Intervista a Dario Argento

1999: DARIO ARGENTO, FILM DIRECTOR

Il regista DARIO ARGENTO nel 1999

Rilasciata nel 2003

Sei considerato un “maestro” del cinema italiano, come vivi questo ruolo?

Non ho questa sensazione, sono fatto così, anzi mi da fastidio essere etichettato come “maestro”. Mi ricordo quando ho iniziato a lavorare con Leone, lui in effetti era per me un maestro, però odiava sentirsi chiamare in questo modo, diceva di non essere il maestro di nessuno.

Di rado tengo conferenze all’Università, in America ho fatto questa esperienza, ma è stata deludente, per il tempo dedicatovi, dovrebbe essere una cosa più impegnativa, che dura più a lungo, non semplicemente una conferenza che non muta nulla, non cambia nessuna coscienza. Mi piacerebbe fare delle cose più complesse, più organiche. Bisogna impegnarsi molto se si vuole aiutare altri a fare questo lavoro. Negli Stati Uniti ho insegnato a Los Angeles, New York, ad Albany e Chicago, sempre però per poco tempo perché ero impegnato a girare qualche film. Il tempo giusto per insegnare sarebbe di almeno un anno.

Cosa ne pensi del cinema d’oggi?

Nel cinema contemporaneo c’è un eccesso di idee commerciali, non mi affascina, è falsato da queste persone nuove che provengono dal settore finanziario, bancario. Sono stato al festival di Torino con William Friedkin e parlando con lui si diceva che in America fino a qualche anno fa i produttori sostenevano i film perché avevano idee nuove, erano interessanti, film d’arte, oggi nessuno fa questi discorsi, guardano solo se farà più o meno soldi. Il valore del film, i suoi contenuti, non gli interessano più e si vede.

Del tuo ultimo film, “Il cartaio”, puoi dare qualche anticipazione?

Non posso dire molto, la distribuzione mi ha chiesto di non parlarne. Ad ogni modo è un film ambientato nel mondo del web, c’è un serial killer che sfida la polizia, e quindi un gruppo di investigatori che lavorano per prenderlo. La storia narra la lotta per cercare di individuarlo, di fermarlo. Stefania Rocca è una delle persone che dirigono il gruppo di poliziotti. C’è anche un investigatore inglese, in quanto la prima ragazza uccisa è proprio di questa nazionalità. I rapporti fra le due polizie non sono idilliaci, perché siamo diversi da loro e loro da noi. Però siamo complementari, pregi e difetti si equilibrano.

Abbiamo girato a Roma. E’ la prima volta, è da tanto che non ci ritornavo. Ho voluto presentare questa città – la conosco bene perché ci sono nato – non in maniera pittoresca o caratteristica, non è la Roma dei film di Luigi Magni, di Scola o di Petri, è quella che vedo io, un miscuglio fra medievale e antico, con i diversi caratteri dei quartieri, delle periferie. Sono sempre stato appassionato di architettura, di ambientazioni, di scenografie e sono molto attento a questi dettagli.

Ti diverti quando giri?

No, non molto. E’ impegnativo, duro. Un mezzo incubo. Trovarmi proiettato improvvisamente in mezzo a 120 persone, il continuo parlare, mi angoscia molto, anche se è il mio mestiere, sono ormai 30 anni che lo faccio, dovrei aver imparato, però è la mia psiche che rifiuta un po’.

Se dovessi fare qualcosa d’altro?

Facevo lo scrittore, scrivevo poesie, mi sento più scrittore che regista. Lo sono diventato per difendere le mie sceneggiature. Rappresentate da altri non erano così “giuste”.

E gli Americani, li conosci  bene…

Si, Stephen King, Romero, John Landis, Craven, Carpenter, Tobe Hooper, ho vissuto a lungo in America. Con loro ho un rapporto diverso da quello che posso avere con i miei colleghi italiani. Perché in Italia i registi non si parlano, non si vedono, non si frequentano, non si troverà mai un tavolo in un ristorante in cui ci sono due registi. Invece in America c’è più solidarietà, fratellanza, i registi amano le opere degli altri, li vogliono incontrare, ci si racconta le proprie esperienze, si va al cinema insieme, si va in giro. Penso a Quentin Tarantino che mi cita sempre nei suoi film…

 Enzo Kermol

Leave a Reply

Your email address will not be published.