre Per favore non mordermi  sul  collo!  (The Fearless Vampire Killers, 1967) di Roman Polanski, da lui  anche interpretato  (come “allievo” ammazzavampiri) assieme a Sharon Tate.  Doverosa  la  citazione di Boris  Karloff  nei  panni  del Vourdalak  (originario della Moldavia, Bosnia e Turchia, o  forse si  tratta del Vlkodlak serbo?) dall’ironico e rivelatore finale nell’ultimo episodio di I tre volti della paura (1963),  diretto da Mario Bava. Autore questo a cui si deve l’eccellente utilizzo nei  panni di vampire, redivive et similia, di Barbara Steele a partire  da  La maschera del demonio (1960)[5]. Il  summa  della satira si ritrova in Dracula, morto e contento (Dracula, Dead and Loving  it,  1995) di Mel Brooks, autore che  ha  affrontato con forme di parodia quasi tutti i generi cinematografici più noti.

Ma  il  “genere”  si  contamina ben  presto  anche  in  altre direzioni.  Prima la fantascienza. La “cosa” da un altro mondo (The Thing, 1951, di Christian Nyby) e il suo remake La cosa (The Thing, 1982, di  John  Carpenter);  I  vampiri dello spazio (Quatermass  II,  1957,  di Val Guest)  con  possessioni  “quasi” vampiresche e il “quasi” remake Space Vampires (Lifeforce, 1985, di Tobe  Hooper), dallo svolgimento non del tutto affine – da notare  la  sceneggiatura  di Dan O’Bannon, autore  anche di Il ritorno  dei morti viventi (1984) – per non  dimenticare  Terrore nello  spazio (1965, di Mario Bava) ed infine, meta zombi,  meta vampiri, i resuscitati di La notte dei morti viventi (The Night of the Living Dead, 1968, di George Romero) capostipite di una nuova serie dedicata ai redivivi.

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Una  altro grande sottogenere e rappresentato dalla commistione con i film di  arti  marziali  cino-giapponesi. L’incontro  vero e proprio con il versante europeo avviene in  La leggenda dei sette vampiri d’oro (The Legend of the Seven  Golden Vampires,  1975,  di Roy Ward Baker) tra Peter  Cushing  (il  più celebre  tra gli ammazzavampiri occidentali) e i guerrieri  orientali contro un’orda di vampiri di tutti i tipi (da Dracula a quelli  cinesi). Il film venne prodotto da una casa inglese, la Hammer[6] celebre per le produzioni seriali dell’orrore assieme alla Shaw  Brothers di  Hong  Kong,  specializzata in film  d’arti  marziali.  Ma  in Oriente il filone e ricchissimo di fantasmi-vampiro. Come, a puro titolo  d’esempio, in Storie di fantasmi cinesi (A Chinese Ghost Story,  1987, di Tsui Hark). Ultimo succedaneo occidentale  della serie  può essere considerato Buffy l’ammazzavampiri (Buffy, the Vampire Slayer, 1992, di Frank Rubel Kuzui) farsa  giovanilistica con eroina, Kristy Swanson, karateka imbattibile in lotta  contro una  banda  di vampiri, piuttosto scalcinati, capitanati da un ironico Rutger Hauer.

Intervista con il vampiro

Intervista con il vampiro (Interview with the Vampire, 1994), di Neil Jordan

Si  cambia quindi genere. Fra mode giovanilistiche, Ragazzi perduti (Lost Boys, 1987, di Joel Schumacher), discoteche,  Vamp (id.,  1986, di Richard Wenk con Grace Jones  versione  vampiro),  girovaghi,  Il  buio  si avvicina (Near Dark,  1988,  di  Kathryn Bigelow),  in  carriera,  La brillante  carriera  di  un  giovane vampiro  (I  Was a Teenage Vampire, 1987, di Jimmy  Huston) per arrivare  al capovolgimento del teorema. Il vampiro e buono,  gli altri  sono  cattivi, o perlomeno  cattivelli. Ecco  cosi Anne Parillaud, ex Nikita, nel ruolo di una vampira “al servizio della legge”  in Amore all’ultimo morso (Innocent Blood, 1992, di  John Landis) che affronta e sgomina una banda di gangster, mentre  Tom Cruise e Brad Pitt passano il secolo in Intervista con il vampiro (Interview with the Vampire, 1994, di Neil Jordan) menando strage di  vampiri  malvagi,  pur essendo anche loro  dediti  alla  vita “notturna”.

Specie mortale (Species, 1995, di Roger Donaldson

Specie mortale (Species, 1995), di Roger Donaldson

E con spirito libertario (nel senso che ci  prendiamo qualche  licenza)  possiamo  considerare  “vampira”  (cattiva o disinibita?) la creatura, geneticamente proveniente dallo spazio, protagonista della serie avente per capostipite Specie  mortale  (Species, 1995, di Roger Donaldson). Non si tratta forse di una caccia condotta da Michael Madsen  (moderno  ammazzavampiri) all’affascinante Natasha Henstridge,  un’aliena,  unica  della sua specie,  che  cerca  di riprodursi accoppiandosi con gli umani. Non e forse ciò che fanno i vampiri tradizionali? La risposta non può che essere  positiva.

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Van Helsing è una serie televisiva statunitense del 2016

A  questo  punto  possiamo chiederci  quali  siano  le caratteristiche cinematografiche  del vampiro. Vaghe,  nonostante i  luoghi  comuni. Quello letterario era ben  connotato.  Pallore, canini aguzzi, sessualità soffusa, sangue a volontà, la lotta fra il  bene  e  il male, fra la vita e la morte.  Nel  cinema  tutto rimane e tutto svanisce al sorgere del sole. Dal primo Nosferatu le  cose  sono cambiate. Tante volte. Ma qualcosa e  rimasta.  Il desiderio  della  vita. Come quando l’aliena di Specie  mortale, seduta a cavalcioni su uno scienziato che ucciderà di li a poco, pronuncia, toccandosi il ventre appena fecondato, la frase chiave della vicenda “Senti la vita che sta sorgendo”[7].

Nel nuovo capitolo che riguarda i cacciatori di vampiri, un film rappresenta il summa di tutti quelli sui cacciatori di vampiri, Van Helsing (id., 2004, di Stephen Sommers) sorta di citazione continua del genere, dei sottogeneri, e non ultimo dei metageneri, vedi l’irriverente e divertente citazione della serie completa di Agente 007, James Bond. Parallelamente anche i serial hanno generato un Van Helsing, una serie televisiva statunitense del 2016 ambientata ai nostri giorni in un mondo devastato da orde di vampiri a cui si oppongono i membri della famiglia Van Helsing, nipoti e pronipoti del leggendario protagonista del film.

La chiave  di lettura  della pressoché infinita serie di film di vampiri sta proprio qui, nel desiderio di vita.  Eterna, forse. Di mantenimento della propria, sicuramente. Certo vista come un fine da  perseguire con ogni mezzo. Cacciatori e cacciati, con ruoli che si invertono di battuta in battuta, in scontri sanguinosi e dall’esito incerto. Sembra quasi la vita. Quella quotidiana.

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Van Helsing (id., 2004) di Stephen Sommers

Note

[1] Questo saggio mi era stato commissionato per un volume sui vampiri una ventina d’anni or sono. Non venne pubblicato (il libro) e lo persi. Casualmente ripulendo il computer dopo un passaggio della memoria da uno precedentemente usato ho trovato alcuni file malconci di un word vetusto e quasi illeggibile. Ripulito è apparso un testo ancora attuale. Ovviamente la filmografia si ferma alle soglie del 2000, ma tutto il resto risulta corretto e utilizzabile. Revisionato e pubblicato.

[2] Sui  vari nomi attribuiti alle varie specie di vampiri vedi Domenico Cammarota, I vampiri, Fanucci, Roma, 1984, pag. 27-39.

[3] Peter Penzoldt, The Supernatural in Fiction, London,  Peter Neville, 1952.

[4] Tzvetan  Todorov,  La  letteratura   fantastica,   Milano, Garzanti, 1977 (edizione originale Introduction a la  literature fantastique, Editions du Seuil, 1970).

[5] Sul  cinema  di Mario Bava vedi a cura di  Giuseppe  Lippi  e Lorenzo  Codelli  le schede dei film in Fant’Italia,  Trieste, 1976.

[6] Vedi il saggio di Kim Newman La festa di sangue, nel  volume  curato da Emanuela Martini Hammer & dintorni, edito dal Bergamo Film  Meeting nel 1990. Sulla Hammer e soprattutto sulla figura “romantica” del vampiro si veda il saggio di Emanuela Martini “Il ballo  dei vampiri”, in Cineforum n. 321, febbraio  1993,  pag. 16-29

[7] Frase plausibile poiché l’incrocio genetico proveniente dallo spazio ha un metabolismo accelerato. In poche ore si compie la gestazione simil-umana che  richiede normalmente un periodo compreso fra le 38 e le 42 settimane.

Le applicazioni del metodo di Hjortsjö e del F.A.C.S. nell’ambito della sicurezza.

Introduzione

I vari sistemi di misurazione del movimento muscolare facciale sono stati elaborati per rispondere in maniera scientifica ad una serie di interrogativi, cioè se vi era una connessione tra le espressioni del volto, le posture del corpo e le caratteristiche di personalità, esperienza emotiva e processi comunicativi. I sistemi di misura codificati da Hjortsjö e poi da Ekman, Friesen ed Hager analizzano questi fattori  tenendo presente la difficoltà aggiuntiva di definizione del contenuto delle emozioni.

Le emozioni di base, quali sorpresa, paura, disgusto, rabbia, felicità, tristezza (e le successive, come disprezzo, vergogna, senso di colpa e imbarazzo) sono percepibili attraverso i cambiamenti di postura dei muscoli della fronte, delle sopracciglia, delle palpebre, delle guance, del naso, delle labbra e del mento. A questi si associano i movimenti del corpo.

Da Duchenne ad Izard esistono numerose metodologie per misurare i movimenti facciali che risultano dalla contrazione dei muscoli e della Action Coding System, risulta essere il più completo.

Le Action Units (unità d’azione) del FACS (derivate da quelle di Hjortsjö, di cui mantengono la stessa numerazione) coinvolte in un’espressione facciale sono descrittive dei movimenti dei singoli muscoli e solo in una fase successiva, osservandone le combinazioni, possiamo effettuare l’interpretazione delle emozioni espresse.

Queste tipologie di ricerca si suddividono in studi di misurazione, che forniscono una misurazione precisa (con unità di misura verificabili) delle modificazioni del volto, e studi di giudizio, che si basano sulle osservazioni del comportamento facciale, quindi sull’insieme delle informazioni veicolate dal viso come ad esempio il sistema Max di Izard. All’interno degli studi di misurazione troviamo sistemi di codifica, come il metodo di Hjortsjö e il FACS, che si basano sull’identificazione e la misurazione di elementi anatomici che concorrono alla formazione del movimento facciale. Questi metodi sono basati sull’identificazione dei modelli di movimento facciale associati alle emozioni di base e alle loro variabili.

La genesi di un sistema coerente fu lunga. Senza considerare i precursori (Duchenne), e i metodi concorrenti coevi (Hjortsjö, Ermiane e Gergerian) già nel 1971 Ekman, Friesen e Tomkins  avevano elaborato un primo strumento, il FAST, cioè Facial Affect Scoring Technique come approccio all’analisi del volto. Nel 1976 in un loro articolo Ekman e Friesen anticiparono la loro creazione con il nome di FAC – Facial Action Code descrivendone la genesi e anticipandone la composizione che diverrà reale solo due anni più tardi. Il sistema porterà il nome di Facial Action Coding System – FACS. Nel 2002 ne venne compilata una nuova edizione definitiva con l’apporto dell’opera di ricerca e redazione di Joseph Hager.

Il Facial Action Coding System FACS è il sistema di misura dei movimenti dei muscoli facciali creato da Ekman, Friesen e Hager, ed è il più utilizzato, sia in ambito scientifico che applicativo. Il FACS fu progettato con l’intento di individuare e catalogare le contrazioni dei muscoli facciali che modificano la fisionomia del volto. Per effettuare la rilevazione di specifiche espressioni facciali si indicano le unità d’azione coinvolte in quell’espressione. Si può definire anche la durata e l’intensità del movimento muscolare oltre ad eventuali asimmetrie laterali. Si possono inoltre determinare l’inizio dell’azione, la sua massima intensità, quando inizia a declinare e quindi termina.

Ekman, Friesen ed Hager individuarono oltre 10.000 differenti combinazioni di azioni muscolari. Data l’enorme mole di materiale solo una parte è stata analizzata per determinare i mutamenti più significativi prodotti nella configurazione della muscolatura del volto. Inoltre la ricerca si è soffermata sul significato di determinate combinazioni, sulla differenziazione dei singoli movimenti e sulla loro riproducibilità volontaria. Sulla scorta dei precedenti sistemi è stata perfezionata una metodologia descrittiva atta a misurare i movimenti facciali in rapporto all’attività prodotta dai singoli muscoli (anche parti di essi o combinazioni di vari muscoli).

Nel sistema FACS i muscoli possono essere indicati con il loro nome latino e con un valore numerico per ogni gruppo muscolare definito come Action Units, AU (Unità di Azione). Tale terminologia fu coniata da Ekman, Friesen e Hager per il loro sistema di codifica al fine di designare con maggior precisione i singoli movimenti e razionalizzare il processo di annotazione.

Nel manuale Ekman, Friesen e Hager hanno indicato con 44 AU (Action Unit) la muscolatura relativa alle espressioni facciali e con 14 AU (Action Unit) le varianti indicanti la direzione dello sguardo e l’orientamento del capo. Le divisioni in realtà sono molto più sottili. Ciò che trae in inganno è la suddivisione che non segue un ordine numerico, ma si basa su grandi raggruppamenti relativi alle parti anatomiche del volto. Abbiamo quindi una prima differenzazione fra Action Units (indicate come AU) e Action Descriptor (indicate come AD), cioè fra movimenti e indicazioni di movimento. Si aggiungono poi i codici di movimento di occhi e capo (indicate come (M), i codici di comportamento grossolano, ad esempio parlare o annusare (sono 9) indicati solo con un numero. Stessa procedura per i codici di visibilità dei movimenti (sono 5 anch’essi indicati solo con il numero), che possono essere temporaneamente coperti. A questi si possono aggiungere i numeri di AU mancanti, presenti in edizioni precedenti, ma poi condensati in un’unica AU, oppure utilizzati solo in particolari circostanze, come l’AU 3, esclusivamente nel BabyFACS di Harriet Oster rivolto a neonati e bambini nei primi anni di vita.

La codifica delle specifiche espressioni facciali è costituita dall’individuazione delle unità d’azione (AU) che formano  il movimento muscolare e quindi dall’elencazione delle stesse in ordine numerico crescente.Con il FACS si può indicare anche la durata di ogni AU (con un inizio, un apice e un punto di scomparsa), l’intensità di ogni unità d’azione (AU) su un certo numero di posizioni, ogni asimmetria bilaterale e ogni unilateralità. La scala di misura dell’intensità risulta composta da una serie di lettere A, B, C, D, E che si riferiscono all’intensità di un’unità d’azione e vengono poste subito dopo il numero dell’AU.

Carl-Herman Hjortsjö

Carl-Herman Hjortsjö

Aree di utilizzo relative

Il numero di Enti, professioni, singoli individui che possono beneficiare delle applicazione del sistema di riconoscimento del volto e di codifica del corpo sono estremamente elevati. Potremmo dire che qualsiasi attività connessa con le relazioni interpersonali ne trarrebbe beneficio. Vediamo alcuni grandi raggruppamenti, puramente indicativi, dell’applicazione del metodo, che possono essere agevolmente ampliati con una più minuta analisi del mondo del lavoro. Dal settore aziendale al coaching, dalle applicazione nello sport al settore sociosanitario, dal miglioramento della compliance, cioè la condivisione da parte del paziente delle indicazioni del medico,  alle attività di diagnosi e terapia nei campi della psicologia e psicoterapia, nella mediazione e nel counseling, nel settore dei viaggi, ospitalità, Hotel, vacanze, organizzazione eventi, nella formazione e l’istruzione. Nella cultura e nell’industria dello spettacolo troviamo ulteriori aree applicative, nella recitazione  teatrale e in quella cinematografica

Interrogatorio in Basic Instinct

Interrogatorio in “Basic Instinct”

Nell’analisi che proponiamo in questa sede la prima macroarea è quella giuridica, investigativa e della sicurezza. Innumerevoli le categorie interessate: la magistratura, gli avvocati, il settore del Law Enforcement (Forze dell’ordine), la sicurezza nazionale (servizi di sicurezza), la sicurezza privata, il controllo sull’immigrazione e alle frontiere, la vigilanza e il controllo in ambito aziendale, la metodologia dell’interrogatorio e dell’intervista classica o cognitiva.

Indubbia la validità nella negoziazione e nella mediazione giuridica civile e commerciale, ma anche, dove applicata, quella penale, dove la rapidità di percezione dei mutamenti di umore ed emozione gioca un ruolo fondamentale, il FACS permette una maggiore precisione nella fase di “familiarizzazione” con il cliente; si ottiene una rapida verifica del gradimento e vi è maggiore precisione nella fase di “chiusura”. Altrettanto nella valutazione dell’efficacia della proposta e nella costruzione del modello di trasmissione delle informazioni. Le relazioni umane e la capacità di “leggere” velocemente il nostro interlocutore favoriscono l’ottenimento di informazioni; altrettanto nelle relazioni di lavoro con i colleghi, e con i clienti. Infine ne beneficia di una migliore capacità di relazione interpersonale e scambio informazioni, il settore delle relazioni interpersonali. Amici, attività sociali, rapporti relazionali sociali, rapporti affettivi, innamoramento, mantenimento delle relazioni nel nucleo familiare, cura dei bambini. Comprendere gli altri, le emozioni degli altri, far comprendere le proprie, migliora la nostra vita, quella degli altri, riduce i conflitti migliora la società nel suo complesso.

Una metodologia per affrontare soggetti pericolosi

Nell’ambito psicologico delle forze di polizia si ritiene sia possibile identificare i “soggetti pericolosi” prima che essi compiano un’azione dannosa (o terroristica) e si possano prevedere le loro intenzioni osservandone movimenti ed espressioni del volto. Nell’aspetto complessivo di una persona si possono individuare sottili indizi significativi, sia sul piano emozionale che nel comportamento adottato. Questi indizi possono diventare visibili a tutti dopo una formazione adeguata, mentre è molto difficile riuscire a sopprimerli in quanto sono eseguiti inconsciamente anche da soggetti molto abili nel mascheramento, nonostante l’esperienza e  l’addestramento ricevuto.

Vari studi indicano che l’atto di commettere un delitto è associato a determinate emozioni. Nel corso di un reato, o nella sua preparazione, alcuni processi emotivi hanno alta probabilità di essere presenti negli “autori”, ad esempio le emozioni di eccitazione, ansia o rabbia (Katz, 1988, Cusson, 1993; Canter e Ioannou, 2004). Le risposte emotive del colpevole di un reato sono influenzate da diversi fattori, tra cui la sorveglianza, gli allarmi, e le conseguenze di tale atto. Pensando a questi fattori un “criminale” può diventare timoroso, o eccitato, e di conseguenza cambiare il proprio comportamento fisico e facciale.

Un altro fattore influente sul cambiamento dello stato emotivo è determinato dal possesso di un’arma. Hales, Lewis e Silverstone (2006) dimostrarono, in una ricerca condotta in Inghilterra, che i soggetti che trasportano un’arma da fuoco illegale tendono a variare i loro stati emotivi. Attraverso interviste individuarono le tipologie di risposte emotive durante il porto di un’arma da fuoco.  I dati forniti indicarono che il trasporto di un’arma illegale è associato ad emozioni di sicurezza, empowerment e paura. La valutazione cognitiva di fattori come la presenza di sorveglianza e possibili sanzioni possono indurre il timore di essere scoperti. Il possesso di un’arma attiva una combinazione di emozioni come la paura di essere scoperti, il senso di onnipotenza, la sensazione di sicurezza derivante dall’idea che nessuno può aggredirci. Inoltre, in letteratura, è dimostrato che tali emozioni possono avere effetti non valutabili consapevolmente, ma avere evidenti forme motorio gestuali ed espressive. Le emozioni influiscono notevolmente sui mutamenti del linguaggio del corpo (Ekman e Friesen, 1967). Tale “comportamento non verbale” può essere più difficile da nascondere di un’arma e può tradire una persona che tenta di nascondere queste emozioni (Blechko, Darker, Gale, 2009).

Secondo Montepare, Goldstein, e Clausen (1987), de Meijer (1989), Wallbott (1998) e Hadjikhani e de Gelder (2003), il linguaggio del corpo (ad esempio, l’andatura o la modifica della postura) potrebbe riflettere rilevanti tendenze all’azione collegate a stati emotivi.

Osservando il comportamento non verbale si possono ottenere utili conoscenze relative alle intenzioni degli altri, e quindi prendere decisioni in merito alle azioni successive. Secondo Meier-Faust (2002) il linguaggio del corpo umano può essere diviso in due categorie: informazioni strutturali (ad esempio, i tratti del viso, corpo a costruire) e le informazioni cinetiche (ad esempio le espressioni facciali, gesti, movimenti del corpo, o la postura). Le informazioni strutturali possono dirci il tipo di emozione provato. Mentre i movimenti del corpo e la postura indicano l’intensità delle emozioni. Questa ipotesi si basa sulle ricerche di Argyle, Cook, Tomkins, Izard e soprattutto Ekman. Ekman e Friesen (1969) hanno studiato la relazione fra le espressioni facciali e le emozioni. Sopprimendo l’emozione provata, e raffigurando sul volto un’altra emozione falsa, appaiono le microespressioni di quella vera, completa, ad alta intensità, per un tempo compreso fra 1/5 e un 1/25 di secondo, oppure espressioni soffocale (solo una parte dell’emozione, o ancorsa espressioni sottili (espressione completa, ma di intensità molto bassa). Queste espressioni sfuggono al controllo cosciente, smascherano la menzogna.

Interrogatorio in Lie to Me [tratto da

Interrogatorio in “Lie to Me”

Applicazioni nel campo della sicurezza

Ekman sovraintende, negli Stati Uniti, alla formazione del personale del Transportation Security Administration (TSA). Questo tipo di addestramento ha ricevuto l’attenzione da parte del settore della sicurezza a causa della minaccia del terrorismo. Un esempio di come queste tecniche sono state applicate al controllo dei passeggeri è il programma “Screening of Passengers by Observation Techniques (SPOT)[1]”, utilizzato nel settore del trasporto aereo.  Si basa sul rilevamento di individui che mostrano un comportamento potenzialmente pericoloso. Piuttosto di cercare l’oggetto fonte di minaccia (un’arma nascosta), è più facile l’identificazione del comportamento non verbale di minaccia. Negli aeroporti degli Stati Uniti, e in alcuni della Gran Bretagna, vi sono delle squadre di sicurezza il cui compito è osservare i passeggeri mentre stanno entrando in aeroporto, al controllo bagagli o in fila ai controlli di sicurezza. Monitorano i segni di potenziale minaccia, come l’abbigliamento appropriato (ad esempio, un cappotto pesante in una giornata calda), così come i segni più sottili, come i gesti, le conversazioni e le espressioni facciali.  Sono in grado di eseguire la scansione dei passeggeri per individuare le reazioni fisiche e psicologiche involontarie che possono indicare lo stress, la paura o l’inganno. Il personale deve riconoscere le emozioni nascoste che possono manifestarsi nel movimento del corpo, nell’andatura e nelle espressioni facciali. Il programma di controllo “Screening of Passengers by Observation Techniques (SPOT)” è stato applicato negli USA dal 2008. Sono stati impiegati 3.000 Behavior Detection Officers (BDO) in 161 aeroporti a livello nazionale. I BDO hanno una “baseline” del comportamento normale in aeroporto e cercano i comportamenti che vi si differenziano. Complessivamente sono state  identificate attività illegali che hanno portato ad oltre 1.800 arresti nei sistemi di trasporto degli Stati Uniti.

Ekman ha inoltre formato gli operatori di varie agenzie federali come TSA, Customs and Border Protection, CIA, FBI, su come osservare le espressioni facciali di ansia, paura e inganno. I servizi segreti degli Stati Uniti che proteggono il presidente, utilizzano tecniche simili per individuare chi porta un’arma nascosta prima che possa utilizzarla (Remsberg, 2007). Abbiamo visto che gli individui armati utilizzano modelli comportamentali ed emozionali simili, che li contraddistinguono dalle persone disarmate. Essere consapevoli dei segnali di minaccia, ed essere capaci di individuarli, permette di eliminare l’effetto della sorpresa in un intervento efficace che precede il verificarsi dell’evento dannoso.

 

Bibliografia indicativa

Blechko, A., Darker, I.T., Gale, A.G., 2009. The Role of Emotion Recognition from Non-Verbal Behaviour in Detection of Concealed Firearm Carrying. Proceedings of the Human Factors and Ergonomics Society, 53rd Annual Meeting -2009, San Antonio, USA, pp. 1363-1367.

Canter, D.V., Ioannou, M. (2004). Criminals’ Emotional Experiences During Crimes. International Journal of Forensic Psychology, 1 (2), 71-81.

Cusson, M. (1993). Situational Deterrence: Fear During the Criminal Event. Crime prevention studies, 1, 55-68.

Ekman, P. (1965). Differential Communication of Affect by Head and Body Cues. Journal of Personality and Social Psychology, 2, 725-735.

Ekman, P. & Friesen, W.V. (1967). Head and Body in the Judgment of Emotion: A Reformulation. Perceptual and Motor Skills, 24, 711-724.

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Hales, G., Lewis C., and Silverstone D. (2006). Gun Crime: the Market in and Use of Illegal Firearms. Home Office Research Study 298.

Hadjikhani, N. & de Gelder, B. (2003). Seeing Fearful Body Expressions Activates the Fusiform Cortex and Amygdala. Current Biology, 13, 2201-2205.

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[1]  “Screening of Passengers by Observation Techniques (SPOT)” è il programma di formazione sviluppato da Ekman in collaborazione con Rafi Ron, responsabile della formazione degli operatori della sicurezza dell’ Israeli Airport Authority. E ‘stato introdotto dal Transportation Safety Authority (TSA) negli Stati Uniti e dalla British Aircrafts Authority (BAA) in Inghilterra. Il programma si propone di utilizzare tecniche di osservazione per individuare le persone che necessitano di un controllo supplementare sulla base di comportamenti insoliti, ansiosi o spaventati espressi da passeggeri ai punti di controllo.

 

Emozioni e tecnologia

Le emozioni permeano la nostra vita. Anche quando non vorremo farlo rispondiamo ad uno stimolo esterno con un’emozione.

Un grosso cane ci ringhia. Abbiamo paura.
Una persona ci porta un regalo. Siamo felici.
Ci arriva la vincita di una lotteria. Siamo sorpresi.
Lungo la strada calpestiamo qualcosa di molliccio, e guardando la scarpa imbrattata riconosciamo il prodotto. Proviamo disgusto.
Dal giornalaio ci portano via sotto il naso l’ultima copia di un libro in promozione assieme al quotidiano che tanto desideravamo. Proviamo rabbia.
Le vacanze finiscono. Diventiamo tristi.
Pensiamo alla socia della nostra impresa che è scappata con i soldi della cassa, proviamo disprezzo.
Queste sono le sei emozioni (+ una), cioè “famiglie” di emozioni confermate negli studi di molti ricercatori come Landis (1924), Frois Wittmann (1930), Fulcher (1942), Hjortsjö (1969), Ermiane e Gergerian (1978), Izard (1983), Ekman, Friesen e Hager (2002).
La settima emozione, il disprezzo,  compare verso i due anni di vita, mentre le altre sono presenti dalla nascita. Per cui, riassumendo, le emozioni sono biologiche, universali e uguali per tutti.
Come si manifestano? Nel volto, nei movimenti del corpo, nell’intensità dell’espressione, nel linguaggio.
Se vogliamo approfondire l’argomento, e magari scoprire quando qualcuno ci mente, esprime un’emozione falsa, vuole danneggiarci, o l’opposto, è sincero e ci aiuta volentieri, dobbiamo studiare i manuali tecnici compilati su base sperimentale dagli studiosi citati.  Successivamente visionare i video di ciò che ci interessa al rallentatore per percepire i movimenti muscolari e quindi riconoscere le emozioni espresse e verificare la loro congruenza con il discorso o la situazione.
Da lunghi anni la sperimentazione si è spostata sulla possibilità di un riconoscimento automatico, computerizzato, senza l’intervento umano.
Le attuali linee di sviluppo dei progetti connessi sono sostanzialmente tre: prodotti per la ricerca, per la sicurezza, per l’intrattenimento ludico.
Nel primo caso il prodotto di punta è FaceReader™7.0 – software per la lettura automatica delle espressioni facciali – prodotto dalla olandese Noldus.  Il programma si basa su una griglia virtuale di oltre 500 punti, che si posizione sopra il volto umano. Un algoritmo “legge” gli spostamenti dei gruppi di punti e ipotizza la percentuale di probabilità che si tratti di un’emozione.

La schermata del programma FaceReader della Noldus [tratta da eyeonmedia.com.mx]

La schermata del programma “FaceReader” della Noldus 

Quali sono i limiti del software?
Il bisogno di una forte illuminazione, per permettere alla videocamera del computer di riprendere in tempo reale, la posizione frontale del soggetto, man mano che si accentua un angolo di spostamento del volto il software diminuisce la probabilità di riconoscimento, ed infine la campionatura delle stringhe di codifica che sono solo quelle base per ogni emozione e non tengono conto delle innumerevoli varianti.
Analogamente l’Università statunitense di Rochester ha sviluppato un algoritmo che analizza 12 caratteristiche del linguaggio, fra cui tono e volume, cercando di identificare le sei emozioni fondamentali, al

Aereoporto di Tel Aviv dove si usa il metodo SPOT

Aeroporto di Tel Aviv dove si usa il metodo SPOT

momento con una probabilità dell’81%.
Nel campo delle applicazioni nella sicurezza negli Stati Uniti la formazione del personale del Transportation Security Administration (TSA). Questo tipo di addestramento ha ricevuto l’attenzione del settore della sicurezza a causa della minaccie del terrorismo. Un esempio dell’applicazione di queste tecniche è il programma “Screening of Passengers by Observation Techniques (SPOT)[1]”, utilizzato nel settore del trasporto aereo.  Si basa sul rilevamento di individui che mostrano un comportamento potenzialmente pericoloso all’interno degli scali aeroportuali. Il programma di controllo “Screening of Passengers by Observation Techniques (SPOT)” è stato applicato negli USA dal 2008. Sono stati impiegati 3.000 Behavior Detection Officers (BDO) in 161 aeroporti a livello nazionale. I BDO hanno una “baseline” del comportamento normale in aeroporto e cercano i comportamenti che vi si differenziano.

Infine nel settore dell’intrattenimento abbiamo un nuovo software dell’agosto 2014 per Google Glass che aiuta ad identificare il sesso, l’età e lo stato emotivo di una persona.
Questa app si chiama Glassware ed è stata prodotta dall’Istituto Fraunhofer per Integrated Circuits che ha adattato il suo motore di riconoscimento facciale per i Google Glass, gli occhiali tecnologici di Google.
L’applicazione SHORE di Glassware è infatti in grado di elaborare il flusso video raccolto dalla telecamera integrata negli occhiali. La tecnologia usata ha richiesto un lungo sviluppo e utilizza una libreria di dati costruiti sul linguaggio di programmazione C++ per analizzare il volto umano. Il programma permette di comprendere se il soggetto è felice o triste, maschio o femmina, giovane o vecchio.
Tutte queste applicazioni comportano inevitabilmente un’intrusione nella privacy del cittadino. Di questo parere è Joseph Hager, il più giovane degli ideatori del FACS (Facial Action Coding System). Tanto da rifiutarsi,  per protesta, di volare su qualsiasi aereo per non incorrere nei sistemi di riconoscimento facciale delle emozioni, automatici o umani,  che considera lesivi alla vita personale.
Di parere opposto Paul Ekman, che invece è ideatore o collaboratore in tutte queste, e in altre discutibili, operazioni.
Il problema non si pone tanto da un punto di vista tecnico, risolvibile probabilmente con un aumento di punti nelle griglie, di soggetti nei database e di angoli di movimento, ma se la lettura delle nostre emozioni debba rimanere un elemento  privato o essere utilizzata nelle forme più invasive da enti privati per incrementare i loro vantaggi e profitti.

“Screening of Passengers by Observation Techniques (SPOT)” è il programma di formazione sviluppato in collaborazione con Rafi Ron, responsabile della formazione degli operatori della sicurezza dell’ Israeli Airport Authority. E ‘stato introdotto dal Transportation Safety Authority (TSA) negli Stati Uniti e dalla British Aircrafts Authority (BAA) in Inghilterra. Il programma si propone di utilizzare tecniche di osservazione per individuare le persone che necessitano di un controllo supplementare sulla base di comportamenti insoliti, ansiosi o spaventati espressi da passeggeri ai punti di controllo.”