Intervista a Gian Luigi Rondi

Gian Luigi Rondi: Domande e risposte

di Enzo Kermol

Alberto Sordi, Gianluigi Rondi e Gina Lollobrigida

Incontrai Gian Luigi Rondi nel suo studio al David di Donatello (l’Oscar italiano) circondato dalle foto delle varie edizioni di questo prestigioso riconoscimento per lo spettacolo italiano e dalle innumerevoli attestazioni di benemerenza da lui raccolte nel corso degli anni.
L’immagine che meglio descrive questo testimone del cinema, non solo italiano, e che conservo nella memoria, è quella d’anni or sono, quando alla Mostra del Cinema di Venezia venne inaugurata la nuova sala della Galileo, costruita al di sopra della vecchia arena estiva all’aperto. Nel pomeriggio, quando il maggior numero di critici si riposava lontano dalle sale, Rondi entrò con un buon anticipo sulla proiezione in programma e, quasi furtivo, sfiorò le nuove poltrone, i corrimani, guardando il vasto spazio della nuova sala con affetto, quasi un padre verso il figlio. Poi si sedette un po’ discosto osservando il pubblico, soprattutto giovani data l’ora, che entrava numeroso, e sorrise contento di vedere come l’interesse per il cinema, questa sua grande passione, continuasse a vivere nelle nuove generazioni.
Lo incontrai altre due volte. La prima all’anteprima per la critica in una saletta al secondo piano dell’Hotel Excelsior, dove al mattino si incontravano i giornalisti con gli attori e i registi, mentre alla sera vi era una proiezione solo per gli addetti ai lavori. Il film era “Aliens – Scontro finale” . Arrivò pochi minuti prima della proiezione. Non c’era più posto, la saletta era gremita all’inverosimile. Gli portarono una sedia della vicina sala che posero nel corridoio all’ingresso di una della porte. Si accomodò e da lì guardò il film. Ebbi modo di salutarlo.
La seconda in occasione della proposta di organizzare un grande festival del cinema a Trieste. Ne parlai con l’allora sindaco di Trieste Richetti e con il deputato Coloni, che in un primo momento sembrarono favorevoli, poi nascosto ai due, li sentii mormorare qualcosa sulla guerra di correnti della DC e capii che come al solito nulla si sarebbe concretizzato.
Rondi si era dimostrato disponibile all’evento, da collocare in coda alla Mostra di Venezia, in modo da sfruttare l’immagine dell’avvenimento e il flusso dei critici colà riuniti. Con rammarico gli comunicai la falsa disponibilità dei politici locali e lui, con signorilità non commentò la notizia e mi ringraziò per quanto avessi tentato.

Gianluigi Rondi con Gina Lollobrigida a Venezia

Da quando si interessa alla Biennale?

Ho legato il mio nome alla Mostra di Venezia esattamente dal 1948 quando ho cominciato ad essere presente come membro della giuria. Poi sono stato membro della commissione esperti, Commissario per la Mostra del cinema, quindi Direttore della Mostra, membro del Consiglio direttivo della Biennale, Presidente della giuria nell’ultima edizione di Guglielmo Biraghi e adesso sono stato eletto Presidente, quindi sono 45 anni dedicati, abbastanza dall’interno, all’evoluzione prima di tutto dal punto di vista cinematografico, che si esplica attraverso la Mostra del cinema poi alla Biennale come studio dei problemi dell’Ente.

Ha conosciuto molti registi, attori?

E’ chiaro che in tutti questi anni, soprattutto rimanendo a contatto della Mostra del cinema, per la Mostra viaggiando, e seguendo come critico cinematografico i maggiori festival internazionali, ho finito con il conoscere il mondo del cinema. 45 anni sono lunghi. Conoscere, ma anche avervi in mezzo degli amici. E’ una lunga lista e non sarebbe facile elencargliela. Certamente quelli che sono stati più incisivi nella mia esistenza sono, in Italia, Federico Fellini, tutt’oggi legato a me da una dimestichezza anche di abitudini molto profonde, poi agli inizi Rossellini, De Sica, Blasetti e Visconti, ciascuno per un motivo o per un’altro collegato sia alla mia professione che ai miei interessi.

Quello che ricorda di più?

Blasetti era l’unica persona che mi chiamava figliolo. Quando lo persi, ricordo di aver scritto “adesso per me comincia la vecchiaia, ero figlio fino a qualche tempo fa, papà l’avevo perso molti anni prima, e adesso non ho più nessuno che mi da un segno di giovinezza chiamandomi figliolo”.

Claudia Cardinale e Gianluigi Rondi

Altri?

De Sica. Sono stato assieme a lui in molte battaglie, soprattutto agli inizi della sua carriera, quando i produttori non sostenevano il neorealismo. Rossellini posso dire che è stata la persona di cui ho fatto per anni la mia bandiera, anche perché come cattolico Rossellini rappresentava all’interno del neorealismo quella corrente cristiana che sentivo più vicina a me e più volentieri difendevo, anche dagli attacchi di quelli che preferivano un neorealismo di impostazione marxista.

E all’estero?

Pensi un po’ quanto sono stati lunghi i rapporti, che ancora oggi rimangono, almeno con gli auguri di Natale, con Ingmar Bergman, e addirittura, in tutto un altro mondo, con Akira Kurosawa.
In Francia, che è una specie di mia seconda patria, perché sono sposato con una francese, ho figli e nipoti francesi, ho coltivato soprattutto la grande e paterna amicizia di Renè Clair.

Quando dirigevo la Mostra nel 1971-72 e dopo, nell’altro quadriennio, egli è stato sempre presente, fisicamente, oppure, morto, moralmente, con la grande retrospettiva che gli ho voluto dedicare in occasione di una delle mie Mostre. Ma metta anche Marcel Carnè, con il quale ho spesso ancor oggi delle lunghe telefonate di saluto e di simpatia e al quale ho dato di recente un premio alla carriera.

Altri?

Metta anche il compianto Clouzot e, ancor oggi, Renè Clement, poi praticamente tutti i miei legami con il cinema tedesco. Nel 1973, essendo direttore degli Incontri di Sorrento, ho dedicato al giovane cinema tedesco, di cui oggi tutti parlano, ma di cui allora non parlava nessuno, una settimana riepilogativa, dove vennero persone oggi celebri, allora ignote, come Wim Wenders, Volker Schlndorff, Werner Herzog, Alexander Kluge, che ebbero un tale successo, e da quel momento una tale possibilità di penetrare nel mercato cinematografico italiano, che qualche anno dopo Schlndorff, ricevendo la Palma d’oro al Festival di Cannes per il suo Tamburo di latta, dichiarò, incontrandomi nella Croisette assieme ad un gruppo di giornalisti: “Vedete, questa Palma d’oro la devo a Rondi. Noi registi tedeschi non eravamo nessuno e grazie al suo Festival abbiamo potuto essere conosciuti e oggi sono qui a conquistare il primo premio a uno dei maggiori festival cinematografici europei”.

Gianluigi Rondi con Ingrid Bergman

I più cari ?

Parliamo anche di amicizie più private e personali. L’amica che mi è stata più cara, e che più ho pianto quando l’ho perduta, è stata certamente Ingrid Bergman, alla quale fui vicino dal 1949, quando venne in Italia per incontrare Rossellini per Stromboli. L’ho seguita attraverso le sue vicissitudini private coniugali.
Quando lasci l’Italia la rividi tanto negli Stati Uniti quanto a Londra, dove si era ritirata a fare teatro negli ultimi anni della sua vita. Seguendola da vicino in occasione della sua malattia, e dedicandole proprio nel 1980 una lunga trasmissione televisiva, su Raiuno, di otto, nove film, che lei accettò di far precedere da una lunghissima intervista sulla sua vita. Andai a registrarla a Londra e credo le servì da pretesto, da occasione per confidarsi, e per dividere un po’ quelli che erano stati i problemi della sua vita, nelle varie categorie cronologiche in cui si erano proposti, concludendo poi a me in privato: “Gian Luigi non sono mai stata felice”. Perché, in realtà, al vertice della gloria, con dei bei figli, che l’hanno amata e che ha amato, pieni anche di successi personali, i suoi problemi e la sua necessità di esprimersi, il suo travaglio di dividersi tra la carriera e la vita privata non riuscii mai ad essere pienamente risolto, e perciò non le diede mai una vera felicità.

Qualcun altro?

Un’altra amica, Gina Lollobrigida, la cui amicizia continua tutt’ora e si intensificata in occasione di molti viaggi all’estero fatti insieme. Non perché avessimo voglia di viaggiare, ma perché a quell’epoca esisteva l’Unitalia Film, che era un organismo promozionale del cinema italiano all’estero, e fra i vari mezzi di questa promozione c’erano delle settimane all’estero di film italiani. In quelle occasioni oltre ai film si portavano registi, attori, attrici e anche critici. Ebbi modo di fare con Gina uno splendido viaggio in Asia che ci portò, dopo Bangkok, Singapore e Hong-Kong, anche a Tokio. E uno splendido viaggio in centroamerica che ci portò in Messico e poi in Sudamerica a Rio De Janeiro, dove ritornammo nuovamente perché lei aveva lasciato un così buon ricordo, in occasione della manifestazione cinematografica, che venne chiamata come “regina del carnevale”, ed io le feci da “principe consorte”. Accompagnandola, dovetti mascherarmi, tutte cose che non corrispondono al mio modo di vedere. Ho delle fotografie curiose con delle grandi piume di struzzo in testa, vicino a lei incoronata “regina del carnevale”. E’ veramente uno dei ricordi più variopinti della mia esistenza.

Gina Lollobrigida con Gianluigi Rondi, Venezia 1972

Dei più giovani cosa mi dice?

Parliamo di quelli che sono venuti dopo la generazione di Visconti, di De Sica, di Rossellini. Oggi il mio mito, tutti lo sanno, sono i fratelli Taviani. Ho approfittato della mia presenza alla Mostra di Venezia, per dare loro il Leone d’oro alla carriera. Non era mai stato dato a due autori così giovani, poi fratelli come sono, quindi due Leoni assieme. Ho sempre esaltato la loro opera e continuo ad essere considerato il loro fan. Ho il privilegio di essere sempre il primo a vedere i loro film, da solo in una saletta, con loro che, subito dopo, vengono a chiedermi il parere, dicendomi che da questo mio parere che si sentono tranquilli sulla carriera riservata al loro film.

Ci dice qualcosa dei recenti problemi alla Biennale?

Più che un’opposizione diretta alla mia nomina, tant’è vero che molti giornali, sulla qualificazione, sulla professionalità di Rondi, non hanno nulla da dire, sono scontenti del modo in cui sono stati nominati i consiglieri della Biennale. Non condivido queste critiche nei confronti dei miei colleghi.
La Biennale deve essere composta nel suo gruppo dirigente, il consiglio direttivo, da personalità che sono elette dagli enti locali veneziani, dall’assemblea del personale, e dalle confederazioni sindacali, e da tre persone nominate dal Presidente del Consiglio. Io sono nominato dal Presidente del consiglio, lo ero anche nel precedente quadriennio, quindi un’obiezione sui modi della mia nomina non è stata fatta. E’ stata fatta nei confronti di alcuni colleghi perché, si è detto, gli enti locali non hanno tenuto conto fino in fondo dello statuto della Biennale che chiede loro di nominare personalità della cultura. Di nominarle sulla base di elenchi che le associazioni culturali italiane forniscono agli enti locali. Ora questo dura dal 1973. Sono stati nominati anche dei politici, tant’è vero che alcuni sono diventati presidenti, come Ripa di Meana, come il professor Giuseppe Galasso che è uno storico, ma anche un politico, iscritto al partito repubblicano dove ha fatto una grandissima carriera.
Nell’attuale consiglio ci sono, più che dei politici puri, degli amministratori, i quali servono anche loro. Perché la mia teoria e che il consiglio direttivo della Biennale non un Comitato scientifico, un gruppo di amministratori. Ora bene che ci siano degli uomini di cultura, però, soprattutto con i difficili tempi di oggi, c’è bisogno di oculati amministratori. E’ vero che la gestione giuridico-amministrativa dell’ente del segretario generale e del direttore amministrativo, per chi vota, e risponde dell’attività dell’ente in campo amministrativo, il consiglio direttivo, il quale un vero e proprio consiglio di amministrazione.

Carla Fracci con Gianluigi Rondi

Pretendere per questo consiglio unicamente degli intellettuali puri è anche rischioso per il buon andamento dell’ente. Invece si fatta polemica che non ci fossero solo intellettuali puri, poi siccome gli enti locali sono rappresentati da consigli, provinciali, regionali, i quali, eletti dal popolo in liste di partiti politici sono, ovviamente, espressione dei partiti politici, questo per legge, si è detto, inventando questa parola tanto sgradevole oggi di moda, che queste nomine erano lottizzate, in quanto partivano, ma era per legge, da partiti politici che sedevano negli enti locali con loro rappresentanti democraticamente e legittimamente nominati. Ora io nego anche questa lottizzazione, non posso però negare che oggi anche gli intellettuali appartengono ad aree, io non sono un democristiano, però sono un cattolico, quindi riconosco l’area cattolica come quella di mia appartenenza. Allora di altri si è detto di area liberale, di area socialista, e in questo senso hanno voluto costruire tutto questo meccanismo di accuse e di critiche, scoprendo, all’improvviso, quelli che loro consideravano guasti di un sistema che dura dal 1973. Se questo sistema ha finito per rivelare dei guasti, ecco perché già dal 1988 la Biennale si era preoccupata di preparare una riforma dello statuto. Questa riforma la stanno studiando anche i due ministri competenti, che sono i Beni culturali e lo Spettacolo.
Un disegno di legge stato già mandato in Senato, una corsia preferenziale. Mi sembra che a questo punto le polemiche dovrebbero cessare, invece non cessano perché quando si agitano i polveroni poi molto difficile far scomparire la polvere. Mi auguro che di fronte alla buona volontà di tutti, anche dei ministri che hanno preparato questa riforma, di fronte ai partiti che stanno studiando a loro volta delle riforme parallele, vedi il Pds, di fronte alla stessa Biennale, che ha continuato la sua opera di riformazione, e ha preparato una serie di emendamenti da inoltrare ai due ministri – e io stesso li ho portati a nome della Biennale – insomma si vede che la volontà di cambiare c’è. Si deve per constatare, insisto, che tutto quello che accaduto non accaduto in violazione della legge, ma in stretta applicazione della legge che gestisce la Biennale.

Gianluigi Rondi con Federico Fellini

Cosa pensa del futuro del cinema italiano?

Il cinema italiano ha bisogno di una nuova legge, perché la 1213 ci regge da una ventina di anni, e abbiamo visto quante difficoltà incontra la sua applicazione. La nuova legge, che va sotto il nome di legge Boniver, ma ha cominciato ad essere predisposta con Lagorio e poi passata a Tognoli, allo studio. La situazione parlamentare italiana quella che tutti conoscono, se queste leggi non riescono ad arrivare rapidamente al traguardo perché il parlamento ha molti altri problemi. Per insisto nel dire che il cinema italiano ha bisogno di una nuova legge perché altrimenti le attuali strutture che lo governano sono le meno adatte ai tempi nuovi, soprattutto di fronte alla concorrenza televisiva, del cinema americano, alla diminuzione della capacità di mercato. E’ un dato di fatto che le sale si vuotano e si chiudono, quindi c’è da porre dei rimedi. Devo dire che il testo di legge che la Boniver ha mandato in parlamento mi sembra buono, vi hanno lavorato tutte le forze politiche, vi hanno partecipato tutte le forze culturali, autori, critici, tecnici, produttori, quindi c’è da sperare bene.

E culturalmente?

Dal punto di vista economico vi è la crisi, dal punto di vista culturale nego che vi sia mai stata una crisi nel cinema italiano perché quanto di più vitale e fertile si possa dare. Noi abbiamo i migliori autori, imprenditori, tecnici e attori, quindi non abbiamo sentito la crisi se non come contraccolpo dovuto alle complicazioni economiche cui andata soggetta la nostra industria. Non c’è film che non sia applaudito all’estero, non c’è un autore che non abbia premi, e non abbiamo solo Fellini, di cui sono felice di veder festeggiato presto un quarto Oscar, abbiamo anche autori una generazione più giovane. Ciascuno si propone con le sue qualificazioni ovviamente i Taviani, Bertolucci, Scola, ma poi arrivando ai più giovani, anche Moretti.

Note

L’anno dell’intervista credo fosse il 1980, l’articolo uscì con alcuni interventi di redazione sul quotidiano “Trieste Oggi”. Qui è riportato nella sua forma originale.

Il film che vedemmo alla Mostra del Cinema di Venezia era “Aliens – Scontro finale” (Aliens, USA, Gran Bretagna, 1986) di James Cameron. Con Michael Biehn, Sigourney Weaver, Paul Reiser, Lance Henriksen, Carrie Henn. Fantascienza, durata 132 min.

I criteri della bellezza

Le misure della bellezza
di Enzo Kermol

Volti giapponese e caucasico perfettamente simmetrici

Molti studi dimostrano che lo standard di “bellezza media” supera i criteri di appartenenza etnica e si impone a livello transculturale. Pollard (1955), utilizzando volti appartenenti a sei donne di origine etnica differente, creò un volto femminile composto dalla sintesi dei sei volti originari. Queste sette immagini furono sottoposte al giudizio di studenti nigeriani, cinesi, indiani e neozelandesi che valutarono il “volto medio” come quello maggiormente attraente.
Quale meccanismo porta a considerare un volto medio attraente?
Alcuni autori ipotizzano che la preferenza per il volto medio sia collegata alla familiarità, altri ritengono che esistano componenti universali, indipendenti dalla maggiore o minore familiarità. Grammer e il suo gruppo di ricerca (2002) costruì il volto e il corpo medio di donne americane (bianche e nere) e giapponesi. Il campione “valutatore”, composto da americani e giapponesi, giudicò l’immagine media la più attraente tra le altre componenti. I risultati di questo esperimento portarono alla conclusione che i principi di base della percezione della bellezza devono essere considerati universali. La tecnica della media digitale (Averaging) presenta alcuni artefatti da tenere in considerazione come il fatto che la media dei pixel porta alla scomparsa di ogni imperfezione della pelle, ad un colorito estremamente omogeneo e il volto risulta perfettamente simmetrico. Da questo si deduce che il volto medio è considerato attraente per l’assenza di ogni imperfezione dermatologica e non tanto per il fatto di essere medio. Inoltre, se i volti originari non sono attraenti, il volto medio non risulta un esempio di bellezza, il processo di media a volte non basta.
La teoria del volto medio presenta alcuni limiti: se il volto medio è giudicato attraente, non è detto che sia il più attraente. Forme che esulano dall’ordinario possono attrarre di più rispetto a forme ottenute da una media; analizzando volti molto attraenti ci si accorge che ciò che li contraddistingue è un tratto esagerato o enfatizzato rispetto alla media della popolazione, quindi il ruolo dell’esagerazione risulta molto importante nella determinazione della bellezza. Da questi ragionamenti si arriva al concetto di “stimolo supernormale”, ovvero, uno stimolo che supera in una dimensione uno stimolo biologicamente normale evocando una risposta maggiore. Lo stimolo supernormale accentua le caratteristiche distintive permettendo una migliore identificazione, entro certi limiti. Se, ad esempio, si accentuano troppo certe caratteristiche fisiche (grandezza degli occhi, forma delle labbra, …) non percepiamo più un volto attraente, bensì uno deforme. Prestando attenzione a non superare certe soglie, gli stimoli supernormali consentono di esprimere in maniera forte ed efficace messaggi altrimenti deboli e poco efficaci.
Un esperimento condotto da Costa e Corazza (2006) su un gruppo di studenti dell’Accademia di Belle Arti ha dimostrato l’effetto della creazione di stimoli supernormali nei ritratti artistici. Agli studenti veniva chiesto di disegnare un autoritratto a memoria e uno davanti ad uno specchio. Confrontando i ritratti con le fotografie del volto degli studenti, è risultato che i soggetti tendevano a modificare le componenti del volto per migliorarne l’aspetto estetico. Gli occhi venivano ingranditi e arrotondati, il naso assottigliato, le labbra più rotonde ed alte; la parte inferiore del volto veniva affusolata, resa più lunga e meno rotondeggiante rispetto al reale. In generale, in tutta la storia dell’arte vi è stata una tendenza degli artisti ad aumentare le dimensioni degli occhi, la carnosità delle labbra e ad affusolare la parte inferiore del volto. Anche per quanto riguarda la raffigurazione del corpo si trovano operazioni di perfezionamento che portano, nella ritrattistica femminile, al raggiungimento di quelle dimensioni che sono vicinissime alla sezione aurea, ovvero, 90:60:90.

Bellezza standard, tratti biologici comuni

Tipologie della bellezza: maschile, femminile e infantile
Il volto maschile, per essere giudicato bello, deve possedere un giusto miscuglio di tratti maschili (zigomi alti, mascella robusta, muscolatura mascolinizzata) e tratti femminili (occhi grandi, naso piccolo, labbra pronunciate).
I volti femminili si preferiscono quando i tratti femminili sono esagerati. Il volto ha un valore estetico più elevato nell’uomo piuttosto che nella donna. Questa affermazione è giustificata dal fatto che negli spot il volto dell’uomo è mostrato nel 65% dei casi, mentre per la donna si tende ad enfatizzare il corpo che compare nel 55% dei casi (Archer, 1983). Questa disparità può essere spiegata con il fenomeno del “faccismo”, termine utilizzato per tradurre l’espressione inglese “face-ism”. Tale fenomeno si riferisce all’attribuzione di qualità positive (bellezza, ambizione, dominanza, intelligenza, cultura) alle persone che sono inquadrate in primo piano, e al fatto che gli uomini vengono rappresentati dai media in tale modo molto più delle donne.
Il faccismo presenta un indice variabile da zero (l’immagine non rappresenta la faccia) ad un massimo di uno (la fotografia rappresenta solo la faccia); per quantificare il grado di faccismo, si calcola il rapporto fra altezza del volto e altezza della parte di persona che viene rappresentata. L’inquadratura stimola reazioni psicologiche: Archer (1983) ha dimostrato che individui, maschi o femmine, fotografati in primo piano sono valutati come più intelligenti, attraenti, ambiziosi, di quelli inquadrati in piani più distanti. Nella televisione d’oggi, ad esempio nei programmi di intrattenimento, l’uso del primo e del primissimo piano è frequentissimo. Ciò coinvolge emotivamente lo spettatore in maniera molto forte, come se si trovasse ad una distanza intima dalla persona inquadrata, di gran lunga maggiore di quella consentita dalle regole sociali verso un estraneo.
La figura intera, al contrario, corrisponde ad un rapporto distanziato, oggettivo. In generale, i piani ravvicinati hanno una maggiore valenza emotiva se confrontati con quelli più distanti.
Tratti infantili presenti in volti adulti possono essere valutati molto positivamente perché associati a caratteristiche di tenerezza. Dall’altra parte, volti che presentano tratti più maturi sembrano più dediti ad esercitare potere. Nel contesto di leadership, il giudizio di bellezza di un volto maschile o femminile viene effettuato in base a meccanismi differenti che chiamano in gioco tre elementi fondamentali: l’autorità (dominanza e competenza), la disponibilità (simpatia e calore) e il carisma (fascino ed influenza).
Per gli uomini, l’aspetto dominante favorisce l’assunzione di posizioni di potere e responsabilità; per le donne, invece, il carisma si può identificare sia nei lineamenti più infantili del volto, che nei lineamenti più maturi. L’importante è che aspetto e comportamento siano il più possibile coerenti. Se, per l’uomo, sono già stati identificati i tratti del volto legati alla capacità di influenzare la percezione nel campo sociale, ciò non è ancora accaduto per la donna: le strategie usate in questo campo dalla donna sono molteplici, coinvolgendo segnali di sottomissione e fragilità, come di dominanza e forza.

Le due tipologie di volto maschile preferite dalle donne in base al ciclo di ovulazione

Bibliografia
Archer D., Iritani B., Kimes D., Barrios M. (1983), “Faceism: five studies of sex-differences in facial prominence”, Journal of Personality an social Psychology, 4 (45), 725-735.
Costa M., Corazza L. (2006), Psicologia della bellezza, Giunti Editore S.p.A.
Grammer K., Thornhill R. (1994), “Human (Homo sapiens) facial attractiveness and sexual selection: The role of symmetry and averageness”, Journal of Comparative Psychology 108, 233-242.
Grammer, K., Fink, B., Juette, A., Ronzal, G., Thornhill, R. (2002), Female faces and bodies: N-dimensional feature space and attractiveness. In G. Rhodes & L. A. Zebrowitz (Eds.), Advances in visual cognition, Vol. 1. Facial attrativeness: Evolutionary, cognitive, and social perspectives (pp. 91-125).
Grammer K, Fink B, Møller A.P, Thornhill R., “Darwinian aesthetics: sexual selection and the biology of beauty”, Biol. Rev, 2003;78:385–407.
Pollard J. S. (1995), “Attractiveness of composite faces a comparative study”, International Journal of Comparative Psychology, 8, 77-83.

Il corpo bello e sano

Bellezza e Indice di Massa Corporea (IMC)

di Enzo Kermol

L’attrice Denise Richards

Mouches (1994) ha condotto una ricerca sui gusti degli uomini e delle donne in termini di silhouette femminili. Agli esaminati venivano presentati disegni di profili della stessa altezza, ma di peso variabile. L’unità di misura era l’Indice di Massa Corporea (IMC) ottenuto dividendo il peso (Kg) per il quadrato dell’altezza (m). Un IMC compreso tra 18,5 e 24,9 è considerato normale, uno inferiore a 18,5 è indice di sottopeso, uno compreso fra 25 e 29,9 indica un leggero sovrappeso, un IMC superiore a 30 segnala obesità. I risultati hanno evidenziato che gli uomini preferivano donne con IMC di 20,4, mentre le donne gradivano silhouette più minute, con IMC di 19,3 ca.
L’IMC è considerato un criterio di valutazione della bellezza corporea molto importante, ma viene applicato solo quando si tratta di corpi femminili. Per giudicare un corpo maschile invece si fa riferimento al rapporto tra la larghezza delle spalle e quella della vita (vita stretta e spalle larghe).
Singh (1993) ricercò le caratteristiche che rendono attraente un corpo femminile agli occhi dell’uomo. Su un campione di uomini tra i 18 e gli 86 anni, emerse che gli uomini preferivano donne con rapporto seno/vita e vita/fianchi attorno a 0,7, valore vicinissimo al rapporto aureo. D’altra parte, donne con rapporti disarmonici venivano considerate non attraenti, anche se dotate di seni prosperosi. Un’indagine successiva condotta da Henss (1995) giunse alla conclusione che solo donne con un rapporto vita/fianchi compreso fra 0,7 e 0,8 erano giudicate attraenti, sia nel caso di un giudice maschio che di uno femmina. Questo rapporto è massimizzato da una particolare postura che prevede il formarsi di una linea spezzata con il corpo. Ogni segmento di questa linea ha una direzione inversa rispetto al precedente: se, ad esempio, le gambe sono oblique verso destra allora il busto è inclinato verso sinistra e la testa nuovamente verso destra.

L’attrice Marilyn Monroe

Il giudizio delle donne nei confronti del proprio corpo risulta molto severo. Se fino ai 7 anni le bambine accettano il proprio aspetto fisico, più o meno serenamente, con l’avvento dell’adolescenza il giudizio di accettazione tende a deteriorarsi. In questo periodo della vita circa il 60% si considera in sovrappeso e solo il 20% si dichiara soddisfatta del proprio corpo. Con il trascorrere del tempo si nota un peggioramento di questa percezione negativa del proprio aspetto e, permanendo per lunghi periodi può causare disturbi psicologici in ambito occupazionale e sentimentale.
Per le donne il benessere del proprio corpo è sostenuto da un rapporto vita/fianchi inferiore a 0.8. Quindi abbiamo il rapporto vita/fianchi come segnale di salute fisica. Alcuni studi di Buss e Barnes (1986) hanno messo in luce come le persone attraenti vengano giudicate con una salute migliore di altre dall’aspetto meno gradevole. Tuttavia questi risultati sono la conseguenza dello stereotipo “bello e sano” e dell’effetto “alone” del quale godono le persone attraenti, piuttosto che un reale legame bellezza-salute. Una significativa e reale correlazione tra salute e bellezza si ha nel caso in cui per salute fisica si intendono caratteristiche come forza, resistenza, affaticamento ridotto come dimostrato da Cronin, Spirduso, Langlois e Freedman (1999).

L’attrice Esther Williams

Bibliografia
Buss D. M., Barnes M. (1986), “Preferences in human mate selection”, Journal of Personality and Social Psychology, 50, 559-570.
Cronin D. L., Spirduso W. W., Langlois J. H., Freedman G. (1999), Health, physical fitness, and facial attractiveness in older adults, manoscritto non pubblicato.
Henss R. (1995), “Waist-to-hip ratio and attractiveness. Replication and extension”, J. of Personality and Individual Differences, 19, 479-488.
Mouches A. (1994), “La raprésentation subjective de la silhouette fèminine”, Les Cahiers Internationaux de Psychologies Sociale, 4 (24),76-87.
Singh D. (1993), “Body shape and women’s attractiveness: The critical role of the waist-to-hip ratio”, Human Nature, 4, 297-321.
Singh D. (1993), “Adaptive Significance of Female Physical Attractiveness: Role of Waist-to-Hip Ratio, Journal of Personality and Social Psychology, 65, 293-307

Censura letteraria

Censura e rito iniziatico nelle “letture proibite” del Seicento
di Enzo Kermol

Pal.-Ferrante

Premessa
Con il termine di censura ci si riferisce ad un esteso e disomogeneo insieme di meccanismi di controllo comprendenti forme che vanno dalla censura intrapsichica, cioè quella funzione che tende ad impedire ai desideri inconsci di affiorare al sistema preconscio-conscio, alla censura economica, cioè quella serie di “pressioni” svolte per favorire od ostacolare un prodotto sul mercato. L’uso più comune del termine prevede il caso di un controllo esercitato da un’autorità su opere artistiche o letterarie per motivi politici, religiosi o morali.
L’Inquisizione cattolica romana, istituita nel 1542 contro il diffondersi della Riforma in Italia, portò, nel 1548, all’emanazione del primo Index autorum et librorum su ciò di cui era proibita, e di conseguenza su ciò di cui era permessa, la lettura.
Il caso che esamineremo risulta essere piuttosto singolare nel panorama dell’attività dell’Indice dei libri proibiti e difficilmente ricollegabile ad episodi analoghi in altre epoche, se non con modalità talmente divergenti da rendere inutile la comparazione.
L’Ufficio dell’Inquisizione delle diocesi di Aquileia e Concordia istruì centoventidue processi fra il 1648 e il 1659 per il reato di lettura, o per il possesso, di libri posti all’Indice. Si tratta della maggior concentrazione di processi con tale imputazione nell’arco dell’attività di questo Ufficio inquisitoriale. Infatti dal 1551, anno di istituzione, al 1798 anno di soppressione, si contano solo poche decine di processi per questo reato, con una sola altra concentrazione, numericamente di gran lunga inferiore, nel periodo 1577-1616 riguardante testi di carattere religioso ed ereticale.

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Luoghi e contenuti
La particolarità dei processi di metà seicento si ritrova innanzitutto nei titoli dei volumi citati nelle deposizioni. La maggior parte risulta appartenere alla produzione letteraria di Ferrante Pallavicino e, in misura minore, degli altri membri dell’Accademia degli Incogniti di Venezia. I libri più citati scritti dal Pallavicino sono La rete di Vulcano, Il corriere svaligiato, La retorica delle puttane, La pudicizia schernita, Il divorzio celeste, Il principe ermafrodito. Argomento di questi libri, accanto ad una forte critica sociale, spesso espressa attraverso l’uso di metafore, la liberalizzazione dei costumi, in particolare di quelli sessuali.
La corrente culturale – filosofica a cui appartengono questo e gli altri autori, può essere considerata derivare dal libertinismo dotto, di vasto respiro, del cosiddetto “ridotto morosiniano”, sito in Venezia tra la fine del XVI secolo e il primo decennio del XVII, ove si ritrovavano studiosi quali Paolo Sarpi, Fulgenzio Micanzio, Galileo Galilei, Andrea Morosini, e altri di pari fama.
Poiché accanto al libertinismo dell’intelletto esiste quello di costume, espresso in varie accezioni, possiamo considerare gli “Accademici Incogniti”, e i loro lettori friulani, forse più vicini al cosiddetto libertinismo “nobiliare”, descritto dallo Schneider, che ad altre forme dello stesso fenomeno. Oltre ad un’analisi storica di questi avvenimenti, peraltro già compiuta (1), è possibile tentare un approccio diverso, più empirico, ma che può rivelarsi meno prevedibile nei risultati. Ipotizziamo che il libro proibito faccia parte della struttura simbolica di comunicazione in un gruppo ristretto. Lo consideriamo come uno degli elementi più significativi ed appariscenti del codice di comunicazione di un gruppo sociale particolare.
Lo Schneider (1972) dà una precisa classificazione dei significati contenuti nel termine “libertinage”. Quello più vicino ai lettori friulani del Seicento si riassume “nell’atteggiamento di rifiuto del comportamento e del modo di pensare comuni assunto da molti nobili per volontà di distinguersi” (2). Intendendo tutta una serie di atteggiamenti tenuti da una parte di una classe che si sentiva minacciata nei suoi privilegi economici e politici. Ma questa accezione, seppure importante, non soddisfa appieno i nostri intenti. Infatti se da un lato il comportamento di questi “lettori friulani” della metà del XVII secolo corrisponde alla descrizione fatta dallo Schneider, così come la composizione sociale del gruppo comprende un alto numero di nobili, resta tuttavia un po’ privo di spiegazioni il comportamento di una parte cospicua di lettori non nobili appartenenti alla classe borghese in ascesa, come i medici, i notai, ed altri gruppi similari.
Il rituale, nel caso della lettura dei libri proibiti facilmente assimilabile alla struttura del codice ristretto poiché “qualsiasi gruppo strutturato […] finisce con lo sviluppare una sua propria forma di codice ristretto che abbrevia il processo di comunicazione condensando le unità di significato in forme codificate e predisposte” (3). Inoltre osserviamo che “questo codice fa sì che determinati schemi di valori vengano rinforzati e consente ai membri di interiorizzare la struttura del gruppo e le sue norme in un reale processo di interazione”.
A prima vista l’insieme dei “lettori friulani” può apparire privo di connotazioni atte a strutturarlo in gruppo, oltre a quelle riferite alla lettura dei libri posti all’Indice. Non vi sono cioè caratteristiche precise di riconoscimento esteriore immediato, come accade alla “società” formata dai membri di un governo locale, dai componenti di un’istituzione universitaria, dai religiosi di una comunità ecclesiastica, e cosi via. In sostituzione di questi elementi abbiamo invece una serie di fattori comuni che creano un più vasto e perfettamente localizzabile gruppo, il cui comportamento sociale verso l’esterno, e la sua coesione interna, sono il più tangibile segno di riconoscimento: esso ha origini comuni, quali localizzazione territoriale, studi in un’unica università, cioè Padova, una fascia d’età estremamente condensata, determinati interessi verso una località precisa, nella fattispecie Venezia, status sociale, condizioni economiche, tutta una serie di elementi che fanno presupporre valori comuni, ed appaiono evidenti nel rituale di lettura dei libri proibiti.
Ciò che dobbiamo considerare, posto che il rituale sia una forma di codice ristretto, è che la “condizione per il formarsi di un tale codice sia che i membri del gruppo si conoscano talmente bene da condividere un patrimonio comune di credenze di fondo che non richiedano di essere formulate esplicitamente” (4). Una condizione di tale genere risulta evidente in questi “lettori” è non solo da ciò che traspare dai singoli resoconti processuali, meglio di tutti nel caso del medico udinese Enrico Palladio (5) dove, grazie alla concessione di un maggior spazio di discussione all’imputato, si ha una descrizione precisa del comportamento di questi friulani del Seicento, riuniti in occasione di una festa a casa di Padre Antonio Rocco a Venezia, ma anche dall’analisi stessa di quei romanzi, oggetto della comunicazione privilegiata che, come quelli del Brusoni o dello stesso Pallavicino, rispecchiano lo stile di vita e i modelli di riferimento dei lettori medesimi.

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Tipologia di codice
Due autori, Eco (1979) e Iser (1978), hanno lungamente analizzato i rapporti fra lettore e testo attraverso “la cooperazione interpretativa nei testi narrativi” e con l’esposizione di “una teoria della risposta estetica”. Come ci illustra amabilmente Eco (6) le informazioni che ricaviamo dal testo narrativo sono di gran lunga superiori a quanto il testo contenga. Esse derivano dall’interpretazione che il lettore da allo scritto completandolo nelle parti a suo avviso mancanti e quindi reinterpretando la versione completa del messaggio, dando luogo quindi a versioni narrative diverse tra lettore e lettore a seconda dell’enciclopedia informativa in suo possesso.
Sostanzialmente la lettura di un testo rappresenta il confronto fra due codici, quello dell’emittente (l’autore) e quello del ricevente (il lettore). Tanto maggiore sarà la differenza tra gli elementi costituenti i codici, tanto maggiore sarà la differenza nell’interpretazione del testo. Per Iser (7) la funzione dell’opera letteraria soprattutto quella di rinnovare le tavole di valori, il senso della vita, attraverso l’esame critico delle fondazioni morali o comportamentali dei personaggi del testo narrativo. Questi elementi ci permettono di affermare che nei testi scritti dal Pallavicino fra messaggio proposto dall’autore e interpretazione (ed uso) fattone dai “lettori friulani” intercorre una notevole diversità d’intenti.
Tuttavia non ci soffermeremo sul problema dell’interpretazione del testo, di un testo la cui analisi sarebbe peraltro piuttosto interessante, ma sull’uso di questo testo nell’ambito della struttura dei processi comunicativi.
Solo apparentemente la lettura di questi libri può essere considerata come di trasgressione alle norme. Infatti il codice ristretto che essa rappresenta “viene usato economicamente per trasmettere informazioni e per sostenere una determinata forma sociale: ad un tempo un sistema di controllo e di comunicazione, analogamente al rituale crea solidarietà” (8) nel gruppo sociale di questi “lettori”.
Apriamo qui una breve parentesi per definire i concetti di “codice ristretto” e “codice elaborato” usati, poiché ci si riferisce dapprima ai due diversi tipi di classificazione nei codici linguistici in cui essi sono originari, per poi analizzare le derivazioni e il contesto in cui essi sono stati applicati liberamente. Nel “codice elaborato” il parlante sceglie entro un vasto campo di alternative sintattiche, organizzate flessibilmente: questo linguaggio richiede una programmazione complessa. Nel “codice ristretto” il parlante attinge da un assorbimento molto più angusto di alternative sintattiche, e queste sono organizzate in modo più rigido (9).
Il “codice ristretto” strettamente legato all’ordinamento sociale, e il linguaggio ha una duplice funzione: utilizzato per trasmettere le informazioni, ma soprattutto esprime la struttura sociale e la rafforza. Questa indubbiamente la funzione assunta dalla lettura dei libri proibiti, in cui più che il contenuto informativo viene privilegiato il rituale di lettura e il possesso di determinati libri, oltre a ciò che circonda il compimento di questa serie di azioni. Riguardo invece al “codice elaborato” esso si colloca in una posizione in cui la funzione di mantenimento della struttura si va lentamente eliminando, poiché il suo scopo quello di “organizzare i processi mentali, di distinguere e combinare i concetti” (10). Evento questo lontano dagli scopi dei lettori seicenteschi di questa letteratura.
Gli eventi connessi a tutti i passaggi dei libri proibiti hanno essenzialmente l’effetto di richiami di status per coloro che ne fruiscono, “il loro effetto di trasmettere la cultura, o una cultura locale, in modo tale da accrescere la somiglianza di chi li riceve con gli altri membri del gruppo” (11). Ma quali sono le caratteristiche di questo gruppo?
Socialmente vasto, il cui stile di vita stato descritto dal Tassini e dallo Spini nonché dal Pellegrini (12). Di quest’ultimo in particolare il riferimento ad un episodio che coinvolse il poeta Eusebio Stella e Alvise Spilimbergo in una rissa con un gruppo di giovani a causa di una prostituta incontrata in una notte a Spilimbergo. Commentando il fatto alla luce della vita notturna nel Friuli seicentesco il Pellegini lo considera “ambiente concretissimo che incontreremo nei versi friulani di Eusebio”.
Interessante la collocazione del poeta come elemento di spicco nel quadro sociale di quel periodo storico in cui “linguaggio e pensiero sono stati elaborati fino a strumenti specializzati per scelte decisionali, ma la struttura sociale conserva una forte presa sui suoi membri, tanto da non ammettere sfida ai suoi principi fondamentali” (13). Si può quindi riscontrare che il linguaggio elaborato risente pesantemente del “codice ristretto” a causa dei vincoli con la struttura sociale.
Il “codice ristretto” rappresentato dalla lettura dei libri proibiti (limitatamente a quelli dei libertini veneti) non investe la struttura rappresentata dalla Chiesa cattolica, ed per questo che non ne viene perseguitato. Diversamente accade per gli autori genuinamente avversi ad ogni forma di controllo sociale. Basti pensare alla tragica fine di Ferrante Pallavicino, dapprima attirato in un agguato, imprigionato, torturato ed infine decapitato ad Avignone in territorio papale nel 1644.

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Osservazioni conclusive
Nel meccanismo processuale dell’Inquisizione cattolica viene esercitato il controllo da parte di una struttura rigida anche sui minimi accenni alla trasgressione delle norme di comportamento. Ma alla data dei processi tali mezzi di controllo avevano dimostrato ormai la loro efficacia sia come vettori repressivi che come instauratori di modelli di comportamento. Tanto più che la mitezza della pena (si tratta di semplici atti di pentimento), nonché le protezioni di cui godevano gli imputati, e il loro rango sociale, li poneva al di fuori di ogni giudizio da parte dell’autorità ecclesiastica.
Queste particolari caratteristiche fanno prendere l’aspetto quasi di un “gioco di società” all’intera vicenda degli imputati nei processi per la lettura dei libri proibiti, scritti dagli “Incogniti veneti”, nel Friuli seicentesco.
L’appartenenza a una fascia d’età giovanile e omogenea, le protezioni che stendono un velo sull’attività di questi lettori, la sostanziale impressione di cultura di maniera e mondana espressa dai fruitori di questa letteratura, lo stesso contenuto dei libri, insieme al gusto “trasgressivo” per un proibito che per presenta scarsi rischi, porta a formulare l’ipotesi che il “gioco” del libro posto all’Indice assuma il valore di un rituale. La giovane et dei lettori, il contenuto spesso “sessuale” dei libri, induce a pensare ad una sorta di rito di passaggio, che possiamo definire impropriamente, ma coloritamente, come di “iniziazione sessuale” delle classi colte: “qualsiasi azione porta l’impronta dell’apprendimento, dal mangiare al lavarsi, dal movimento al riposo e soprattutto alle attività sessuali. Nessun comportamento più di quello sessuale viene trasmesso attraverso un processo di apprendimento sociale ed esso è, naturalmente, strettamente legato alla morale dominante” (14).
D’altra parte la “tendenza alla promiscuità sessuale non è una reazione alla repressione, anzi la si incontra più di frequente là dove la repressione è meno evidente” (15), perciò in quel settore sociale che possiede maggiori privilegi senza dover contemporaneamente ottemperare a obblighi e costrizioni particolari.
In conclusione l’intera vicenda dei lettori di libri proibiti dell’Accademia degli Incogniti nel Friuli seicentesco può essere ricondotta ad un fenomeno “di costume” che non contiene nulla di eversivo, anzi rafforza in coesione un gruppo elitario perfettamente inserito nella struttura sociale del tempo con ruoli e mansioni direttive, anche se, ricordiamolo, una troppo spinta generalizzazione di questi dati porterebbe ad errore. Infatti accanto ai lettori “morigerati libertini” che abbiamo visto ne esistono altri, all’interno degli stessi processi, la cui varietà di letture e capacità di elaborazione fanno pensare ad attività originali nel campo dello studio e del pensiero, che si discostano da questi e poco concedono al gusto “modaiolo” in auge nel gruppo sociale esaminato.

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Note

1) E. Kermol, La rete di Vulcano. Inquisizione, libri proibiti e libertini nel Friuli del Seicento, Udine, Edizioni Borgo Aquileia, 1989.
2) G. Schneider, Il libertino, Bologna, Il Mulino, 1974.
3) M. Douglas, Natural Symbols, Harmondsworth, Peguin Books, 1970. Tr. it., I simboli naturali, Torino, Einaudi, 1979, p.79.
4) M. Douglas, 1979, p. 80.
5) Processo n. 37, busta 31 “Secundum Millenarium”, Sant’Uffizio, Archivio della Curia Arcivescovile di Udine (ACAU).
6) U. Eco, Lector in fabula, Milano, Bompiani, 1979.
7) W. Iser, The Act of Reading, Baltimora, Johns Hopkins University Press, 1978. Tr. it., L’atto della lettura, Bologna, Il Mulino, 1987.
8) M. Douglas, 1979, p. 81.
9) M. Douglas, 1979, p. 42.
10) M. Douglas, 1979, p. 42.
11) B. Bernstain,Social Class and Psycho-therapy,  “British Journal of Sociology”, XV, 1964, pp. 54-64.
12) G. Tassini, Cenni storici e leggi circa il libertinaggio in Venezia dal secolo decimoquarto alla caduta della Repubblica, Venezia, Filippi, 1888;
G. Tassini, Feste, spettacoli, divertimenti e piaceri degli antichi veneziani, Venezia, Filippi, 1890;
G. Spini, Ricerca dei libertini, la teoria dell’impostura delle religioni nel Seicento italiano, Roma, Universale di Roma, 1950;
R. Pellegrini, Eusebio Stella poeta nel Friuli del Seicento, Udine, Il Campo, 1980.
13) M. Douglas, 1979, p. 48.
14) M. Mauss, Le tecniques du corps, “Journal de Psychologie”, XXXII, 1936.
15) M. Douglas, 1979, p. 124.

Cyrano de Bergerac e il cinema

Cyrano: “Giusto al fin della licenza io tocco…”
di Enzo Kermol

 

Cyrano de Bergerac, di Jean-Paul Rappeneau (Francia, 1990), con Gerard Depardieu

Cyrano de Bergerac, di Jean-Paul Rappeneau (Francia, 1990), con Gerard Depardieu

Cyrano de Bergerac, “commedia eroica” di Edmond Rostard, apparve la prima volta sulle scene di Parigi il 28 dicembre 1897. Da allora considerata come una delle opere teatrali più importanti, e più note, nel panorama letterario francese, al pari di quelle scritte da Molière o da Corneille. La vicenda, che prende l’avvio nel 1640, narra la vita e le gesta di Cyrano di Bergerac, capitano dei cadetti di Guascogna, letterato e spadaccino formidabile nonché fortunato innamorato della bella Roxane. Poiché egli ritiene (a torto o a ragione) che il suo aspetto (il celeberrimo “naso”) lo renda poco adatto alla seduzione della dama, decide di aiutare il cadetto Christian de Neuvillette, di piacevole aspetto, ma di scarsa capacità espressiva, nell’impresa, scrivendo e declamando in sua vece delle meravigliose lettere d’amore.
L’opera basata sulla vita di un personaggio storico, Hector Savinien Cyrano de Bergerac, nato nel 1619 a Saint-Forget e morto nel 1655 a Sannois, intellettuale dai mille interessi, autore di drammi, opere filosofiche, romanzi fantascientifici e poesie, nonché, ovviamente, schermidore eccellente.
Così lo presenta Rostard nel suo libro “Astronomo, filosofo eccellente. Musico, spadaccino, rimatore, Del ciel viaggiatore, Gran mastro di tic-tac, Amante — non per sé — molto eloquente. Qui riposa Hercule Savinien de Cyrano de Bergerac, Che in vita sua fu tutto e non fu niente!”.

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Jose Ferrer in Cyrano de Bergerac, diretto da Michael Gordon nel 1950

Varie sono le versioni cinematografiche tratte dal testo di Rostand. Ricordiamo che già nel 1909 apparve un cortometraggio dal titolo Cirano di Bergerac, di soli 276 metri, prodotto a Torino da Pasquali e Tempo, dal regista sconosciuto, forse lo stesso Pasquali. Nel 1922 venne girato il primo lungometraggio, Cirano di Bergerac, diretto da Augusto Genina, prodotto in Italia dalla Extra Film, con Pierre Magnier nel ruolo del protagonista. Entrambe le versioni erano mute. Passando al sonoro nel 1946 troviamo la prima edizione francese, Cyrano de Bergerac, di Fernand Rivers con Claude Dauphin, Ellen Bernsen e Pierre Bertin. Segue una produzione statunitense, Cyrano de Bergerac, diretta da Michael Gordon nel 1950 con Josè Ferrer (premio Oscar per l’interpretazione), Mala Powers e William Prince. Nel 1963, di nazionalità francese, un curioso cambiamento di titolo e di storia, Cyrano contre D’Artagnan, di Abel Gance, sempre con Josè Ferrer nei panni dello spadaccino (unico attore ad aver interpretato due volte sullo schermo questo eroe letterario), nonché Sylva Koscina, Jean Pierre Cassel e Philippe Noiret.

Cyrano de Bergerac, diretto da Michael Gordon nel 1950

Cyrano de Bergerac, diretto da Michael Gordon nel 1950

Abbiamo poi visto una versione “modernizzata”, ambientata ai giorni nostri, Roxanne (USA, 1987) diretta dall’australiano Fred Schepisi, con il comico Steve Martin nei panni di un tale C.D. Bates, capo dei pompieri, alias Cyrano, che duella con le racchette da tennis e, novità, vincente anche in amore. Infine l’ultimo film prodotto, Cyrano de Bergerac, forse il più bello, quello di Jean-Paul Rappeneau (Francia, 1990), con Gerard Depardieu, uno dei maggiori attori francesi, Cyrano insuperabile. Girato a Budapest, in Ungheria e in Francia, il film ha vinto un Oscar per i costumi, ben dieci premi Cesar, la Palma d’oro a Cannes per l’interpretazione di Depardieu, il Golden Globe come miglior film straniero negli Stati uniti nel 1991, quattro premi BAFTA, il David di Donatello. Raramente nella messa in scena di questo testo vi è, come in questo caso, un tal ritmo tra parola e gesto. La battuta, il verso, sottolineano il procedere dell’azione, combaciano perfettamente, testo e movimento, come ha detto lo stesso Rappeneau “la mia idea era che la forma poetica percorresse tutte le scene come una colonna sonora, facendo del film quello che io volevo: una specie di opera lirica recitata”. La macchina da presa segue con i suoi movimenti i versi, si libra nell’aria e colpisce come una stoccata, affondando nel cuore dello spettatore, dando a Cyrano una duplice dimensione, d’immagine e di linguaggio, che si fondono in un insuperabile prodotto filmico, raggiungendo la perfetta coniugazione tra teatro, cinema e letteratura.
Il personaggio di Cyrano – Depardieu oggi, secondo alcuni, potrebbe apparire “poco attuale”, poiché, allo stesso tempo, un cavaliere romantico, coraggioso e imbattibile, fiero e indipendente; rifiuta di assoggettarsi al controllo di qualsiasi potente, ed infine fedelmente convinto del proprio ideale d’amore per tutta la vita. Contemporaneamente tanto distaccato dalle quotidianità della vita sociale (ne un freddo osservatore, ne analizza i costumi, ne deduce i comportamenti) da utilizzare le proprie produzioni poetiche attraverso il vuoto involucro del rivale – sostituto per raggiungere lo scopo prefisso.

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Cyrano de Bergerac, di Jean-Paul Rappeneau (Francia, 1990), con Gerard Depardieu

Può il modello umano di Cyrano essere attuale nella società odierna ?
La risposta ovviamente morale, non tecnica. I denigratori di tale modello si ritrovano in quei “critici”, un po’ arrivisti, un po’ cialtroni, pronti a cambiare opinione per un soldo dato da chiunque si etichetti come “padrone”. Viceversa i sostenitori dei valori di Cyrano saranno molto più simili all’eroe da loro scelto. Definizioni queste un po’ manichee, ma che forse si discostano dalla realtà meno di quanto si possa immaginare. Sulla scia del successo del Cyrano interpretato da Depardieu venne allestita a Parigi un’edizione teatrale interpretata da Jean Paul Belmondo, indubbiamente un attore dal “physique du role” indovinato. Poco riuscita invece l’edizione teatrale italiana di Franco Branciarori (attore dal fisico pesante e dalla recitazione noiosa e vanesia, più a suo agio nelle alcove di Tinto Brass che nei panni di qualsiasi spadaccino, romantico o meno).
Ritornando al cinema una citazione d’obbligo deve venir fatta per un altro eroe guascone, più ricco di adattamenti per il grande schermo, che appare anche nel testo di Rostand: D’Artagnan. Le fortune cinematografiche di questo personaggio sono più vaste. Ricordiamo solo alcuni titoli. Si va da I quattro moschettieri (Italia, 1919), di Filippo Costamagna, della Albertini film di Torino, al Visconte di Bragelonne (Italia, 1955), di Fernando Cerchio. Da The Three Musketeers, (USA, 1939) di Allan Dwan, a D’Artagnan contro i tre moschettieri (Italia, 1963) di Fulvio Tului. E ancora, dai film di Richard Lester The Three Musketeers (Panama, 1973) e The Revenge of Milady (Panama-Spagna, 1975) ai Three Musketeers (USA, 1948) di George Sidney e a Les ferrets de la reine e La vengeance de Milady (Francia, 1961) di Bernard Borderie. E si potrebbe continuare a lungo intaccando anche altre storie del genere “cappa e spada”. Ma se in queste pellicole rimaniamo nella stessa epoca quanto ad ambientazione, diversa diventa l’impostazione del racconto e il suo significato. Solo una citazione aggiuntiva per I tre moschettieri (The Three Musketeers)  del 2011 diretto da Paul W. S. Anderson, in quanto si tratta di un film fantasy che può fungere da elemento di congiunzione con gli analoghi film cinesi.

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Cyrano de Bergerac, di Jean-Paul Rappeneau (Francia, 1990), con Gerard Depardieu

L’altro parallelo può essere infatti compiuto con i film asiatici, in particolare quelli di Hong Kong di derivazione letteraria, in cui la figura del letterato-maestro d’arti marziali o dello studioso-spadaccino enormemente diffusa. Ricordiamo alcuni dei film più noti anche in occidente: Gli omicidi farfalla (Diebian, 1979, di Tsui Hark), La fanciulla cavaliere errante (Xianu, 1970, di King Hu) e il fantastico Storia di fantasmi cinesi (Qian nu Yohoun, 1987), diretto da Siu-Tung Ching. Qui le doti dell’eroe sono dilatate all’estremo, egli eccelle nelle attività di pensiero come in quelle d’azione. Lo studio e l’arte della spada si accompagnano in universi spesso degradati in cui il romanticismo dei personaggi (melò) si alterna a furibondi combattimenti il cui premio è la vita stessa.

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Cyrano de Bergerac, di Jean-Paul Rappeneau (Francia, 1990), con Gerard Depardieu

Nota
L’articolo originale venne scritto attorno al 1990, dopo l’uscita del film di Jean-Paul Rappeneau. L’ho riletto, rivisto e ripulito.

Cinema e politica

La percezione del “politico” attraverso il media cinematografico

di Enzo Kermol

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Quarto potere (Citizen Kane, Usa, 1941) di Orson Welles

Il cinema si e sempre prestato a divenire fecondo campo d’azione per l’analisi della società in cui è stato prodotto. Al suo interno qualsiasi categoria di “personaggio” può essere utilizzata per analizzare il sistema sociale descritto da quella singola opera, o meglio da quel gruppo rappresentativo di pellicole prodotto in un determinato periodo di tempo. Se osserviamo alcune figure ricorrenti all’interno dei film possiamo tracciare un percorso sia storico-filmografico che di evoluzione o cambiamento della percezione collettiva rispetto a quel determinato ruolo nel contesto sociale.

Varie categorie sono state esaminate con accuratezza (come gli psicologi[1] o i divi[2]) altre, ad esempio i gangster[3], hanno avuto minor fortuna nel divenire soggetto di studio ed altre ancora sono state volutamente o casualmente tralasciate. La categoria del “politico” e una di queste. Il termine è naturalmente estremamente generico, ma permette un primo approccio ai caratteri formativi di questo insieme di personaggi relativamente diffuso sullo schermo.

La prima suddivisione sarà di carattere geografico e temporale.  I film prodotti in ogni Stato hanno caratteristiche diverse, cosi come gli stessi personaggi che di decennio in decennio mutano le qualità specifiche intrinseche del loro essere nel cinema.

La seconda suddivisione riguarda i generi in cui si ritrova il “personaggio” esaminato, la collocazione storica del film (coevo alla pellicola, precedente di alcuni anni o spostato di secoli) e la durata di permanenza nella narrazione, cioè quale importanza riveste ai fini del soggetto originario del film. Il “politico” di per se è un personaggio di difficile definizione per la sua stessa natura di “sovrapposizione” ad altri con  caratteristiche professionali o di comportamento ben più rilevanti. Nella definizione dei caratteri delle figure tipizzanti un genere  e  possibile  isolare  le caratterizzazioni  dei personaggi dandogli connotati solidi,  che possono  mutare  nel corso degli  anni, mantenendo però una riconoscibilità immediata atta ad indicare il “ruolo” ricoperto da quella particolare “maschera”.

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La nascita di una Nazione (The Birth of a Nation, Usa, 1915) di D.W. Griffith

Il “politicante” western

Nel  genere  western lo sceriffo, il pioniere, i soldati  a cavallo, l’indiano  rappresentano,  cosi come tanti  altri personaggi,  una struttura fondante per il genere,  difficilmente trasferibile  ad un altro contesto. Tuttavia alcune  particolari figure  possono tracciare un ideale legame con altre analoghe in generi dissimili. Cosi accade per alcune figure, come lo  sceriffo  del western  che può  avere una “parentela” con il poliziotto  del  noir, mentre altre, come il cowboy  o l’indiano, sono  indissolubilmente legate al genere specifico. Diversamente da tutte le altre figure quella  del “politico” attraversa i generi e le epoche con pochi mutamenti, anche  se permane,  proprio per questa sua duttilità, un  legittimo dubbio sulle reali caratteristiche del soggetto da definire o piuttosto, potremmo dire, sulla sua evanescenza e superficialità. Nel western viene subito  indicato come “politicante”[4] ed e perciò spesso considerato  negativamente.  Non a caso viene collocato a mezza strada fra personaggi “rudi” (come il cow-boy, il cercatore  d’oro, il  boscaiolo)  e i fuorilegge, accentuando cosi la  vaghezza  di caratteri comuni nella figura del politico da un film all’altro ad eccezione della sua stessa definizione di copertura di ruolo sociale. Tuttavia esiste una dicotomia nel modo di rappresentarlo segnata dalla posizione, antitetica,  esistente fra il politico corrotto e l’idealista. In  Alba  di  gloria (Young Mr. Lincoln, Usa, 1939,  di  John  Ford) vediamo Henry  Fonda  (il  futuro presidente Abraham Lincoln) destreggiarsi in un processo in cui trionfano i “valori” rispetto agli “interessi”. Analogamente abbiamo il  politico dal “volto umano” che si preoccupa  delle  minoranze indiane in Il grande sentiero (Cheyenne Autumn, Usa, 1964, di John Ford con Richard Widmark) Edward G. Robinson (Carl Schurz, segretario  agli interni) e ancora Kent Taylor in Far West (A  Distant Trumpet, Usa, 1964, di Raoul Walsh).

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Alba di gloria (Young Mr. Lincoln, Usa, 1939) di John Ford

Alle  volte  la  dicotomia  fra libertà  e  civiltà porta il “politico” alla  rinuncia  delle cariche per lanciarsi nell’avventura, come  Glenn  Ford in Cimarron (id., Usa, 1960, di Anthony Mann) o per riaffermare il  propri valori rispetto al degenerare della società, come Don  Murray in  Il re della prateria (These Thousand Hills, Usa,  1958,  di Richard Fleisher), che abbandona la  carriera  politica  per poter affrontare in duello il suo nemico.

Molto spesso la politica ha il solo scopo di mascherare  attività svolte al  di  là  della legge, come in Texas  Express in cui David  Brian acquista a basso costo i terreni su cui transiterà la ferrovia in costruzione, o serve a giustificare antichi rancori, come in Non si può continuare  ad uccidere (The Man from Colorado, Usa, 1947, di Henry Levin) dove Glenn Ford, ottenuto il nuovo incarico di giudice, si vendica  di quanti  lo  avevano tradito passando nelle file degli avversari facendoli impiccare. Ancor peggio abbiamo Lon  Chaney yr. in Lo sperone nero (Black Spurs, Usa, 1965,  di Robert  G. Springsteen) che incarna colui che si e arricchito con  la costruzione delle ferrovie senza badare a scrupoli morali utilizzando la copertura della politica.

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Soldati a cavallo (The Horse Soldier, Usa, 1959) di John Ford

Ben delineata l’ipocrisia del politico in  Soldati  a cavallo (The Horse Soldier, Usa,  1959,  di John  Ford)  con  John Wayne al comando di una difficile missione.  Willis  Bouchey  (colonnello Phil Secord)  interpreta  un politico che riveste  temporaneamente  un grado  militare.  Il  suo unico  pensiero  durante  la  difficile operazione in territorio nemico  e  quello  delle ripercussioni  sulla campagna elettorale in cui  si presenterà per  la carica di governatore. Falsità, arroganza, pressappochismo, vigliaccheria, tutto quanto vi è di negativo nell’epopea del West lo incarna il “politico” di turno.

Ed ancora, in I ribelli del Kansas (The Jaywalkers, Usa, 1959, di  Melvin Frank) Jeff Chandler ha come desiderio primario ripetere a modo suo le gesta di  Napoleone (un illustre predecessore nella categoria dei “politici”) dapprima terrorizzando la popolazione del Kansas e quindi proponendosi come il salvatore dello Stato.

L’uomo  che uccise Liberty Valance (The Man Who  Shot  Liberty Valance,  Usa, 1962) di John Ford è un esemplare ritratto di un politico positivo, James Stewart (senatore Ransom Stoddard), della sua vita e della sua carriera dettata dalla lotta contro la brutalità e l’illegalità. Ma, come insegna Ford, dietro l’apparenza pubblica di una carriera “facile” vi è l’opera di un onesto cittadino, John Wayne (Tom Doniphon), che veglia sull’operato e ne diviene coscienza critica. Evidente simbolizzazione della visione  del regista (e non solo) sulla difficile gestione di una politica corretta. Altro esempio di scontro tra i due volti della politica lo ritroviamo nell’ambientazione elettorale di  Il giudice (Judge Priest, 1934) di John Ford con  Will Rogers (giudice William “Billy” Priest, candidato) e soprattutto nel quasi remake Il sole splende alto (The Sun Shines Bright, 1953) sempre di John Ford  con  Charles  Winniger  (giudice  William  Pittman  Priest, vincitore  delle  elezioni),  Milburn  Stone  (Horace  K.  Maydew, “politicante”) in cui attraverso lo scontro fra due opposte concezioni di vita, simboleggiate dai due protagonisti, traspare “l’abisso esistente fra i bisogni dell’individuo e la capacità della società di soddisfarli”[5].

I ribelli del Kansas

I ribelli del Kansas (The Jaywalkers, Usa, 1959) di Melvin Frank

Attraverso la storia

Dalla disamina di un unico genere, il western,  sorge prepotentemente una richiesta. Qual è l’esatta definizione di “politico” e chi sono i personaggi  che  si possono definire tali. Evidentemente si tratta di una risposta  difficile.  Non  ci  aiuta  certo  la  definizione   dal dizionario,  che  vede la politica come la “teoria e  pratica  che hanno per oggetto la costituzione,  l’organizzazione, l’amministrazione dello Stato e la direzione della vita pubblica”[6] e nel politico colui che e connesso a tali attività. Cosi diventa possibile attribuire la qualifica a qualsivoglia personaggio in senso estensivo e, al contempo, negarne altri la cui evidenza appare palese. E’  giusto dire  che è  un politico il giovane Lincoln  prima  di  divenire presidente o coloro che stanno svolgendo una campagna  elettorale di dubbio successo, cosi come i generali che conducono la  guerra esercitano  un  governo militare e quindi (da  Grant  a  Eishenawer) divengono presidenti o ricoprono altri incarichi istituzionali. E i  nobili,  re e regine (ad esempio Maria di  Scozia  (Mary  of Scotland, Usa, 1936) di John Ford con Katharine Hepburn nel ruolo della regina) o i dittatori  (Mussolini e Hitler si ritrovano  in quasi  tutti i film sulla seconda guerra mondiale,  Napoleone  in quelli sul primo ottocento). Evidentemente anche i condottieri  e i  senatori della Roma antica erano politici, ma ciò  indica  che interi   generi,  come il  “peplum” contengono tali figure. Estendendo a dismisura le caratteristiche di questo “personaggio” ci si potrebbe trovare nella stessa situazione della figura della “donna”  la cui definizione all’interno di particolari generi  ha una funzione precisa (ad  esempio  nel  western,  nel  poliziesco, nell’erotico)  ma  assunta  come  figura  generale  porterebbe semplicemente ad un lungo elenco senza significato di quasi tutti i film prodotti. Il  “politico”  ha  dunque  bisogno di  una  definizione  che  ne permetta di maneggiare la materia senza debordamenti e con facile distinguibilità.   Il   personaggio  va  dunque limitato   nel   tempo, dall’ottocento in poi per una sorta di coerenza  comportamentale, specialmente  per  il  cinema statunitense,  altrimenti  anche  i prelati (cardinali come Mazzarino e Richelieu sono “politici”) prende   in  considerazione  solo  incarichi  elettivi   che   ne caratterizzino  l’esistenza  (negli  Usa però  anche  sceriffo  e giudice  sono  eletti) e non marginali,  di  personaggi  illustri si analizzano anche  le  vite  precedenti  all’insediamento  nella  carica  più prestigiosa  (Kennedy,  Lincoln, Grant,  Eisenhawer)  ed  infine, specialmente per il cinema italiano, si focalizza l’attenzione sul periodo  di maggior  produzione di film aventi il “politico” come protagonista, ed infine si esaminano più  approfonditamente gli ultimi anni poiché in tale periodo divengono maggiormente visibili  le modifiche sociali apportate alla raffigurazione  di questo personaggio.

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Napoleone (Napoleon, Francia, 1925-27) di Abel Gance

Ovviamente come nella definizione dei generi spesso si deborda volentieri così accade anche nella definizione del personaggio politico. Come non considerare un “politico” Napoleone? Anche se, ovviamente nella filmografia risulta preponderante la parte militare di questo personaggio storico. Ricordiamo solo  Napoleone  (Napoleon, Francia, 1925-27) di Abel  Gance,  con  Albert Dieudonne (Napoleone Bonaparte), Van Daele (Robespierre), Antonin Artaud (Marat), Abel Gance (Saint-Just) per la complessa narrazione che vede però tanti altri “politici” dell’epoca come protagonisti. Ma si potrebbe continuare a lungo, basti pensare a Danton (Danton, 1982, di Andrzej Wajda), ma questo ci porterebbe lontani dal discorso di caratterizzazione del personaggio. Rimanendo invece sempre nei dintorni degli Stati Uniti non si può evitare di ricordare almeno La nascita di una Nazione (The Birth of a Nation, Usa, 1915, di D.W. Griffith) in cui è presente  Ralph  Lewis  (il deputato a  cui  e  legata  la famiglia Cameron, protagonista del film) e il profondo significato “politico” dell’intera vicenda. Non a caso si chiamerà sempre Cameron il politico corrotto protagonista di Il  club del diavolo (A Man Betrayed, Usa, 1941)  di  John  H. Auer, con John Wayne nei panni di un avvocato che vi si oppone. Delinquenza comune e politica si legano in maniera indissolubile.

Il soggetto del discorso e le avventure del “politico” americano

Il concetto di potere politico che attraversa i film menzionati si avvale spesso di figure marginali, mentre il centro dell’azione si ritrova in altri settori sociali, in ruoli diversi. Ma non è sempre così. Ciò che interessa, dopo questo primo approccio, è il tentativo di definizione di un oggetto sfuggente, come d’altra parte vuole anche il suo contenuto, di quel gruppo di pellicole in cui il “politico” risulta essere il motore stesso del film, il soggetto dell’opera e in cui ci si sofferma più approfonditamente sulle implicazioni di questa figura nel contesto sociale. L’affare della sezione speciale (Section Speciale, Fr, 1975) di Costi Costa-Gavras e soprattutto Z – L’orgia del potere (Z, Fr, 1969) sempre di Costi Costa-Gavras  con Yves  Montand (il deputato ellenico Gregorios Lambrakis) e  Jean Louis Trintignant vedono la storia ruotare attorno al “politico” che diviene elemento di riflessione e di narrazione al contempo. La storia personale serve da pretesto per l’analisi storica di un determinato periodo. Il film per eccellenza potrebbe essere Quarto  potere (Citizen Kane, Usa, 1941) di Orson  Welles con Orson Welles (Kane) candidato alla presidenza. Ma la storia ripercorre l’ascesa e la vita di un uomo che del potere e della politica hanno fatto motivo dell’esistenza stessa.

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La critica al soggetto politico viene affrontata in maniera interessante da Frank Capra che e assieme a Ford rappresenta un modello fondamentale per il “genere”. In  Mr. Smith va a Washington (Mr. Smith goes to  Washington,  Usa, 1939)  di  Frank  Capra. James  Stewart  eletto  casualmente senatore  entra  in conflitto con la potente lobby del corrotto senatore Claude   Rains.  Dopo  un  discorso  di   tre   giorni ininterrotti ottiene la vittoria. Quindi in Arriva John Doe / I dominatori della metropoli (Meet John Doe /John Doe Dynamite, Usa, 1941) di Frank Capra con Gary Cooper, amara riflessione sull’oppressione e corruzione della classe dei politici. Leint-motive  che attraversa l’universi cinematografico. In Tempesta su Washington (Advise and Consert, Usa, 1962) di  Otto Preminger con Don Murray e Henry Fonda candidato alla carica di segretario di Stato. Tratto dal romanzo di Drury è ricco di allusioni verso i politici contemporanei al film. Due anni più tardi ritroviamo Fonda nei panni di un ex segretario di Stato in corsa per la presidenza. L’amaro sapore del potere (The Best Man, 1964, di Franklin J. Schaffner è una caustica satira su una convention e su tutto ciò che ruota attorno alla politica.

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Il dottor Stranamore (Dr. Strangelove, Usa, 1963) di Stanley Kubrick

Positivi o meno i “politici” divengono improvvisamente decisionisti e pronti ad annientare il genere umano o perlomeno una parte del pianeta. Azione esecutiva (Executive Action, Usa, 1973) di David  Miller con Burt Lancaster, una sorta di thriller sull’assassinio del presidente Kennedy dovuto ad un complotto che coinvolge industriali e politici. Sette giorni a maggio (Seven Days in May, Usa, 1964)  di  John Frankheimer, con Burt Lancaster capo di stato maggiore dell’esercito), Kirk Douglas e Fredric March  (il presidente). Lancaster tenta un colpo di stato, ma il presidente e altri militari lo sventano. Ultimi  bagliori di un crepuscolo (Twilight’s  Last  Gleaming, Usa,  1976)  di  Robert Aldrich con  Burt  Lancaster  (colonnello Lawrence  Dell),  Charles Durning (presidente  degli  Usa)  Joseph Cotten  (segretario  di  stato), Melvyn  Douglas  (ministro  della difesa). Lancaster vuole costringere, con la minaccia di scatenare un conflitto atomico,  i politici a rivelare una serie di segreti di stato sulle guerre intraprese dagli Usa. In A prova di errore (Fail Safe, Usa, 1964) di Sidney  Lumet  con Henry Fonda  promosso  presidente che deve affrontare la minaccia di un conflitto atomico. Con la conseguenza di “vaporizzare” un paio di città in base alla ragion di stato. Il tutto è reso in maniera ironica in Il dottor Stranamore ovvero come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba (Dr. Strangelove: or, How I Learned to  Stop Worryng  and  Stop the Bomb, Usa, 1963) di  Stanley  Kubrick  con Peter Sellers e George C. Scott. Anche qui i politici devono decidersi fra un errore (umano…) e l’annientamento. Ovviamente sceglieranno la peggiore delle soluzioni.

A prova di errore

A prova di errore (Fail Safe, Usa, 1964) di Sidney Lumet

Anche quando sono solo dei comprimari, e di secondo piano, i politici sono rappresentati negativamente. In L’inferno di cristallo (The Towering Inferno, Usa,  1975)  di John Guillermin e Irwin Allencon con Steve McQueen e Paul Newman il politico di turno è uno speculatore e assai poco edificante, l’incendio, tutto sommato e anche colpa sua. In Nashville  (Nashville, Usa, 1975) di Robert Altman  con  Keith Karadine  serve solo per il comizio  show  finale per  le  elezioni  primarie  con attentato politico di contorno, mentre in Il vento e il leone (The Wind and the Lion, Usa, 1975) di John Milius con Sean Connery e Brian Keith  nelle vesti di un simpatico ma stravagante presidente Theodore Roosvelt dai risvolti inquietanti. In Senza via di scampo (No Way Out, Usa, 1987, di Roger Donaldson) Gene Hackman interpreta un segretario alla difesa omicida che intorbida le prove, cerca di creare un altro colpevole, oltre ai soliti comportamenti “da politico corrotto”. Stesso tipo di personaggio in Bullitt (Bullitt, Usa, 1968) di Peter Yates. L’investigatore Steve McQueen indaga su un omicidio e arriva al politico corrotto.

Una grande attenzione all’ambiente di vita dei politici la ritroviamo in La seduzione del potere (The seduction of  Joe  Tynana,  Usa, 1979) di Jerry Schatzberg. Alan Alda (senatore Joe  Tynan) è il protagonista, un politico, circondato da ogni sorta di suoi pari, da Rip Torn (senatore Kittner) a Melvyn Douglas (senatore Birney). Il contenuto del film si pone come “un lamento sui guasti che può recare al tessuto morale il distacco fra il pubblico e il privato, in particolare sui danni prodotti dall’ambizione della carriera politica”[7]. La carriera arriva al massimo vertice con la corsa(che si presume vittoriosa) verso la presidenza. Il film è una buona sintesi e “rappresenta con discreta efficacia l’ambiente dei politici, certe loro volgarità e certo loro infantilismo, il sistema di favori e di ricatti in cui si muovono e le contraddizioni fra l’immagine e la realtà”[8]. E rappresenta anche una posizione intermedia fra la critica al sistema politico, che ritroviamo nei film precedenti,  e la edulcorata “political correct” degli anni ’90.

Il dottor Stranamore

Il dottor Stranamore (Dr. Strangelove, Usa, 1963) di Stanley Kubrick

Il protagonista di Nata  ieri  (Born  Yesterdey,  Usa,  1950,  di  George  Cukor) Broderick  Crawford, non è un  “politicante” in senso stretto, tuttavia agisce come e con i  politici per corrompere ed ottenere profitti e per questo si reca a Washington, come dire la patria dei.

Citiamo solo qualche esempio tratto da un altro sottogenere, quello delle biografie romanzate dei presidenti o noti politici, che annoverano film su Kennedy, Nixon, Malcom X, ecc.. Ricordiamo  Primary  (Usa, 1960) di Richard Leacock. Il film  descrive  la campagna  elettorale  della “primarie” del  giovane  Ted  Kennedy contro  il  senatore  Hubert Humphrey  per  la  candidatura  alla presidenza degli Usa. O più recentemente Gli intrighi del potere – Nixon (Nixon, Usa, 1995) di Oliver Stone reduce dalla regia del precedente JFK – Un caso ancora aperto (JFK, Usa, 1991). Fra il dramma shakesperiano e l’agiografica.

Il sunto della visione americana del politico lo può fare un italiano, Sergio Leone, con C’era  una volta in America (1984). James Woods  (senatore Bailey) da giovane, durante il  proibizionismo, era  un  gangster,  alla fine degli  anni  sessanta  un  politico coinvolto in uno scandalo. E quest’ultimo è il volto che ricordiamo.

Critica sociale e satira all’italiana

Potrebbero chiamarsi “storie di ordinaria corruzione”. Tant’è che il politico italiano nei film prodotti dalla fine degli anni ’40 ad oggi si identifica con figure più o meno spregevoli e disoneste, con uniche eccezioni alcune bonarie ed ironiche rivisitazioni di personaggi marginali e lontani dalle vere centrali del potere.

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Mi manda Picone (1993) di Nanni Loy

Abraham Lincoln pronuncia nella prima scena del celebre film di John Ford  Alba di gloria una battuta iniziale di notevole importanza “Sapete tutti chi sono io” rivolta al pubblico nel film e a noi spettatori con un duplice significato: quello di fiducia nel ruolo ricoperto nella finzione cinematografica e quello di valore storico. Un personaggio di alto rilievo morale e sociale il cui riconoscimento delle qualità appare immediato e dovuto. La versione italiana del politico invece si presenta spesso con la frase “Lei non sa chi sono io!” sinonimo di arroganza e prevaricazione. Esempio di come la categoria del politico sia connotata negativamente nel cinema e nella società italiana. Anche Mi manda Picone (1983) di Nanni Loy con Lisa Sastri  (Luciella, la  moglie di Picone) e Giancarlo Giannini (Salvatore) presenta, anzi è costruito, su un’altra frase tipica.  Più  che “politico”  il Picone del titolo è stato un camorrista. Tuttavia la  frase stessa “mi manda…” pronunciata durante tutto il  film da Giannini, con esiti vari, ma generalmente positivi,  riconduce ad un uso proprio della “raccomandazione” politica italiana. Sulla degenerazione della vita politica incisivo risulta essere Il portaborse (1991) di Daniele Luchetti con Nanni Moretti (il ministro Cesare Bottero) e Silvio Orlando (il professore “portaborse” Luciano Sandulli). Attraverso la descrizione della vita di un politico (qui elemento centrale della narrazione) assistiamo alla disamina degli aspetti negativi (ed intrinseci) di un ruolo sociale codificato nel paese. Così come il termine assassino indica una persona che uccide il termine politico indica un individuo malvagio e corrotto. Senza alternative. Ben lontana si collocava la satira dolce-amara della serie di Don Camillo e Peppone iniziata nel 1952 con Don Camillo (Le petit monde de Don Camillo, di Julien Duvivier) con Fernandel e Gino Cervi. Qui la contrapposizione fra due teorie filosofiche (cattolicesimo e comunismo) si stemperava nella quotidianità dei problemi di una provincia in espansione.

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Don Camillo (Le petit monde de Don Camillo) di Julien Duvivier

La descrizione dei politici “marginali” rappresentava individui animati da buone intenzioni e tutt’al più vittima di circostanze sfavorevoli. Come in  Il Federale (1961) di Luciano Salce con Ugo Tognazzi e Georges Wilson commedia agrodolce in cui al fascista idealista e all’antifascista emarginato si succederà (siamo alla fine della guerra) un’inversione di ruoli. La discriminante è determinata dal potere. Il potere corrompe. Se vogliamo un gustoso cammeo pensiamo a Il  sorpasso  (1962) di Dino  Risi.  Vittorio  Gassman  (Bruno Cortona)   piccolo  faccendiere  incolla  sul  lato  destro   del parabrezza  della  sua  Lancia Aurelia Sport  un  foglio  con  la scritta “Camera Deputati” per avere libero accesso in qualsiasi luogo. L’emblema del potere. E sui deputati la cinematografia italiana si sofferma a lungo, pensiamo a  La giornata dell’onorevole (1963) episodio di I mostri di  Dino Risi  con Ugo Tognazzi. Emblematico il “ruolo” del  politico.  Un deputato  democristiano  viene  avvisato  della  presenza  di  un generale ha scoperto una truffa  organizzata da un funzionario ai danni dello Stato. Fa attendere tutto il giorno il generale prima di riceverlo per dar modo di “legalizzare” l’illecito. Rimprovera quindi il generale e lo fa pensionare.

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Il Federale (1961) di Luciano Salce

Passiamo poi, ci troviamo sempre nell’ambito della commedia anche se più greve, alle considerazioni di vendetta verso una figura, quella del politico per l’appunto, divenuta ormai l’emblema stesso del “male”. Nel film di Dino  Risi In  nome  del  popolo italiano (1971) con  Ugo Tognazzi e Vittorio Gassman si propone una scelta “giustizialista” per fermare il fenomeno del malcostume, in Vogliamo  i  colonnelli  (1973) di  Mario  Monicelli  con  Ugo Tognazzi si indica come avvenuto un golpe bianco che ha ridotto lo Stato a una dittature mascherata ed infine in Todo  Modo  (1976)  di Elio Petri con  Gian  Maria  Volonte  e Marcello Mastroianni si invoca lo sterminio di una classe, quella dei politici, rei del degrado e della distruzione del sistema sociale nazionale.

Continua tuttavia anche la commedia più classica, come in Signori e signori, buonanotte (1976) di Luigi Comencini,  Nanny Loy, Luigi Magni, Mario Monicelli, Ettore Scola o in Incensurato  provata  disonesta  carriera  assicurata  cercasi (1973) di Marcello Baldi con Gastone Moschin e Nanni Loy od ancora in Scherzo del destino in agguato dietro l’angolo come un  brigante da strada (1983, di Lina Wertmuller) con Ugo Tognazzi (on.  De Andreiis),  Gastone  Moschin  (Ministro  degli  Interni).  satira feroce contro gli uomini del Palazzo. Il ministro rimane bloccato nella  sua  auto  blindata, si reca alla  villa  di  un  deputato democristiano, non riescono ad aprirla, la moglie  del  deputato fugge con un terrorista. Per arrivare al cammeo di Giulio Andreotti (forse il politico più noto all’epoca) in  Il tassinaro (1983) di Alberto Sordi che recita se stesso.

Accanto a questi esiste tuttavia la figura del politico visto in chiave “storica”. Ad esempio gli ultimi mesi della II Guerra Mondiale in Mussolini ultimo atto (1974) di Carlo Lizzani con Rod Steiger nel ruolo del dittatore o all’opposto il soggiorno obbligato e la fuga di un giovane politico antifascista in La  villeggiatura  (1973)  di Marco Leto  con  Adolfo  Celi  e Adalberto Maria Merli o sempre l’esilio in Fontamara (1980) di Carlo Lizzani con Michele Placido e Ida  di Benedetto tratto dall’omonimo romanzo di Ignazio Silone. O ancora in Corleone  (1978) di Pasquale Squitieri. Protagonisti Stefano  Satta  Flores (deputato  Natale Calia) e Giuliano Gemma (Vito Gargano,  capo del clan mafioso). Il deputato viene eletto grazie alle complicità mafiose. Nella salita al potere (diverrà alla fine sottosegretario) uccide il capo clan suo complice per eliminare prove scottanti. Sulla stessa linea si colloca anche Le mani sulla città (1963) di Francesco Rosi con Salvo Randone e Rod Steiger.  Il crollo di un palazzo mette in luce gli  intrallazzi dell’assessore Nottola un imprenditore edile che utilizza per  il proprio profitto il piano regolatore della città.

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Attacco al potere (Olympus Has Fallen, 2013) diretto da Antoine Fuqua

L’evoluzione del modello

Se osserviamo la produzione degli ultimi anni assistiamo ad un mutamento nella descrizione del politico. Viene “umanizzato”, reso quotidiano nell’aspetto, nei sentimenti, nei modi di reagire. Non è diverso da qualsiasi altro professionista, in qualsivoglia campo lo si cerchi. Con una differenza. Riesce meglio in tutto perché è colui che gestisce il potere. Pensiamo a Il presidente – una storia d’amore (The American President, Usa, 1995, di Rob Reiner) dove Michael Douglas interpreta un presidente che si innamora. Fra qualche richiamo a Frank Capra e ai suoi film precedenti (Harry ti presento Sally) si recupera un tono da commedia in cui i meccanismi della gestione del potere appaiono allo stesso livello della gestione degli affari sentimentali. Sostanzialmente un uomo come tutti, senza neanche difetti, tutto sommato. Concetto sostenuto anche da Dave – Presidente per un giorno (Dave, Usa, 1993, di Ivan Reitman) in cui Kevin Kline sostituisce (ne è il sosia perfetto) ad un pranzo ufficiale il presidente. Poi per una serie di circostanze deve continuare a svolgere il nuovo ruolo. Facile leggere la trasposizione del concetto di comportamento quotidiano alla portata di qualsiasi cittadino con la conseguente convinzione di “comunanza” di intenti e condotta. Se poi lo vogliamo anche eroico ecco il politico per eccellenza (sempre il presidente) Bill Pullman che in Indipendence Day (id., Usa, 1996) salva l’umanità e la porta alla riscossa, nonché alla vittoria, contro gli alieni invasori. Sempre presentato come un qualsiasi cittadino che gestisce in rappresentanza della popolazione il potere. Potrebbe essere il vicino di casa.

Anche nella prosecuzione dei “sottogeneri” classici assistiamo a un cambiamento. In Riccardo III (Richard III, Gran Bretagna, 1996, di Richard Locraine), nona trasposizione cinematografica dell’opera shakespeariana, trasferisce l’azione in un’Europa degli anni ’30 in cui si contrappongono le democrazie occidentali contro il Nazismo. Con una definizione a tutto tondo del bene e del male, ed anche questo percepito in una forma simbolica. E se di politici “corrotti” si vuol parlare ecco City Hall (id., Usa, 1996, di Harold Becher) dove il sindaco di New York  deve districarsi in un universo in cui “le gradazioni dell’umanità vanno da Charles Manson a Maria Teresa di Calcutta e il resto di noi sta nel mezzo”[9]. Il sindaco incarica il suo assistente di far luce sugli affari poco puliti nella politica cittadina. Esattamente l’opposto di vent’anni prima. Non a caso il film è tratto da un romanzo di Ken Lipper, ex vicesindaco di New York. Il soggetto del discorso parla di sé.

Odiò qualche politico “cattivo”, o perlomeno ambiguo, lo troviamo ancora, anche se ormai il “genere” scivola sempre più nella fantapolitica piuttosto che nell’analisi di fatti “reali”, come in Il rapporto Pelican (The Pelican Brief, Usa, 1993, di Alan J. Pakula). Il complotto esiste e, contro ogni logica, la studentessa in legge Julia Roberts avrà facile ragione di una cospirazione che vede coinvolta la stessa Casa Bianca. Qualche complottino il politici lo architettano ancora in Attacco al potere (The Siege, Usa,  1998, di Edward Zwick), ma agiscono in maniera così “political correct” da risultare prevedibili, noiosi, e sostanzialmente poco credibili. Ci pensa sempre una donna, qui Annette Bening accompagnata, come nel precedente, da Denzel Washington (in rappresentanza delle minoranze) a personificare il comune umano che tutto risolve. Il cittadino vince in ogni campo. Specialmente in quello fantastico. Decisamente fantasiosi anche se molto divertenti i vari episodi di Attacco al potere – Olympus Has Fallen (Olympus Has Fallen), film del 2013 diretto da Antoine Fuqua con protagonista Gerard Butler. Qui il presidente degli USA è sempre in pericolo attaccato da ogni tipo di terrorista mondiale. Per fortuna c’è Butler che da solo vale un esercito, e qualcosa di più.

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Attacco al potere (Olympus Has Fallen, 2013) diretto da Antoine Fuqua

 Modelli, trasferimenti e psicologie

La visione comunicataci dal media cinematografico della figura del politico, cioè del detentore di potere,  varia nella  tipologia offerta anche raffrontando solo brevi distanze temporali. Tuttavia i mutamenti non appaiono casuali o sporadici, ma avvengono all’interno di categorie codificabili come sottogeneri, pur  non rientrando ne in quelli prettamente cinematografici ne in quelli di derivazione psicosociale. La sovrapposizione stessa fra il concetto di “politica”, come sommatoria di caratteristiche ideologiche e comportamentali di un gruppo, e la figura del “politico”, per indicare un unico individuo che pratica tale attività,  all’interno del messaggio trasmesso dal cinema fa sì che non vi sia una categoria omogenea quanto ad oggetti contenuti, ma un insieme volutamente vago e indistinto. Estremizzando si potrebbe negare l’esistenza di una categoria di tal genere, ma la presenza solo di elementi di rinforzo ad altre classi di fattori. Ad esempio in Soldati a cavallo, un film a metà strada fra il western e il bellico, la figura negativa del politico presente serve solo a sottolineare la positività degli altri protagonisti principali ed è inessenziale nell’economia del racconto, che ne trae vantaggio dalla presenza, ma potrebbe facilmente sostituirla con un’altra. Non è sempre così. La furia vendicatrice del regista Petri in Todo Modo non avrebbe ragione d’essere senza il soggetto principale del film: i politici per l’appunto. Così affrontiamo la prima distinzione: elemento marginale che può divenire puro colore al racconto o punto centrale ed irrinunciabile della narrazione. Se osservassimo con attenzione tutto il cinema mondiale, per un periodo di tempo piuttosto lungo, probabilmente avremo una panoramica completa dei mutamenti politici avvenuti nei singoli stati, nello stile dei registi e nel gusto del pubblico. Tuttavia per sintesi abbiamo esaminato, e in maniera relativamente approfondita, non trascurando i passaggi cruciali delle singole cinematografie, quelle più rappresentative per il nostro paese e, in termini lati, per la società occidentale[10]. Dunque effettuando questa osservazione comparata notiamo le strutture diverse delle due società e le loro modifiche. Nel cinema statunitense una forma di critica sociale verso la figura e l’universo politico si stempera nel corso degli anni fino ad arrivare ad una sorta di acquiescente accettazione e proposizione in termini di valori positivi. Si è modificato l’universo politico o la percezione del pubblico? Propendendo per la seconda ipotesi la variazione si ritrova nella tipologia di pubblico, nel suo potere d’acquisto, nella sua collocazione sociale che hanno modificato il contenuto del messaggio richiesto. Assistiamo perciò da un lato all’adeguamento domanda – offerta da parte del mercato, dall’altro alla trasmissione di nuove informazioni da parte di un’agenzia centrale verso i riceventi periferici. Lo stato utilizza il media per ottenere consenso attraverso la presentazioni di modelli positivi del suo funzionamento, affinché essi divengano parte della conoscenza comune e vengano considerati come “naturali” dall’utente. Analogamente nel cinema italiano assistiamo alla progressiva scomparsa di film che approfondiscono il rapporto fra politico e sociale, e la stessa figura del politico tende a dissolversi. Anche qui ci troviamo di fronte a una mutata esigenza della struttura centrale di fronte ad una rinnovata situazione sociale. Se pensiamo ad alcuni modelli trasmessi attraverso i media visivi, come il colore dei capelli, certi atteggiamenti nei rapporti interpersonali, determinati canoni di valutazione del mondo che ci circonda, l’uniformazione degli elementi di riconoscimento sociale, ci possiamo rendere conto di quanto siano determinanti i messaggi e i valori di “consenso” (o meno) che li contengono rispetto alla formazione  di un tessuto sociale congruente all’agenzia centrale. Il rinforzo verso un atteggiamento porterà alla sua diffusione e approvazione sociale, con conseguente stabilità del sistema che lo ha generato.

Il vento e il leone

Il vento e il leone (The Wind and the Lion, Usa, 1975) di John Milius

Il secondo punto da affrontare è quello della percezione del messaggio ovvero per quale motivo il contenuto, cioè l’informazione, viene accettata e diviene parte del nostro bagaglio di conoscenze. L’informazione, per quanto unidirezionale, non è univoca. Anzi, in questo caso non solo deve scontrarsi con quella proveniente da altri media, la stampa, la televisione, ecc., ma sottostare al palese vincolo della componente manifesta legata alla finzione cinematografica. Tuttavia il modello suggerito dal cinema diviene più forte di quello “reale” proposto dai media delegati all’informazione. Come nel caso della realtà virtuale[11] risulta maggiormente attendibile il messaggio della fiction rispetto a quello della stampa. Il “politico” che appare sui quotidiani continua ad essere corrotto e negativo mentre quello nel cinema diviene propositivo. Ed è il secondo a imporre il modello di riferimento, tanto forte da far divenire quasi marginale il soggetto reale. O forse… la dicotomia esistente nella costruzione dei modelli di riferimento qui diviene più visibile. Pensiamo ai divi cinematografici classici[12], all’accettazione dei loro personaggi come tangibili, a discapito delle persone fisiche, la cui vita viene accettata solo se “simile” a quella dei soggetti fittizi della fiction. Ad esempio Arnold Schwarzenegger rappresenta la figura del combattente implacabile, sempre in azione, contro qualsiasi minaccia. Nella vita privata predomina la visione di un uomo sempre a bordo del suo fuoristrada corazzato, in palestra o in moto con il regista Cameron, altro “duro” dell’immaginario collettivo.  Probabilmente qualche volta avrà portato i figli a scuola, o preparato qualcosa da mangiare, o semplicemente si sarà seduto in poltrona a leggere un giornale. Ma questo tipo di “personaggio” non esiste nella raffigurazione che abbiamo di Schwarzenegger. Lo stesso può valere per Meg Ryan. Rappresenta la visione romantica della vita e quindi del rapporto di coppia. Nella sua vita privata magari sarà invece più dura di Schwarzenegger, ma questo, anche se provato, non interessa il fruitore della figura che ella rappresenta. Nella percezione comune fra una figura fantastica, ma desiderabile, ed una reale, ma negativa, la preferenza ricade sulla prima. Ecco perché il “politico” degli ultimi film prevale sul “politico” della realtà. Come diceva Edgar Morin[13] la vita desiderata non vede tempi d’attesa nella successione degli eventi, come in un film per l’appunto, ogni avvenimento deve portare emozione, e gli avvenimenti devono susseguirsi in un’unica, continua dimensione. Senza interruzioni.

Mr. Smith va a Washington

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Cheyenne Autumn

Note

[1] Nel periodo a cavallo fra il 1994-95 sono usciti ben quattro volumi che analizzavano la figura dello psicologo-psichiatra all’interno del contesto narrativo cinematografico. Il primo, di Alceo Melchiori, Lo psicologo nei film, Domenghini Editore, Padova, poi di Ignazio Senatore L’analista in celluloide. La figura dello psicoterapeuta al cinema dal 1986 al 1993, Franco Angeli, Milano, di Secchi Immagini della follia, Guaraldi, ed infine gli atti del Primo convegno cinema e psiche, Edizioni Kendall.
[2] Per i divi si va da Francesco Alberoni, L’élite senza potere, Vita e pensiero, Milano 1963, a Enzo Kermol e Mariselda Tessarolo, Divismo vecchio e nuovo. La trasformazione dei modelli di divismo, Cleup, Padova, 1998.
[3] Se osserviamo la saggistica relativa a questo soggetto essa risulta prevalentemente essere descrittiva dei film relativi, come Gangsters, di John Gabree, Pyramid Comunications, 1973, o Violent America: The Movies, 1946/1964, New York, 1971 di Lawrence Alloway.
[4] Vedi Il western. Fonti, forme, miti, registi, attori, filmografia, a cura di Raymond Bellour, Feltrinelli, Milano, 1973, p.215.
[5] J. A. Place, I film di John Ford, Gremese, Roma, 1983, pag. 156.
[6] G. Oli, G. Devoto, Dizionario della lingua italiana, Le Monier, 1984, p. 1736.
[7] G. Grazzini, Cinema ’84, Laterza, Roma, 1985, pag.19.
[8] G. Grazzini, Cinema ’84, Laterza, Roma, 1985, pag.20.
[9] M. Lastrucci, City Hall, Ciak n. 4, aprile 1996, pag. 62.
[10] I titoli citati sono solo alcuni di quelli ritrovati. Per evitare elenchi inutili, in quanto ripetitivi di situazioni, registi, avvenimenti narrati, ecc. ci si è limitati a quelli giudicati come più rappresentativi. La scelta della cinematografia statunitense, quella che copre la maggior produzione e distribuzione planetaria, è, e rimarrà, obbligatoria per qualsiasi analisi dell’argomento. La cinematografia italiana dell’argomento “politici” nel contesto nazionale può, specialmente fino ai primi anni ottanta, essere considerata di buona distribuzione. Alcuni altri titoli (francesi, inglesi, ecc.) sono stati citati, pur non esaminando completamente tali cinematografie, in quanto essenziali ai fini del discorso.
[11] E. Kermol, Elementi di metacomunicazione: dal cinema alla realtà virtuale, in E. Kermol, Le strategie della comunicazione, Cleup, Padova, 1999, pag. 149.
[12] E. Kermol, M. Tessarolo, Divismo vecchio e nuovo, Cleup, Padova, 1998.
[13] E. Morin, I divi, Mondadori, Milano, 1963.

 

Divismo vecchio e nuovo

Modelli del divismo
di Enzo Kermol

John Wayne

John Wayne in “Ombre rosse”

Il divismo sorto all’inizio del secolo, e giunto sino a noi attraverso continue trasformazioni, si basa nella sua costituzione, rispetto alle forme storicamente precedenti, soprattutto sull’elemento visivo. Anche precedentemente l’immagine costituiva un elemento fondamentale, ma rispetto all’avvento del cinema con la sua essenza visiva, i mezzi a disposizione in tal senso erano ridotti ed erano minori le occasioni di riprodurre l’effige del divo.

Conan

Arnold Schwarzenegger in “Conan il barbaro”  

Inoltre la distribuzione sommaria di disegni, e più tardi delle fotografie, non può minimamente paragonarsi alla divulgazione capillare dell’immagine cinematografica prima e televisiva poi. In ogni caso e stata proprio l’utilizzazione intensiva del vedere che ha permesso la nascita dell’archetipo del divismo. In seguito, sempre attraverso l’uso dell’immagine, la funzione sociale del divismo si e dilatata progressivamente aumentando la propria influenza, sviluppando i suoi modelli di riferimento, inserendosi nei vari settori della comunità.

L’uso di ciò che si vede per la creazione di forme d’arte non e certo una metodologia recente, infatti “l’attività creatrice di immagini sia che si tratti di arti plastiche, di musica o di tragedia, e, secondo Platone, compresa nel campo della mimetica o attività imitatrice” (1).
L’elemento visivo era dunque ben utilizzato nel mondo classico: “Le phantasiai dei Greci, che i romani designavano con il termine visiones costituivano le visioni immaginative tramite le quali le immagini delle cose assenti sono presentate all’anima in modo tale che sembra di percepirle con gli occhi e di averle presenti. Tali phantasiai si sono sviluppate da quando l’uomo e riuscito a simbolizzare e si deve ad esse la capacita umana di costruire la favola e il mito” (2). Favola e mito generano vari tipi di eroi, che si possono conoscere attraverso la letteratura classica, dalle tragedie greche fino a quella del Rinascimento. Possiamo quindi continuare in questo apprendimento, esaminando la letteratura moderna, arrivando ai modelli contemporanei, in cui le figure di eroe e divo tendono sostanzialmente a fondersi.

Il segno di Zorro

“Il segno di Zorro”

La narrazione orale prima e la carta stampata poi hanno avuto fin dalle origini il compito di trasmettere gli elementi che contribuiscono al mantenimento dello status divistico. Quest’opera fondamentale e continuata anche durante il periodo aureo del divismo cinematografico, cedendo infine il ruolo di mezzo principale della persuasione (occulta e palese) alla televisione, sul finire degli anni sessanta. Precedentemente, ad esempio i divi del teatro ottocentesco, trovavano nel medium per eccellenza della loro epoca, la stampa quotidiana e periodica – ed anche attraverso l’immagine prima disegnata e poi fotografata, su locandine, giornali e ritratti – l’elemento fondamentale per la costruzione, e quindi per la conservazione, del proprio ruolo divistico.
La recitazione, cioè la propria capacita artistica, non poteva essere utilizzare in maniera adeguata per alimentare il divismo a causa del numero relativamente basso di rappresentazioni teatrali che l’attore poteva interpretare, sia in una singola sede che in assoluto durante la propria carriera. Di conseguenza anche il pubblico aveva una possibilità ancora minore di vedere il proprio divo, sia a teatro che in altre occasioni di apparizioni mondane, rispetto alla quantità di volte in cui il fan “ideale” potrà vedere in seguito il divo preferito.

John Wayne (2)

John Wayne in “Ombre rosse”

Il fenomeno del divismo muta radicalmente con l’avvento, e la successiva ampia diffusione, del media cinematografico. Il divismo assume una nuova dimensione molto più composita, nella quale la possibilità di vedere il proprio divo diviene ripetibile per il devoto ammiratore, e quindi praticamente infinita. Nello stesso tempo la stampa specializzata si trasforma e si rafforza, contribuendo di conseguenza ad irrobustire il nascente mito del nuovo divismo.
Metz conferma questa teoria dichiarando che “il significante cinematografico e percettivo (visivo e uditivo). Lo e anche quello della letteratura, poiché occorre leggere una catena di parole scritte, ma quel significante interessa un registro percettivo più ristretto: solo dei grafemi, una scrittura. Lo e anche quello della pittura, della scultura, dell’architettura, della fotografia, ma ancora con dei limiti che sono diversi: assenze della percezione uditiva, assenza nel visivo stesso, di certe dimensioni importanti come il tempo e il movimento (c’e ovviamente il tempo dello sguardo, ma l’oggetto osservato non si iscrive in un segmento preciso del tempo, con le sue consecuzioni obbligate e esterne allo spettatore). Il cinema e più percettivo di molti altri mezzi di espressione” (3).
Grazie al momento di grande espansione del cinema, il divismo si trasforma da elemento di garanzia per la vita e lo status di un ristretto numero di beneficiari, a mezzo che supporterà un’ampia struttura economica e porterà a un grande coinvolgimento sociale strati sempre più ampi di popolazione. La cinematografia sarà lo strumento che permetterà il verificarsi di questa prima fase del “nuovo” divismo.

Maciste Alpino - Bartolomeo Pagano

Bartolomeo Pagano in “Maciste Alpino”

“L’edificazione dell’industria comincio con la produzione di film a soggetto in numero tale da consentire frequenti cambiamenti dei programmi di proiezione e, quindi, un adeguato flusso di entrate che giustificassero la costruzione di locali stabili per gli spettacoli” (4).
Visto ormai in un’ottica industriale, il divismo viene interpretato come un meccanismo soggetto alle leggi dell’economia di mercato che permette ingenti investimenti finanziari ed enormi utili. In tal modo si modifica, improvvisamente, la sua funzione originaria, adeguandola alla mutata situazione richiesta dalla società.
Il cinema diviene, dal punto di vista produttivo e distributivo, una struttura dominata da un gruppo economico e culturale vicino all’elite politica che controlla lo Stato, in maniera più palese nei regimi totalitari, meno evidente nelle democrazie liberali. L’attore (sono più frequenti i casi maschili) proclamato “divo”, grazie ai notevoli capitali ottenuti da questo status, spesso diviene successivamente anche produttore finanziario di film, raggiungendo in tal modo il controllo dei mezzi di produzione e distribuzione. Altrettanto di frequente il divo (in questo caso sono maggiori le dive) entra a far parte dell’elite politico-economica in seguito al matrimonio con un suo esponente.

L'aereo più pazzo del mondo (2)

“L’aereo più pazzo del mondo”

Anche la televisione, in seguito alle modifiche intervenute nella diffusione dei media, con il declassamento del cinema, subentra nella struttura economica informativo-spettacolare con le stesse caratteristiche del suo predecessore. Nelle strutture del divismo televisivo, l’appartenenza dei divi all’elite di potere diviene ancora più evidente ed immediata. Inoltre la televisione viene gestita prevalentemente dal potere politico, sia direttamente con la suddivisione delle reti di proprietà dello Stato fra i partiti parlamentari, sia con il controllo indiretto delle maggiori reti private nazionali (o viceversa, reti nazionali controllano movimenti politici). Nel caso dell’Italia esiste anche, da parte del gruppo di potere politico-economico, il controllo di emittenti dei paesi confinanti che trasmettono in lingua italiana sul territorio nazionale come, ad esempio, Telemontecarlo e Telecapodistria.
Questa situazione desta interesse, poiché si colloca in una posizione vicina a quella analizzata dalla teoria marxista del divismo, dove lo Stato, agenzia della classe dominante, utilizza la televisione come fonte principale delle notizie divistiche: da informazioni sulla vita privata dei divi, li presenta in tutti i modi possibili, fa nascere rubriche di pettegolezzo su di loro, li crea e li distrugge nell’arco di pochi giorni o ne mantiene la notorietà per lunghi periodi di tempo.
La terza categoria mediale del divismo, la stampa quotidiana e periodica – sul cui reale pluralismo si può esprimere più di un dubbio, come ci illustra, rimanendo nel solo ambito cinematografico, tutta la filmografia da Quarto potere (Citizen Kane, USA, 1940, di Orson Welles) in poi – non detiene piu un ruolo fondamentale nella propagazione del modello divistico, ma continua sempre ad esserne un valido supporto, soprattutto nella propagazione di indiscrezioni ed episodi biografici “originali”.
L’area del cosiddetto privato, presente in tutte le società, e quella in cui agisce il pettegolezzo collettivo. A seconda del tipo di società, cioè se in essa viene esercitata una maggiore o minore forma di controllo per individuare eventuali comportamenti devianti, avremmo o meno un’area preclusa all’osservazione collettiva. Questa suddivisione, valida per tutta la popolazione, sembra non esserlo più quando si parla di soggetti divistici. Nel caso dei divi esiste apparentemente solo un’area pubblica, con uno spazio privato praticamente nullo.
“Apparentemente” poiché noi sappiamo solo ciò che ci viene riportato dai media e non abbiamo notizie di prima mano sulla situazione nella vita “reale” dei divi. “Il divismo si può costituire solo in una grande società in cui manca la possibilità di interazione diretta prolungata col divo, ma in cui le informazioni che lo riguardano sono mediate dai mezzi di comunicazione a distanza” (5), scrive Alberoni e, per supportare tale affermazione elabora una teoria in cui “il fatto che in un sistema stazionario ogni aspirazione alla modificazione del proprio status sia vissuta come socialmente pericolosa sottende un meccanismo di pensiero per cui l’acquisizione, da parte di qualcuno, di qualcosa in più ha il significato di un danno portato agli altri … questo meccanismo tende a scomparire in un sistema economico in cui i beni sono in quantità non finita, ma addirittura accrescibile illimitatamente attraverso un certo tipo di azione individuale e collettiva, razionalmente volta ad accrescerli”.
L’errore di chi ha analizzato in questo modo il fenomeno e quello di continuare a considerare i divi solo come un’emanazione del cinema o, per estensione, del settore dello spettacolo in generale, connotando come negativa, immorale, questa categoria e di conseguenza perniciosa per i ruoli pubblici di potere, che invece sarebbero “altamente morali”, e di non prendere in considerazione l’ipotesi secondo la quale coloro che formano l’elite di potere si comportano proprio come i divi cinematografici, anche perche ricoprono dei ruoli divistici simili a quelli, ma in un’altra categoria sociale. Infatti “gli eroi e i divi forniscono ai membri di una società dei modelli di comportamento ai quali conformarsi. L’imitazione appare già nei giochi infantili, ma non e mai fine a se stessa: nel gioco si attua una forma di imitazione in cui l’assimilazione domina sull’accomodamento” (6). Ed e ovvio che i modelli ricoprono tutto lo spettro visibile delle professioni (vuoi per motivi cinematografici, letterari, televisivi, di vicinanza, ecc.). Nella teoria piaggettiana l’imitazione (che risulta utile a spiegare il valore di modello raggiunto dal divismo) deriva da tre tipi diversi di giochi.

John Wayne (3)

Nell’infanzia appaiono dapprima i giochi di esercizio che sono poco stabili perche hanno funzione vicaria: “essi sorgono insieme ad ogni nuova acquisizione e scompaiono dopo saturazione” (7). Si passa quindi ai giochi simbolici, attraverso l’acquisizione di uno schema simbolico al posto di uno schema sensorio-motore che regola i precedenti. Allorché lo schema simbolico diviene simbolismo collettivo questo “può generare la regola, donde la possibile trasformazione di giochi di finzione in giochi di regole” (8). “La vita affettiva, come quella intellettuale, e un adattamento continuo e i due adattamenti sono al tempo stesso paralleli e interdipendenti poiché i sentimenti esprimono gli interessi e i valori delle azioni di cui l’intelligenza costituisce la struttura. Il pensiero simbolico, secondo Piaget, e la sola presa di coscienza possibile dell’assimilazione tipica degli schemi affettivi: e una presa di coscienza incompleta, e di conseguenza deformante, proprio a causa della carenza di accomodamento che e insita nella natura simbolica stessa dei rapporti di gioco. Per questo il pensiero simbolico, pur traducendo gli schemi in immagini, (e non in concetti o relazioni) si modella sull’organizzazione o assimilazione di questi schemi. Il pensiero simbolico resta dunque prelogico, come il pensiero intuitivo. La condensazione, caratteristica di questi due tipi di pensiero, consiste nel costruire” (9) “un significato comune ad un certo numero di oggetti distinti, il che permette appunto di esprimere la compenetrazione di più schemi affettivi che assimilano l’una alle altre situazioni diverse e spesso lontane nel tempo” (10). In questa fase del pensiero simbolico possono essere inseriti l’epica, le arti, e soprattutto i miti, le immagini e i modelli imitativi. Il pensiero simbolico si caratterizza come una parte dello sviluppo della mente umana, che può trasformarsi in elemento stabile, provocando quei fenomeni di squilibrio tra assimilazione e accomodamento da cui deriva l’imitazione dei modelli che proprio dal pensiero simbolico traggono origine.

Chaplin

Charlie Chaplin

Posti nell’infanzia i primi elementi di imitazione dei modelli divistici, resta da vedere come si “costruiscono” in seguito. Quali sono gli elementi che permettono di “creare” un divo (ad esempio del cinema o della televisione, ma un’analisi simile puo essere compiuta per qualsiasi genere sociale che produce divi) in grado di divenire un modello sociale soggetto ad imitazione? La figura divistica deve essere composta da una serie di elementi, le qualità, che possono differenziarsi a seconda del tipo di divo richiesto (dipende dal genere cinematografico in cui agirà: comico, avventuroso, commedia brillante, pornografico) e dalla fascia di pubblico a cui e principalmente indirizzato (intellettuale, d’essai, popolare, giovanile, per famiglia).
Appaiono cosi fondamentali le categorie costitutive (le qualità) dei modelli divistici. Ne elenchiamo un buon numero, sufficienti a descrivere ogni tipo di divo, raccolte in coppia con i loro opposti che, ha seconda del ruolo sociale ricoperto saranno di volta in volta considerate valide: bellezza-forza-debolezza, simpatia-antipatia, intelligenza-stupidita, violento-pacifico, altruista-egoista, sessualmente monogamo-sessualmente promiscuo, divertente-noioso, amante della famiglia-negatore della famiglia, stabile-vagabondo, comune-straordinario, vincitore-perdente, grande-piccolo, con abilita particolari-privo di abilita, atletico-sedentario, tormentato-sereno, complicato-semplice. Questo elenco e composto dalle qualità personali, e da quelle più genericamente umane, che compongono la figura del divo. Esaminiamo, a titolo d’esempio, alcuni modelli maschili riferiti a generi prettamente cinematografici: avventura, comico, commedia.

Leslie Nielsen (2)

Leslie Nielsen in “Una pallottola spuntata”

Nell’avventura la componente fisica ha una grande importanza (anche se vi sono controfigure, modellini o effetti speciali). Che si tratti di Maciste (Bartolomeo Pagano) in Maciste alpino (1916, I, di Giovanni Pastrone), di Zorro (Douglas Fairbanks) in The Mark of Zorro (Il segno di Zorro, USA, 1920, di Fred Niblo), di Ringo (John Wayne) in Stagecoach (Ombre rosse, USA, 1939, di John Ford), o di Conan (Arnold Schwarzenegger) in Conan the Barbarian (Conan il Barbaro, 1982, USA, di John Milius), tutti questi eroi del cinema dovranno avere una corporatura atletica, muscolare, risultare vincitori, simpatici, possedere tutte le caratteristiche positive enumerate nella scala di valori con cui si costruiscono i divi e attenersi, anche nella vita “privata”, ai principi ed ai valori portati sullo schermo, con pena, altrimenti, di una riduzione di notorietà e conseguenti benefici economici.

Buster Keaton

Buster Keaton in “The General”

Il comico, proprio per la sua derivazione circense, deve apparire buffo anche nel corpo: per contrapposizione, un attore grasso e uno magro (Stan Laurel e Oliver Hardy), laido e debordante (Paolo Villaggio), maschera impassibile (Buster Keaton), ritardato mentale (Charlie Chaplin). Negli ultimi anni il cinema statunitense ha ridotto questa derivazione clownesca presentando i caratteri fisici dei protagonisti come simili a qualsiasi altro genere, accentuando invece, per saturazione, le “situazioni comiche” come in L’aereo più pazzo del mondo (Airplane Flyng Hight, USA, 1980, di David e Jerry Zucker), in Una pallottola spuntata (The Naked Gun, USA, 1988, di David Zucker), e con una minor riuscita, in Hot Shots! (id., USA, 1991, di Jim Abrahams).

Stan Laurel - Oliver Hardy

Stan Laurel e Oliver Hardy

Nella commedia ritroviamo un’attenzione inferiore per le caratteristiche del corpo, ne atletico-avventuroso, ne grottesco-comico, mentre vi e una maggiore considerazione nella scelta dei lineamenti del volto, e un’egual oculatezza riferita alla sua espressività. Un caso limite e stato quello di Danny De Vito, che non e mai sembrato cosi “piccolo” e “rotondo” come in I soldi degli altri (Other People’s Money, USA, 1991, di Norman Jewison). In alcune inquadrature i movimenti di macchina ne rivelano una corporatura bassa e tozza. Nondimeno il volto curatissimo, e le inquadrature “alte” ne fanno un eccellente interprete. Sempre nella commedia arriviamo all’altro estremo, quello della trasandatezza degli attori italiani, i meno curati, sia nel corpo che nel volto, un po’ordinari in tutte le loro manifestazioni, che appaiono in film piuttosto grossolani.

Leslie Nielsen

Leslie Nielsen in “Una pallottola spuntata”

Queste brevi considerazioni sono ovviamente valide anche per le dive. Alcuni autori tuttavia approfondiscono i loro studi nei riguardi degli stereotipi femminili. Tessarolo e Giust prendono in considerazione quattro modelli di donna: “la donna idealizzata, la donna d’azione, la donna oggetto e la donna narcisus” (11). Si tratta dei modelli, sulla cui base vengono costruite le dive, si ritrovano sia nel cinema, nelle soap-opera e nella pubblicità. La donna idealizzata rappresenta il modello classico di riferimento per la donna che si occupa dell’andamento dalla casa, dei figli, della famiglia, con una lieve connotazione sessuale. La donna d’azione decisionista, con attività lavorativa extradomestica, con caratteristiche proprie dei modelli maschili, ma per eccesso e compensazione. Sessualità media. La donna oggetto, termine un po’ abusato, per indicare il modello femminile “estroverso”, diretto cioè ad essere supporto per i prodotti che la circondano. In pubblicità carica di fascino e sessualità tutto ciò che la circonda. Nei film le movenze plastiche-feline inducono alla completa assimilazione del modello. Sessualità fortissima. Infine il modello donna “narcisus” che si riferisce ad una donna “rivolta esclusivamente a se stessa e intenta alla cura morbosa e frenetica del proprio corpo”, modello di creme e cerette per la pubblicità, di media presenza nelle soap-opera, marginale al cinema. Sessualità media ma sublimata.

modelle

Modelle

In tutte queste suddivisioni l’elemento visivo ritorna prepotentemente alla luce, facendoci riflettere sull’importanza dei modelli divistici, e sulla loro pesante influenza nella vita quotidiana. Ad esempio la modella Claudia Schiffer, una diva nel settore della moda, la più nota top-model del momento, accumula in se tutte le caratteristiche della donna più bella e quindi più desiderabile. Zigomi, occhi, altezza, dimensioni del corpo. Ma cosa indicano questi parametri? Individuano gli elementi che socialmente rappresentano la sessualità, cioè il grado di fecondità, perciò il grado (la possibilità) di riproduzione della specie. Se certi elementi sembrano universali (ad esempio gli occhi grandi) altri come colore, foggia, lunghezza dei capelli, variano da società a società, e all’interno di ognuna variano tra le diverse classi economiche. Se osserviamo la foto di una particolare diva contemporanea probabilmente ne saremmo attratti. Ma fra qualche anno la stessa immagine, soppiantata da quella di un’altra diva risulterà possedere un minor valore nella scala della bellezza, e qualche anno più tardi magari non rientrerà neppure nella graduatoria dei valori sociali. Tale esperimento lo si può compiere anche a ritroso nel tempo osservando le foto di dive ritenute come modelli di bellezza negli anni venti, quaranta e sessanta. Si noterà, nella maggior parte dei casi un notevole discostamento dai modelli contemporanei. La conclusione e abbastanza ovvia: non esiste alcun modello naturale – nel divismo e nella vita quotidiana – ma solamente il risultato di adeguati condizionamenti compiuti attraverso i media (12).

Note

(1) Vernant J.P. (1982), Nascita di immagini, Milano, Il Saggiatore.
(2) Tessarolo M., Orviati G. (1986), La percezione dell’eroe nell’adolescenza, in “Orientamenti pedagogici”, XXXIII, n. 6.
(3) Metz C. (1977), Le significat imaginaire. Psychanalyse et cinema, Paria, Union Generale d’Editions. Tr. it. (1980), Cinema e psicanalisi. Il significante immaginario, Venezia, Marsilio Editori.
(4) Jarvie I.C. (1970), Towards a Sociology of the Cinema. A Comparative Essays on the Structure and Functioning of a Major Entertainment Industry, London, U.K., Routledge & Kegan Paul. Tr. it. (1977), Una sociologia del cinema, Milano, Franco Angeli.
(5) Alberoni F. (1963), L’elite senza potere, Milano, Vita e pensiero.
(6) Tessarolo M., Orviati G. (1986), op. cit.
(7) Piaget J. (1945), La formation du symbole chez l’enfant, Neuchatel, Delachaux & Niestle. Tr. it. (1972), La formazione del simbolo nel bambino, Firenze, La Nuova Italia.
(8) Piaget J. (1945), op. cit.
(9) Tessarolo M., Orviati G. (1986), op. cit.
(10) Piaget J. (1945), op. cit.
(11) Giust F., Tessarolo M. (1985), L’immagine della donna nella pubblicità, in “Sociologia della comunicazione”, IV, n. 7.
(12) Giunge conferma alle tesi esposte nel saggio di Imbasciati A., La prospettiva psicologica, in Braga G. (1973), Cinema e scienze dell’uomo, Roma, Bianco e Nero: “I mass-media si avvalgono in larghissima parte di una comunicazione visiva attuata per immagini: le immagini sembrano aver sostituito la scrittura, e il linguaggio delle immagini la lingua codificata, scritta o parlata; si parla cosi di linguaggio iconico e di civiltà dell’immagine. In effetti i mass-media per eccellenza, la televisione, il cinema, la pubblicità, esprimono e comunicano appunto attraverso immagini: d’altra parte la stampa – un mezzo di comunicazione più tradizionale – si e in questi ultimi lustri completamente rinnovata, puntando principalmente sulla comunicazione per immagini, anziché su quella scritta; basti pensare alla diffusione del fumetto, del rotocalco, del fotoromanzo”.

La simulazione

Giocare, simulare e recitare

di Enzo Kermol

Il concetto di “gioco” è compreso da tutti, sia dagli adulti che dai ragazzi, per i quali può sembrare un elemento istintivo. Una parte delle attività ludiche normalmente eseguite consiste in rappresentazioni simulate della realtà nelle quali i partecipanti ricreano particolari situazioni ambientali e interpretano il ruolo di personaggi prefissati. La gamma di tali attività si estende dalle finzioni infantili di impersonificazione di figure semplici ai processi simulati di esercitazione per i professionisti e alla complessa organizzazione di corsi di formazione. Negli anni Settanta infatti ci si rese conto che gli elementi del gioco di simulazione potevano essere trasferiti, adattati e impiegati nelle tecniche di apprendimento, sia nella scuola sia nell’istruzione degli adulti. Da qui un’ulteriore diffusione di pratiche raggruppabili nel concetto di “gioco”. Secondo Taylor e Walford “nell’ambito del vasto spettro della simulazione accade che i partecipanti:

  • Assumano ruoli analoghi a quelli del mondo reale e prendano quindi decisioni rispondenti alla loro valutazione dell’ambiente in cui si trovano;
  • sperimentino in proprio le conseguenze simulate connesse alle loro decisioni e prestazioni;
  • verifichino i risultati delle loro azioni e siano indotti a riflettere sulle relazioni fra decisioni prese e conseguenze che ne sono derivate”[1].

Come affermano Taylor e Walford, giocare e recitare sono attività insite nell’uomo, in particolare nel bambino per il quale il gioco è un modo per divertirsi ed esercitarsi ad entrare nella vita adulta. Le prime manifestazioni di semplici giochi di simulazione si verificano dopo il compimento del primo anno di vita. Solamente più tardi, verso i tre anni, il bambino attribuisce agli oggetti un ruolo diverso, rispetto a quello che hanno nella realtà, fingendo che gli oggetti siano qualcosa di altro, per poi passare a “fingere di essere qualcun altro” verso i cinque anni. Un ulteriore passo in avanti si ha quando il bambino, a sei anni circa, programma consapevolmente, attribuendo non solo a sé stesso ma anche ad altri bambini dei ruoli, (inteso come “role-playing”). Negli anni successivi i bambini arricchiscono questi giochi di ruolo con regole che vengono così chiamati “giochi di simulazione”. L’adulto osservando queste attività innate nel bambino ha colto le potenzialità di esse trasferendole nell’età adulta e utilizzandole in un modo più sofisticato e consapevole. Il role-playing, per esempio, a partire dagli anni Trenta, è stato utilizzato all’interno di gruppi ristretti “come strumento per estendere la ricerca sul comportamento umano in vari campi di studio e adottarlo anche come forma di terapia per malattie mentali. Appena negli anni Settanta ha avuto un ulteriore sviluppo nel campo dell’istruzione degli adulti; dalla semplice simulazione usata nei colloqui per l’assunzione al lavoro, il metodo si è diffuso in molti altri settori”[2].

Dai giochi con regole discendono i giochi “gaming-simulation” che sono “simulazioni che si svolgono in forma di gioco, e che possiamo definire tecniche di manipolazione di un modello (simulation) attraverso l’assunzione di ruoli (role) sottoposti a regole (game). Simulation – role – game sono le tre coordinate che delimitano il campo della “simulazione giocata”[3]. Per D’Andrea, il role-playing, inteso come assunzione di ruoli, è “un’attività dove un certo numero di persone si riunisce attorno ad un tavolo con dadi e matite ed inventa un mondo nel quale si svolge una storia: ciascun giocatore crea un personaggio che affronterà in sua vece situazioni rischiose, esotiche, comunque avventurose e lo gestisce attraverso la sequenza di avvenimenti che costituiscono una campagna, descrivendone le azioni, impersonandolo ed interpretando la sua parte in dialoghi e scambi vari”[4].  Gli attori sono i giocatori, il regista e coordinatore – il master – è colui che lega le azioni in una trama coerente ed è responsabile della loro ideazione. Egli descrive oralmente ai giocatori l’ambiente circostante, gli oggetti o creature che vi si trovano ed impersona tutti i personaggi con cui questi vengono in contatto. Occorre solo che i partecipanti accettino una nuova identità, entrino nei panni altrui e agiscano e reagiscano in modo conseguente quanto meglio possono.

I giocatori per iniziare la partita, hanno bisogno di dadi, questi sono sì il simbolo della casualità, ma di una casualità influenzabile. Più esattamente, vengono utilizzati in chiave probabilistica, il loro risultato viene di volta in volta modificato da coefficienti scaturiti dall’applicazione di altre regole; (la stessa cosa avviene anche nei boardgame – o giochi da tavolo). Le personalità dei giocatori sono definite da valori numerici assegnati ad alcune caratteristiche, in linea di massima generati per tiro di dadi. Questi valori numerici, oltre ad avere riflessi sull’azione di gioco, sono vincolanti per la recitazione del giocatore. L’assunzione di un ruolo immaginario da parte del giocatore è governata quindi da una serie di regole.

“Ciò che veramente conta nel role-playing è l’immedesimarsi in un’altra persona. L’allievo è messo in condizione di sentire il suo ruolo, sulla base di informazioni essenziali. Segue poi l’esperienza della correlazione di questa nuova identità con le diverse situazioni degli altri partecipanti, il problema, è cioè di interagire con gli altri”[5]. Con questa partecipazione si spera che i protagonisti acquistino sia una  maggior comprensione di ruoli e rapporti diversi, sia una profonda consapevolezza delle proprie azioni e conseguenze annesse.

Le origini e lo sviluppo di questa tecnica risalgono allo psicodramma moreniano, nel “teatro della spontaneità”. Come ci racconta  Capranico ne è il padre lo psichiatra rumeno Jacob L. Moreno (1889-1974), “il gioco psicodrammatico consiste nell’evincere, superandoli, i limiti della verbalizzazione, del racconto, del self-report: modi che si prestano ad essere lenti, densi di astrattezze, di difese intellettualizzanti. Viene richiesto di agire drammaticamente il tema su una scena, interagendo con altri che rappresentano altri personaggi”[6]. Chiaramente vi sono elementi antecedenti, il teatro in primo luogo, come luogo in cui l’attore recita un ruolo. Mentre il secondo non può essere che il gioco. Negli anni Settanta il role-playing ha avuto uno sviluppo nel campo della formazione degli adulti. Da semplice simulazione usata nei colloqui di assunzione al lavoro, il metodo si è diffuso in molti altri settori educativi e formativi.

Secondo Giuliano simulation – role – game sono le tre coordinate che delimitano il campo della simulazione giocata. “Sono simulazioni che si svolgono in forma di gioco, e che possiamo definire tecniche di manipolazione di un modello (simulation) attraverso l’assunzione di ruoli (role) sottoposti a regole (game)”[7].

Il termine “game” implica la nozione di regole che stabiliscono i limiti concessi alle decisioni da prendere, agendo come meccanismo semplificatore e restrittivo. I giochi impegnano gruppi di giocatori – di coloro cioè che prendono le decisioni – collocati in un ambiente descritto e limitato da sistemi di regole e da metodi di procedura. Nelle simulazioni giocate per prima cosa si precisa una situazione di partenza e si forniscono alcune informazioni sul modo in cui la simulazione dovrebbe svolgersi. Giuliano sostiene che una caratteristica che accomuna la simulazione giocata è il fatto di includere una “assunzione di ruoli” da parte dei giocatori. I partecipanti vengono invitati ad assumere una condotta coerente in vista di uno scopo generale, vincolata dall’ambiente fittizio costituito dalle regole del gioco.

L’introduzione del computer non ha modificato i denominatori comuni delle “simulation – gaming” (assunzione dei ruoli e creazione di regole) menzionate da Giuliano e D’Andrea, ma ha permesso, secondo Taylor e Walford di “sveltire il gioco, far fronte alla complessità dei calcoli, assicurare il massimo grado di precisione”[8]. La novità consiste nel fatto che esistono tipi di simulazione “uomo contro elaboratore” in cui l’elaboratore stesso rappresenta una fonte di materiale e un avversario instancabile comunque lo si affronti. Le tecniche di simulazione con l’impiego dell’elaboratore sono state applicate sia ad argomenti seri che argomenti frivoli[9]. Con l’elaboratore si ha la possibilità, di riprodurre e ricreare le più svariate situazioni di simulazione: dagli incontri di pugilato, alle partite di calcio con giocatori appartenenti ad epoche diverse, e via dicendo. Nel campo educativo, secondo Taylor e Walford, si dispensa anche l’insegnante da tutte quelle ripetizioni che possono rivelarsi necessarie per consolidare l’apprendimento e aggiungervi una nuova dimensione di interesse e di esperienza. Tuttavia già prima dell’introduzione del computer “nelle scienze sociali la simulazione aveva trovato applicazioni prima di tutto all’interno di attività che presentano situazioni di conflitto e delle quali si desiderano prevedere gli sviluppi. Risalgono al secolo scorso le simulazioni strategiche utilizzate dagli Stati Maggiori e poi sviluppate in forma di vero e proprio gioco (wargame) a partire dagli anni cinquanta”[10].

“I giochi d’affari (businnes game) derivano direttamente dai giochi di guerra e devono molto alle iniziative intraprese nel 1956 dalla “American Management Association” (A.M.A., Associazione americana dei dirigenti) che progettarono la “Top management simulation” (Simulazione per dirigenti di alto livello). Dal 1956 la simulazione fu introdotta come valido sistema di addestramento sia nelle università che lavoravano in quel campo, sia nelle industrie e nel commercio”[11]. Per Taylor e Walford l’approccio simulativo, proprio per la sua concreta aderenza alle diverse situazioni, può essere considerato un valido modo per tentare di gestire situazioni complesse e colmare così il divario esistente tra lo studio e la realtà: “Partecipare ad una simulazione dà modo di saggiare il mondo reale e perfino di prendere decisioni tipiche di quel mondo reale; tutto questo avviene in un ambiente privo di rischi, senza danneggiare né sé stessi né gli altri, né attrezzature costose, commettendo errori e imparando da questi, acquisendo, quindi, un’esperienza che più avanti potrà essere utilizzata in situazioni reali analoghe o pertinenti”[12].

Secondo Peters, Vissers e Heijne[13] molte volte è impossibile insegnare o formare studenti in situazioni reali; ad esempio perché la situazione è troppo complessa, o perché ad una persona viene richiesto di possedere una determinata conoscenza o delle abilità, prima che questa possa essere ammessa a quella situazione (ad esempio l’addestramento di un pilota e di un chirurgo). In questi casi l’insegnante può rivolgersi al gioco, o ad una qualsiasi altra forma di simulazione, per trasmettere la conoscenza desiderata.

 La progettazione e messa in opera del modello

In linea di massima secondo Taylor e Walford “la maggior parte delle simulazioni istruttive, che implicano procedimenti basati sul gioco, cercano di realizzare gli effetti desiderati nei modi seguenti: Presentando un’astrazione semplificata degli elementi essenziali delle situazioni, eliminandone aspetti banali o irrilevanti. Sforzandosi di rendere espliciti i rapporti essenziali e l’interazione di fondo tra i ruoli chiave. Facendo scorrere il tempo a un ritmo più veloce del normale affinché gli effetti dell’intervento su una situazione in divenire possano esser percepiti in modo chiaro. Consentendo ai partecipanti di provare in prima persona il peso delle conseguenze delle decisioni prese”[14].

All’interno di questo processo evolutivo, si identificano alcune fasi fondamentali.

  1. L’analisi preliminare:

Enucleazione del problema. Nella progettazione di una simulazione occorre prima di tutto definire con chiarezza lo scopo dell’esercizio. Enucleare lo scopo è una fase essenziale per garantire che le esigenze della simulazione siano ordinate in termini di priorità.

Determinazione del contesto. Una volta deciso lo scopo, occorre trovare un contesto particolare entro il quale la simulazione avrà luogo. A questo proposito si dovrà tenere presente l’argomento della simulazione.

Definire delle componenti del sistema. A questo punto si devono definire gli elementi essenziali del sistema, quantificarli e collegarli tra loro entro il sistema stesso.

  1. Aspetti pratici della produzione di modelli:

L’uso delle risorse. E’ necessario analizzare due elementi importanti che qui entrano in gioco, da un lato, il gruppo di partecipanti cui la simulazione è diretta e le risorse concrete di cui si dispone (dimensione degli spazi, tempo, ecc.) e dall’altro la problematica che si vuole rappresentare, che ha struttura organizzativa, rapporti, motivazioni e risultati suoi propri. Occorre ordinare e utilizzare accuratamente tutte le risorse per permettere la fusione dei due elementi, la simulazione va contenuta nei limiti di ciò che può essere credibilmente rappresentato e portato a termine.

Il funzionamento del modello. Tenendo presente la natura delle risorse si può tentare di riprodurre la natura dinamica del modello, cioè le sequenze che avranno luogo quando la simulazione verrà attuata. L’identificazione preliminare dei partecipanti e degli obiettivi è di fondamentale importanza, ma la chiave di volta della simulazione è l’andamento reale dello sviluppo delle interazioni che possono essere fatte derivare da scelte dei partecipanti che si traducono nelle deduzioni di loro azioni”[15].

Qualunque tipo di interazione si decida di adottare deve fondamentalmente rappresentare un’analogia con il processo che la simulazione cerca di mettere in luce. Occorre poi stabilire le sequenze del “come si gioca” e le regole restrittive che definiscano i limiti esterni del modello, alcune delle quali possono essere inserite nella struttura stessa del modello.

  1. Perfezionamento e prova di controllo:

La messa a punto delle regole. Una volta che le limitazioni dinamiche e operative del modello sono state decise, si possono creare vari sistemi di regole, che possono sia produrre direttamente quelle esistenti nella realtà, sia contenere qualche elemento artificiale, a seconda delle risorse disponibili. La maggior parte dei progettisti propende per il primo tipo di regole, in modo che la struttura del gioco rifletta fedelmente la realtà quali che siano le circostanze del gioco stesso.

L’accordatura del modello. L’ultimo stadio della progettazione richiede una accordatura del modello che assicuri risultati soddisfacenti. L’occhio critico del progettista esperto accorcia questa fase ripetitiva, ma quasi certamente si dovranno fare dei tentativi a vuoto per vedere quali problemi si presentano”[16].

Progettazione e applicazione di un gioco

Un contributo interessante all’approccio simulativo è stato dato da Peters, Vissers e Heijne secondo i quali “se utilizziamo le simulazioni per imparare o insegnare problemi o situazioni, in primo luogo creiamo un modello semplificato della situazione, successivamente impariamo o insegniamo qualcosa su questo modello e infine traduciamo i risultati, ovvero la conoscenza acquisita, e la applichiamo nella realtà” [17]. Il problema o la situazione che è all’oggetto dell’insegnamento, viene chiamato “sistema di riferimento”, esso è il punto di partenza per l’approccio simulativo. Se questo sistema di riferimento è troppo complesso, possiamo utilizzare un gioco per fornire ai partecipanti una nuova conoscenza oppure per offrire loro la possibilità di formazione con nuove abilità. Per creare un modello, descriviamo gli elementi del sistema di riferimento e i rapporti fra loro in termini di un altro noto e conosciuto sistema. Nel processo di traduzione del sistema di riferimento in un modello ludico semplificato, vengono applicati tre principi: riduzione, astrazione e simbolizzazione.

Riduzione: viene effettuata una scelta degli elementi presi dal sistema di riferimento che devono essere inclusi nel modello ludico; vengono inclusi gli elementi che sembrano di rilevanza e tralasciati quegli elementi che sono meno importanti.

Astrazione: implica che gli elementi inclusi nel modello ludico non siano necessariamente così dettagliati come lo sono in realtà: deliberatamente vengono semplificati per rendere il modello meno complesso.

Simbolizzazione:  gli elementi e i rapporti del sistema di riferimento vengono plasmati in una nuova struttura simbolica, in uno scenario, in ruoli, codici e simboli, che sono gli elementi base più importanti di un gioco[18].

Il processo di progettazione e di applicazione di un gioco viene illustrato da Vissers, Heijne e Peters[19].

Il sistema di riferimento deve essere tradotto in un gioco utilizzabile: ovvero dobbiamo capire bene le caratteristiche del sistema di riferimento e trasformare queste caratteristiche in elementi che costituiscono il gioco. Successivamente, il gioco viene fruito dai partecipanti, che acquisiranno così nuove informazioni, conoscenze ed esperienze. A seconda del tipo di applicazione e degli obiettivi del gioco, il risultato del “giocare un gioco” può avere un qualche interesse per il ricercatore o per gli stessi partecipanti. A tal ragione, le osservazioni e le esperienze fatte nella simulazione devono essere riportate al sistema di riferimento. Dopo la fase dell’ apprendimento o la fase pratica, i partecipanti dovranno quindi applicare la loro conoscenza o le loro abilità  acquisite nel gioco, nelle situazioni reali.

Il sistema di riferimento può essere considerato come il punto obiettivo per il processo ludico. Siccome il sistema referenziale è altresì il punto di partenza del processo ludico o di gioco, vediamo che il cerchio simulativo si chiude. Quando i giochi vengono applicati nel contesto descritto, il ragionamento di base è che noi siamo in grado di tradurre la conoscenza e l’esperienze acquisita, da un sistema all’altro. La portata entro la quale questa traduzione sarà una traduzione di successo, dipende tra le altre cose, dal grado in cui il gioco è una valida rappresentazione del sistema di riferimento. In altre parole, la forza delle nostre conclusioni circa il sistema di riferimento è determinata dalla validità o efficacia del modello di gioco.

In rapporto all’utilizzo del gioco nella ricerca, Raser ha definito la validità dei modelli nel modo seguente: “Si può dire che un modello sia valido fino al punto in cui l’analisi di quel modello fornisce gli stessi risultati che una ricerca simile avrebbe ottenuto in un sistema di riferimento” [20]. Qui la validità si basa sui risultati dell’utilizzo del modello.

Raser ha suggerito quattro criteri per la validità del gioco: la realtà psicologica, la validità strutturale, la validità del processo e la validità di previsione.

Il primo criterio per la validità è quello della realtà psicologica. Un gioco è valido fino al punto in cui  fornisce un ambiente che appare realistico per i giocatori. Se essi non riescono a vedere il gioco come reale, potrebbero mostrare un comportamento diverso rispetto a quello che mostrerebbero in una situazione di vita reale. Il risultato sarà che i comportamenti nel gioco non corrisponderanno ai comportamenti nel sistema di riferimento.

La validità strutturale è il secondo criterio di validità. Questo criterio viene formulato come segue: Un gioco è valido fino al punto in cui si può dimostrare che la sua struttura (la teoria, la base concettuale sulla quale esso è costruito) è isomorfica per quel sistema di riferimento. Il termine isomorfico indica che questi elementi ed i rapporti in entrambi i sistemi, non devono necessariamente essere simili, ma ci deve essere una congruenza fra di loro. (In questo caso tra gli elementi nel sistema di gioco e gli elementi nel sistema di referenza). Siccome noi cerchiamo di costruire un modello semplificato del sistema di riferimento, non è necessario che tutti gli elementi e i rapporti siano rappresentati nel modello di gioco. Pertanto, questo aspetto della validità implica che aspetti, caratteristiche molto importanti del sistema di riferimento dovrebbero essere inclusi nel modello di gioco secondo una modalità isomorfica.

La validità del processo, terzo criterio della validità, implica che: Un gioco è valido fin al punto in cui i processi osservati nel gioco sono isomorfici rispetto a quelli osservati nel sistema referenziale. Il precedente criterio dichiarava che ci dovrebbe essere una congruenza fra gli elementi nel sistema di gioco e gli elementi nel sistema di referenza. In modo analogo questo terzo criterio dice che ci dovrebbe essere congruenza tra i processi che hanno luogo in entrambi i sistemi.

L’ultimo criterio è la validità di previsione: Un gioco è valido fino al punto in cui esso è in grado di riprodurre dei risultati storici ovvero predire il futuro. Questo criterio fa riferimento alla precisione dei risultati del gioco: “Siamo in grado di fare una buona stima, valutazione o previsione di ciò che accade nel sistema di riferimento?” Noi possiamo verificare la validità di un gioco cercando di ricostruire le situazioni note. I risultati del gioco possono, quindi essere comparati con i risultati della realtà.

Si è detto che il modello, non può essere ancora considerato una simulazione. “Il simulatore è un modello dinamico, una formalizzazione di un sistema referente progettato per rassomigliare a un sistema dinamico”[21].Per rendere più chiari questi concetti di “modello”, “simulatore” e “simulazione”, Giuliano propone un esempio: “La  scacchiera con i pezzi degli scacchi è un modello; diventa un simulatore quando aggiungiamo le regole di movimento e di comportamento dei pezzi. La simulazione si ha quando due giocatori compiono scelte strategiche muovendo i pezzi sulla scacchiera in base alle regole”[22].

“Il simulatore diventa attivo grazie alla presenza di un “soggetto agente” (attore) che prende le decisioni che rendono operativo il modello dinamico. L’attore non deve essere necessariamente un essere umano, può essere un animale da laboratorio o un circuito elettrico. Un modello rappresenta alcune proprietà invarianti del sistema complesso di riferimento in modo tale che esso diventi accessibile all’esperienza di un attore. Un simulatore include le regole di manipolazione del modello da parte dell’attore, e quindi rappresenta il campo di variazione delle proprietà variabili del sistema, individuate durante la progettazione e affidate alle potenziali scelte strategiche dell’attore.

Una simulazione include l’attore che rende operativo il modello e riproduce il sistema di riferimento con le sue proprietà varianti e invarianti compresa la “produzione di senso” dell’attore, le strategie adottate e la sua “invenzione delle realtà. Restando nell’esempio degli scacchi, gli attori, in questo caso, sono i due giocatori; uno dei due potrebbe essere un computer, questo significa semplicemente che la simulazione (la partita) contiene un simulatore (il giocatore computerizzato) che consente di riprodurre “l’interazione strategica” dei due giocatori”[23].

Note

 

[1] Taylor J. L., Walford R., I giochi di simulazione per l’apprendimento e l’addestramento, Mondadori, Milano, 1979, pag. 17.
2] Taylor J. L., Walford R., I giochi di simulazione per l’apprendimento e l’addestramento, Mondadori, Milano, 1979, pag. 20.
[3] Giuliano L., La simulazione dei ruoli in La simulazione, Kermol E., Proxima Scientific Press, Trieste, 1994, pp. 167-168.
[4] D’Andrea F., L’esperienza smarrita. Il gioco di ruolo tra fantasy e simulazione, Rubbettino Editore, Catanzaro, 1998, pp. 15-16.
[5] Taylor J. L., Walford R., I giochi di simulazione per l’apprendimento e l’addestramento, Mondadori, Milano, 1979, pag. 17.
[6] Capranico S., Role Playing, Cortina editore, Milano, 1997, pag.1. Per approfondire l’origine del Role Playing rinvio direttamente al volume di Capranico, estremamente chiaro ed esaustivo sul funzionamento di questa tecnica.
[7] Giuliano L., La simulazione dei ruoli, in Kermol E., La simulazione, Proxima Scientific Press, Trieste, 1994, pp. 167-168.
[8] Taylor J. L., Walford R., I giochi di simulazione per l’apprendimento e l’addestramento, Mondadori, Milano, 1979, pag. 22.
[9] Taylor J. L., Walford R., I giochi di simulazione per l’apprendimento e l’addestramento, Mondadori, Milano, 1979, pag. 23.
[10] Giuliano L., La simulazione dei ruoli in La simulazione, Kermol E., Proxima Scientific Press, Trieste, 1994, pag. 167.
[11] Taylor J. L., Walford R., I giochi di simulazione per l’apprendimento e l’addestramento, Mondadori, Milano, 1979, pp. 24-25.
[12] Taylor J. L., Walford R., I giochi di simulazione per l’apprendimento e l’addestramento, Mondadori, Milano, 1979, pag. 47.
[13] Peters V., Vissers G., Heijne G., “The Validity of Games”, in Simulation & Gaming, Sage Publications, Vol. 29, n. 1, March 1998, pp. 20-21.
[14] Taylor J. L., Walford R., I giochi di simulazione per l’apprendimento e l’addestramento, Mondadori, Milano, 1979, pp. 52-53.
[15] Taylor J. L., Walford R., I giochi di simulazione per l’apprendimento e l’addestramento, Mondadori, Milano, 1979, pag. 54-55.
[16] Taylor J. L., Walford R., I giochi di simulazione per l’apprendimento e l’addestramento, Mondadori, Milano, 1979, pp. 56-57.
[17] Peters V., Vissers G., Heijne G., “The Validity of Games”, in Simulation & Gaming, Sage Publications, Vol. 29, n. 1, March 1998, pag. 21.
[18] Peters V., Vissers G., Heijne G., “The Validity of Games”, in Simulation & Gaming, Sage Publications, Vol. 29, n. 1, March 1998, pag. 27.
[19] Vissers G., Heijne G., Peters V., Spelsimulatie en bestuurskundig oderzoek (Gaming and research on public administration),Bestuurskunde, 4(4), pp. 178-187, 1995.
[20] Raser J.C., Simulations and society: an exploration of scientific gaming, Allyn & Bacon, 1969.
[21] Giuliano L., La simulazione dei ruoli in La simulazione, Kermol E., Proxima Scientific Press, Trieste, 1994, pp.164-165.
[22] Giuliano L., La simulazione dei ruoli in La simulazione, Kermol E., Proxima Scientific Press, Trieste, 1994, pag. 165.
[23] Giuliano L., La simulazione dei ruoli in La simulazione, Kermol E., Proxima Scientific Press, Trieste, 1994, pp. 165-166.

I film di spionaggio (Spy Movie)

La visione della società attraverso il genere cinematografico
Il cinema come strumento della comunicazione di massa, tra dinamiche politiche, propaganda e immaginario collettivo
di Enzo Kermol

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Premessa

La categoria dei generi cinematografici ha riscontrato notevoli difficoltà a imporsi nel panorama storico critico del cinema a causa della contrapposizione autore – genere. L’attuale analisi punta invece a un approfondimento non solo di origine “letteraria”, come sottolinea Costa, ma attento al processo di produzione e all’organizzazione del lavoro dapprima nello studio system, ora nell’industria dello spettacolo. Per produrre un film, e attualmente un serial, occorre una ferrea organizzazione che parte dall’analisi delle richieste di mercato fino alla confezione del prodotto ultimo (dal film in pellicola al DVD, dalla programmazione televisiva al merchandising). Parallelamente ogni genere può divenire “termometro” di variazioni sociali determinate dal numero e dalla tipologia di genere prodotto. Lo spy movie ben si presta a questa funzione. Vediamone le caratteristiche e le funzioni ricoperte dall’origine del cinema ad oggi.

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Gli attori che hanno interpretato James Bond

Il cinema fin dalla sua nascita è stato intimamente legato alla politica, alla società e alle manifestazioni del potere di governo del sistema dominante. Non è certo un caso che nel secolo scorso in tutti i regimi sia stato percepito come lo strumento principe della comunicazione di massa delle idee, dei principi e del modello sociale proposto. Per il fascismo Mussolini dichiarò “La cinematografia è l’arma più forte”, Goebbels ne fece il cuore della propaganda con autori sia documentaristici, come Leni (Helene Bertha Amalia) Riefenstahl, con cui ebbe un rapporto alterno, sia con la creazione di un sistema cinematografico divistico pari a quello hollywoodiano (pensiamo ad attrici come Zarah Leander, Ilse Werner) composto dal monopolistico blocco delle tre case di produzione (UFA, Tobis e Terra) della “fabbrica dei sogni” tedesca. Non da meno l’URSS in cui venne creata una sola grande industria di cinema di stato, o gli Stati Uniti in cui la produzione era fondata sullo “Star System” basato nella californiana Hollywood.

L’indagine

L’analisi dei vari componenti di questa parte dell’industria dello spettacolo permette, a distanza di tempo, di fornire un quadro dettagliato dell’intero schema sociale presente nel periodo storico prescelto. Una possibile metodologia consiste nell’analizzare una figura ricorrete, un personaggio, una “maschera” tipica dei ruoli cinematografici per dedurne, dai mutamenti occorsi negli anni, quali siano le categorie proposte o negate dal sistema politico vigente, quali siano i mutamenti di percezione sociale, e quali categorie risultano gradite in un determinato periodo storico e in una data connotazione geografica. L’altra possibilità è quella di analizzare i “generi” cinematografici, la loro prevalenza, distribuzione nel panorama generale di produzione, la presenza di “personaggi” particolari, la collocazione temporale del film (coeva al girato o anteriore se non addirittura successiva o fantastica).

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Best Bond Girls

Innumerevoli sono i “generi” cinematografici, anche se il termine stesso non è ben definito, ed anche quando lo è, si associa al termine “contaminazione” di altri generi che permette ogni variabile possibile. Pensiamo a quelli determinati geograficamente, come i film di samurai in Giappone, il “Peplum” nell’antica Roma mitologica, il western negli Stati Uniti, il cinema d’arti marziali cinese, o addirittura con doppia identità come il noir diviso fra il filone francese con il polar e quello statunitense con l’hard boiled. Rimanendo nei generi universali troviamo alcune linee guida come il thriller, il giallo, il poliziesco, lo spionaggio, il noir già citato. Ovviamente le linee guida sono sottili. Facciamo un esempio semplice: il western.

I puristi della critica indicavano una collocazione geografica limitata, dal fiume Mississippi all’oceano Pacifico, un periodo storico preciso, gli ultimi decenni del XIX secolo, un legame stretto con la descrizione di fatti ispirati dalla storia. In realtà il genere comprende tutto ciò che è avvenuto dallo sbarco di Colombo ai giorni nostri, dall’Alaska all’America latina, dalla storia alla fantascienza. Pensiamo a Vera Cruz (1954) o a Major Dundee (Sierra Charriba, 1964) ambientati in Messico, dove un gruppo di reduci della guerra civile combatte per i francesi. Oppure a Hud il selvaggio (1963), western contemporaneo, o al fantascientifico come gli zombie – western The killing box (1993) collocato durante la guerra civile statunitense o Undead or alive (2007), se non l’intera serie di Star Wars (primo episodio 1977) definita da alcuni come un western del futuro.
Da ciò deriva una serie di dubbi, un film ambientato durante la guerra di Secessione, come The Birth of a Nation (1915) o Glory (1989), si colloca nei western o nei film di guerra, mentre un film cantato, come Seven Brides for Seven Brothers (1954) diventa un musical o mantiene il genere d’origine. Inoltre Apocalypto (2006), temporalmente precedente all’arrivo degli europei nel continente americano, diviene un film d’avventura o rimane un western. Infine gli “spaghetti western” italo-spagnoli, come Per un pugno di dollari (1964), con Clint Eastwood, sono definibili come western veri e propri oppure divengono qualcosa d’indefinibile dato il remake da un film giapponese di Kurosawa. La considerazione che ne deriva è che se un genere in apparenza così “ristretto” come il western permette tali e tante divagazioni, oltre che relazioni, con altri generi, immaginiamo quali possono essere le variazioni in un genere invece “aperto” come il cinema di spionaggio.

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La definizione

Il periodo temporale può essere qualsiasi, senza alcun limite. L’azione può svolgersi in un lontano passato (cosa sono altrimenti le decine di rifacimenti di I tre moschettieri, l’ultimo The Three Musketeers (2011) di Paul W.S. Anderson, se non un film di genere sulla caccia alla spia Milady de Winter ) o in un lontano futuro, come I, Robot (2004) di Alex Proyas, (ricerca spasmodica di sofisticati programmi computerizzati apparentemente sottratti in una società profondamente degradata e ostile). Il tempo può addirittura non esistere, nel serial Da Vinci’s Demons (2013) l’agente segreto Leonardo Da Vinci (versione fantascientifica del genio multiforme) si sposta fra universi paralleli e continuum spaziotemporali in un gioco di contrasto di spie papali, medicee, massoniche e quant’altro si ritrova nella letteratura fantastico-fantascientifica. Restringendo il campo, per quegli storici del cinema più rigidi, si va dalla prima guerra mondiale all’attualità, con particolare attenzione al periodo bellico della seconda e della guerra fredda con l’URSS.

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“Nikita” di Luc Besson

Relativamente alla collocazione geografica nella prima ipotesi non vi sono limiti, dallo spazio di Moonraker (1979), la quarta pellicola di James Bond con Roger Moore, diretta da Lewis Gilbert, al profondo degli oceani di Thunderball (Operazione tuono, 1965), sempre con James Bond, ma interpretato da Sean Connery e diretto da Terence Young. Nella versione ristretta la collocazione è prevalentemente europea, con qualche rara punta di esotismo fra Nordafrica, America latina ed estremo oriente. La contaminazione. A essere estremisti diremmo che non può esistere un film di spionaggio non contaminato. Sia in versione calda o fredda spesso vi è una guerra sullo sfondo, come nel serial Strike Back (2010). Ed è impossibile immaginare il genere senza azione e avventura, vedi serial recenti come Alias (2001-2006) o Nikita (2010-2013). Non ultima la componente erotico sentimentale. Pensiamo a Casablanca (1942) di Michael Curtiz con Humphrey Bogart e Ingrid Bergman. Difficile etichettare questo film. Pure la prevalenza dei temi conduttori lo porterebbe nell’alveo dell’opera di spionaggio.

I contenuti

Ogni genere ha i suoi. Da cui derivano ulteriori classificazioni. Il cinema di guerra rappresenta un conflitto. Può essere macroscopico, come l’intera descrizione dell’evento bellico attraverso il pretesto della vita di un protagonista come in MacArthur (MacArthur, il generale ribelle, 1977) di Joseph Sargent con Gregory Peck, storia della vita del generale statunitense e della campagna del Pacifico nella seconda guerra mondiale. O di un eroe come Sergeant York (1941) di Howard Hawks con Gary Cooper, qui la vita di un uomo comune che attraversa la prima guerra mondiale divenendone il maggiore eroe americano. Oppure con taglio quasi documentaristico presentare un grande avvenimento, come in The Longest Day (1962) che narra i preparativi e l’attuazione dello sbarco degli Alleati in Normandia il 6 giugno 1944.

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The Wild Geese

Se invece l’opera predilige il tema di un “microcosmo”, abbiamo la storia di un piccolo gruppo inserito nello scenario di una guerra, che rimane sullo sfondo, dedito a compiere un’azione generalmente eroica come in Rambo (John Rambo, 2008), quarto capitolo della saga iniziata nel 1982, diretto e interpretato da Sylvester Stallone, dove un riluttante “guerriero” decide di passare all’azione per salvare alcuni ostaggi. Uncommon Valor (Fratelli nella notte, 1983) diretto da Ted Kotcheff e ambientato in Vietnam dopo il termine della guerra; anche qui un salvataggio di prigionieri dimenticati. The Wild Geese (I quattro dell’Oca selvaggia, 1978), un’operazione di recupero di un leader detenuto in Africa, diretto da Andrew V. McLaglen. Dogs of War (I mastini della guerra, 1980), un colpo di stato in Uganda, per abbattere un tiranno, diretto da John Irvin. Ma questi ultimi non sono solo film di guerra poiché nella prima parte di ognuno assistiamo a un’opera d’intelligence che permetterà lo svolgimento dell’azione bellica successiva.

Analogamente al cinema di guerra quello di spionaggio, vuoi per la stretta parentela, vuoi per alcuni “topoi” comuni si colloca sulla stessa linea. L’oggetto è lo spionaggio. Descritto in maniera realistica, come ad esempio Tinker Tailor Soldier Spy (La talpa, 2011) diretto da Tomas Alfredson, ispirato alla vicenda di Kim Philby, un agente doppiogiochista al servizio del KGB fino ai primi anni ‘60, durante la guerra fredda, tratto da un romanzo di John le Carré. Lo scopo è quello di verificare il periodo storico – sociale. O in The Third Man (Il terzo uomo, 1949) diretto da Carol Reed, scritto da Graham Greene, ambientato in una Vienna occupata dalle forze Alleate nell’immediato dopoguerra. Dall’altro lato film in cui predominano gli aspetti maggiormente legati al personaggio, alla sua missione, ad elementi avventurosi e sentimentali. Il prototipo ne è North by Northwest (Intrigo internazionale, 1959) diretto da Alfred Hitchcock con Cary Grant ed Eva Marie Saint, o l’intera serie dedicata all’agente segreto più noto in assoluto, James Bond, tratto dai romanzi di Ian Fleming.

VAN HELSING, Hugh Jackman, Kate Beckinsale, 2004, (c) Universal

Hugh Jackman e Kate Beckinsale in “Van Helsing”

La storia

La nascita di un genere è spesso avvolta in una spessa coltre di nebbia. Vuoi per la perdita delle pellicole infiammabili, e deteriorabili, delle origini, vuoi per il sostanziale oblio in cui cade un’opera cinematografica nel breve lasso di tempo successivo alla sua uscita e all’applicazione di una nuova tecnologia al successivo film (il montaggio, il sonoro, il colore, il miglioramento acustico, il 3D, la velocità di montaggio, gli effetti speciali, ecc.).
Ad ogni modo, il genere risale all’epoca del muto, dove si rappresenta soprattutto nell’ambito della Prima guerra mondiale. Un esempio è dato dal film inglese del 1914 The German spy peril di Bert Haldane, che narra di un attentato compiuto da spie nemiche per distruggere il parlamento, e nel 1928 da Spione (L’inafferrabile) di Fritz Lang tratto dal romanzo di Thea von Harbou, che introdusse alcuni elementi tipici del genere di spionaggio.

Tuttavia la derivazione complessiva del genere è letteraria, ed è relativamente semplice: si tratta di una specializzazione del giallo, della detective story che ha il suo capostipite convenzionale in Sherlock Holmes (1887) di Arthur Conan Doyle. Non a caso in alcuni racconti, L’interprete greco, La casa vuota e soprattutto ne L’avventura dei progetti Bruce-Partington, il detective deve “recuperare” situazioni che vedono coinvolti diplomatici o documenti per il fratello Mycroft, misteriosa eminenza grigia del governo britannico. Con L’avventura dei progetti Bruce- Partington, Conan Doyle crea sostanzialmente il punto di partenza del genere elencando gran parte degli elementi fondamentali del genere, come il segreto delle scoperte scientifiche e militari, la guerra imminente, la destabilizzazione del sistema sociale, l’avversario politico come simbolo del male.

Photo ID - 30529, Year - 1970, Film Title - PRIVATE LIFE OF SHERLOCK HOLMES, Director - BILLY WILDER, Studio - UA, Keywords - 1970, BILLY WILDER

Al cinema Sherlock Holmes si trasforma in “agente segreto” in The Private Life of Sherlock Holmes (La vita privata di Sherlock Holmes, 1980) diretto da Billy Wilder (deve salvare la Gran Bretagna dal furto di armi segrete durante la Prima guerra mondiale) e in The Seven-Per-Cent Solution (Sherlock Holmes: soluzione sette per cento, 1976) di Herbert Ross tratto dal romanzo di Nicholas Meyer. Anche in Sherlock Holmes: A Game of Shadows (Sherlock Holmes – Gioco di ombre, 2011) diretto da Guy Ritchie, ambientato nel 1891, Holmes agisce come agente segreto in un’Europa scossa da attentati che rischiano di alterare i delicati equilibri tra le potenze militari europee. Infine nel fumetto, e nel film, La Lega degli Straordinari Gentlemen di Alan Moore, Mycroft Holmes compare come leader dell’intelligence britannica sotto il nome in codice di “M”, una citazione-omaggio ai romanzi di James Bond di Ian Fleming.

Nel film tratto, The League of Extraordinary Gentlemen (La leggenda degli uomini straordinari, 2003) diretto da Stephen Norrington, invece “M” risulta essere il nemico mortale di Holmes, Moriarty, che sta architettando di impadronirsi del mondo, nel più puro stile bondiano. Non da meno in Elementary, l’adattamento in serial di Holmes trasposto nella New York dei giorni nostri, “M”, diviene una donna, innamorata del detective, posta a capo di un’organizzazione di spionaggio internazionale. Dopo Conan Doyle e Sherlock Holmes la critica ritiene sorgano due filoni. Quello avventuroso con autori come Edward Phillips Oppenheim, John Buchan che crea l’agente segreto Richard Hannay, protagonista di cinque romanzi, tra cui The Thirty-Nine Steps (I trentanove scalini) da cui è stato tratto il film The 39 Steps (Il club dei trentanove, 1935), diretto da Alfred Hitchcock e, ultimo, Peter Cheyney con il personaggio di Lemmy Caution, da cui il film Alphaville, une étrange aventure de Lemmy Caution di Jean-Luc Godard. Questo filone arriverà al massimo risultato con i romanzi di Ian Fleming e le trasposizioni cinematografiche di James Bond.

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XIII

L’altra linea narrativa nasce alla fine degli anni ’30 con il romanzo The mask of Dimitrios (La maschera di Dimitrios) di Eric Ambler, in cui l’agente segreto è solo una pedina sacrificale in un gioco di cui non conosce i contorni. La trasposizione cinematografica con lo stesso titolo del romanzo è del 1944, diretta da Jean Negulesco. Il punto d’arrivo di questo filone sarà rappresentato da John Le Carré, dai suoi romanzi e dai film tratti. Forse potremmo individuare in un prodotto tardivo, il film Black book (2006) di Paul Verhoeven, ambientato durante la Seconda guerra mondiale, la sua massima espressione, in un gioco mortale di spie e agenti doppiogiochisti in cui si stempera la motivazione, i ruoli e ogni azione diviene un automatismo ripetitivo privo di significato.

Negli anni ’30 questo genere cinematografico ottenne notorietà, grazie anche al successo del regista Alfred Hitchcock, che girò alcune opere particolarmente popolari come, oltre alle già citate, The Man Who Knew Too Much (L’uomo che sapeva troppo, 1934), considerata la sua prima spy-story e uno dei primi capolavori, di cui fece un remake nel 1956. Secret Agent (L’agente segreto, 1936), è basato su due racconti The Traitor e The Hairless Mexican della serie “Ashenden o l’agente inglese” di William Somerset Maugham, ispirata all’esperienza dello scrittore nei servizi segreti durante la Prima guerra mondiale. Sabotage (Sabotaggio, 1936), dal romanzo di Joseph Conrad L’agente segreto. The Lady Vanishes (La signora scompare, 1938), anche in questo caso il soggetto è tratto da un romanzo, Il mistero della signora scomparsa (The Wheel Spins) di Ethel Lina White.

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“You Only Live Twice” – Little Nellie – James Bond

Dopo gli anni ’30 Hitchcock proseguì con Notorious (Notorious, l’amante perduta, 1948) ispirato ad un racconto di John Taintor Foote intitolato The song of the Dragon, pubblicato nel 1921. Abbiamo quindi Torn Curtain (Il sipario strappato, 1966), la cui sceneggiatura venne affidata al romanziere Brian Moore e Topaz (id. 1969) tratto dal libro di spionaggio di Leon Uris.
Da questi film appare ancor più evidente un dato che accompagna il genere in maniera più forte rispetto agli altri. Lo stretto legame con la letteratura, da cui attinge ispirazione, trasposizioni, sceneggiatori e consenso di pubblico. Negli Anni ’40 si sviluppano film incentrati sulle spie alleate in azioni di sabotaggio nell’Europa occupata dai nazisti o nell’oriente controllato dai giapponesi, come Man Hunt del 1941 di Fritz Lang, Across the Pacific del 1942 di John Huston con Humphrey Bogart, Blood on the Sun del 1945, di Frank Lloyd, O.S.S. (Eroi nell’ombra, 1946) di Irving Pichel.

Oppure su infiltrati negli Stati Uniti come Confessions of a Nazi Spy del 1939 di Anatole Litvak, Nazi Agent del 1942 di Jules Dasin, 13 Rue Madeleine (Il 13 non risponde, 1947) di Henry Hathaway, quest’ultimo su spie naziste doppiogiochiste.
Ma sarà la Guerra fredda, negli anni ’60, a far giungere al suo apice il numero, la notorietà e gli autori letterari da cui saranno attinte le storie per i film di spionaggio. Il genere si espande, fagocita tutto ciò che può fungere da ispirazione. Le storie divengono sempre più esotiche, ricche di suspense, il cui inossidabile capostipite è l’agente che diverrà il più famoso del mondo, 007, James Bond ideato da Ian Fleming in una lunga serie di romanzi che riportavano citazioni e aneddoti della sua vita trascorsa come agente segreto inglese.

Irish actor Pierce Brosnan as James Bond, with his 'GoldenEye' co-star Izabella Scorupco, circa 1995. (Photo by Terry O'Neill/Getty Images)

Pierce Brosnan è James Bond in “GoldenEye” con Izabella Scorupco

La saga, iniziata nel 1962 con Dr. No (Agente 007 – Licenza di uccidere), diretto da Terence Young, portò sullo schermo Sean Connery nella migliore interpretazione del agente Bond, e produsse 23 film accreditati oltre a tre “apocrifi”. L’antitesi bondiana è rappresentata da The Spy Who Came in from the Cold (La spia che venne dal freddo, 1965) di Martin Ritt e The Deadly Affair (Chiamata per il morto, 1966) diretto da Sidney Lumet, tratti dai romanzi di John Le Carré. L’atmosfera cupa dei libri è trasmessa con una fotografia in b/n, che si oppone al technicolor dei coevi film di James Bond. Lo stesso dicasi della tetra colonna sonora che dà il ritmo a tutta la pellicola. Altro autore da cui sono stati ricavati sei film è Len Deighton, il cui agente Palmer, interpretato da Michael Caine, oscilla fra la depressione di Le Carré e rari guizzi bondiani. Ricordiamo i film più noti The Ipcress File (Ipcress, 1965), regia di Sidney J. Furie e Funerale a Berlino (Funeral in Berlin, 1966), diretto da Guy Hamilton.

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Nikita, serial televisivo

Una citazione a parte meritano i film derivati dalle opere principali, spesso in chiave comica o ironica. Pensiamo a Le magnifique (Come si distrugge la reputazione del più grande agente segreto del mondo, 1973) di Philippe de Broca con uno scatenato Jean-Paul Belmondo. Oppure a Our Man Flint (Il nostro agente Flint, 1966), interpretato da James Coburn e diretto da Daniel Mann, la serie televisiva statunitense Matt Helm trasmessa dal 1975 al 1976 con Anthony Franciosa nel ruolo di Matt Helm o i film omonimi con Dean Martin tra il 1966 e 1969. Il serial britannico The avengers (Agente speciale 1961–1969) con Patrick Macnee, che poi recitò in A View to a Kill (007: Bersaglio mobile, 1985) di John Glen e Diana Rigg, che poi apparve nel ruolo di Tracy Di Vicenzo, la moglie di Bond, in On Her Majesty’s Secret Service (Agente 007, al servizio segreto di Sua Maestà, 1969) diretto da Peter R. Hunt.

Gli anni 2000 segnalano una ripresa dell’instabilità politica mondiale accompagnata, come in passato negli anni ’50 – ’60 della Guerra fredda, da un proliferare di film di spionaggio. Particolarmente ricca la produzione di serial televisivi che, per qualità e recitazione superano gli analoghi film. Ne citiamo alcuni come Alias (2001-2006) la super agente Sydney Bristow, interpretata da Jennifer Garner, fra agenzie segrete, CIA, NSA, e complotti che derivano dal medioevo. Nikita (2010-2013), continuazione dell’omonima serie La Femme Nikita (1997-2001), e dell’omonimo film diretto da Luc Besson nel 1990. N.C.I.S. (2003-2013), la serie televisiva più seguita negli Stati Uniti, che vede una squadra di agenti speciali in funzione di controspionaggio. XIII – The series (2011-2013), basata sull’omonimo fumetto di Jean Van Hamme e William Vance, a sua volta ispirato dal romanzo dello scrittore statunitense Robert Ludlum Un nome senza volto (The Bourne Identity, 1980), da cui è tratta anche la serie di film di Jason Bourne interpretata da Matt Damon. Strike Back (2010-2014), serie britannica, tratta dall’omonimo libro di Chris Ryan, ex agente del SAS inglese. E-Ring (2005) sulle missioni dei servizi segreti del Pentagono. Chaos (2011) commedia umoristica con agenti della CIA della divisione “Clandestine Homeland Administration and Oversight Services” (CHAOS). Chuck (2007-2012), un nerd con un supercomputer neurale al servizio della CIA e NSA. Alphas (2011-2013), un’unità investigativa del Dipartimento della Difesa dotata di poteri paranormali. Braquo (2009-2013), una serie televisiva francese nata come genere poliziesco, creata da Olivier Marchal (ex poliziotto), che si trasforma in spionistica nel secondo anno fra parà della Legione straniera e armi futuribili rubate in complotti internazionali. Covert Affairs (2010-2013), una giovane recluta della CIA che si ritrova catapultata in difficili missioni. “24” (2001-2010), con protagonista l’agente Jack Bauer (interpretato da Kiefer Sutherland) del CTU (Counter Terrorist Unit – Unità anti-terrorismo) di Los Angeles, alle prese con minacce terroristiche d’ogni tipologia.

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ALIAS, serial televisivo

Gli archetipi

Ogni genere ha i suoi modelli stereotipi di riferimento, anche se spesso alcuni di questi sono comuni con altre tipologie narrative, come il western, il film di guerra, il film d’avventure, il poliziesco. La loro ripetizione crea le strutture narrative ricorrenti nel film che, una volta individuate, permettono il riconoscimento e la raccolta per tipologia.
Nella spy story il protagonista principale è l’agente segreto (così come in altre è lo sceriffo, il soldato, lo spadaccino, il detective). Risulta fondamentale il tema della fuga con il relativo inseguimento (comune con il poliziesco, ma soprattutto con il road movie). Un altro topòi è determinato dalla “verità che deve essere svelata” (forse la caratteristica più forte del genere). Accanto vi è il segreto delle scoperte scientifiche o militari.
Mentre il crimine più grave è il tradimento personale, o eventualmente quello che minaccia alla sicurezza nazionale (il tradimento verso il protagonista spesso si sovrappone a quello verso la nazione). A questo si aggiunge l’ambiguità delle persone comuni e della coppia, la cui reale posizione “sociale” si rivela solo nei momenti di massima suspense, come in True Lies (1994) diretto da James Cameron, e interpretato da Arnold Schwarzenegger e Jamie Lee Curtis che a sua volta s’ispira a La Totale! (1991) film di spionaggio francese diretto da Claude Zidi. Una “normale” famiglia in realtà cela super agenti segreti.

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Arnold Schwarzenegger in “True Lies”

Il quartier generale segreto. Lo ritroviamo sia per gli agenti segreti che per i loro nemici. Basta pensare alle serie Alias, Nikita, XIII, agli avversari di James Bond, alla curiosa citazione in Van Helsing (2004) di Stephen Sommers. Ambientato nel 1887 vede Gabriel Van Helsing della setta segreta dei Cavalieri del Sacro Ordine della Città del Vaticano, transitare fra una missione e l’altra nei sotterranei del Vaticano, in una serie di laboratori che ricordano le officine di “Q”, il fornitore di “accessori speciali” all’agente 007. In Bond il quartier generale segreto serve per giustificare la spettacolarità della battaglia finale. Lo troviamo in comune con i film di supereroi.
L’agente segreto identificato con un numero. Da lo Spione di Friz Lang a James Bond l’assegnazione di numeri o pseudonimi è la regola. Molto forte nel genere. Ritroviamo qualche elemento nel cinema di guerra.
La bella agente straniera che aiuta l’eroe e s’innamora di lui. Sempre 007 per tutti. In particolare From Russia with Love (Dalla Russia con amore, 1963) per la regia Terence Young. Daniela Bianchi alias Tatiana Romanova. Accade anche in altri generi, ma qui l’agente non fallisce mai.
Vi è anche l’opposto. La femme fatale e la dark lady del noir si ritrovano anche negli spy movie. Mata Hari (1931), diretto da George Fitzmaurice e interpretato da Greta Garbo è forse la versione più nota della decina di film a lei dedicati. Mata Hari, divenuta agente H21, ottenne un nuovo codice, AF44 (a sostegno dell’assegnazione di numeri e sigle). Fu istruita in Germania dalla famosa spia Elsbeth Schragmüller (Agente 1 – 4 GW), soprannominata “Fräulein Doktor”, come l’omonimo (1969) film dedicatole da Alberto Lattuada, seppur con notevoli libertà storiche.

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Lo scambio di persona. Frequente. Piace molto ad Alfred Hitchcock. Meglio di tutti in North by Northwest (Intrigo internazionale, 1959). Lo ritroviamo in un po’ dappertutto nei generi cinematografici, ma trattato superficialmente. Come le due gemelle in Les Rivières pourpres (I fiumi di porpora, 2000), di Mathieu Kassovitzma ma anche nella misteriosa fuggitiva e nel vendicatore Jean Renò in L’empire des loups (L’impero dei lupi, 2005) di Chris Nahon o nei due agenti segreti doppiogiochisti Robert De Niro e Jean Reno in Ronin (id. 1968) di John Frankenheimer. L’impossibilità per l’innocente di discolparsi. Di totalmente innocenti nei film di spionaggio c’è ne sono pochi. Tuttavia pensiamo ai “fidanzati” delle protagoniste in Alias o Nikita, o vengono eliminati perché potevano aver ascoltato qualcosa o diventano agenti più duri e combattivi delle loro compagne. La rivalità fra il personaggio positivo (l’agente segreto) e il “cattivo”, che desiderano la stessa donna. Comune in tutti i generi. Un buon modo per acuire il conflitto, portarlo alle estreme conseguenze. Tipico anche nel western e nei film medievali (come in Robin Hood in almeno una trentina di remake, famoso quello The Adventures of Robin Hood (La leggenda di Robin Hood, 1938) con Errol Flynn e la regia di Michael Curtiz. Infine l’avversario come simbolo del Male, spesso una mente criminale interessata allo spionaggio, a scopo di lucro, guerra o destabilizzazione. Se non fosse così non sarebbe il “cattivo”. Comune a vari generi, quello dei supereroi in particolare.

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“Ronin”

Conclusioni

Da questa breve disamina si può comprendere che il “genere” è un dispositivo indispensabile per analizzare il cinema come industria, arte, bene di consumo, elemento di comunicazione. E’ la maniera più semplice per comprendere il nuovo prodotto (il film) grazie a un linguaggio simbolico condiviso fra chi lo produce (il regista) e chi lo utilizza (lo spettatore).
Secondo Kaminsky i generi sarebbero gli elementi moderni del concetto di “mito”. I generi cinematografici sarebbero un modo di incarnare gli archetipi. Per Schatz, il genere può essere interpretato sia come “leggi linguistiche che funzionano come canone sia come funzione d’economia narrativa”. Quando si classifica un film all’interno di un genere, ad esempio western, di guerra, musical, poliziesco, ci si riferisce a una serie di elementi (lo sceriffo, la donna, l’indiano, la cavalleria, il bisonte, oppure il soldato, la mitragliatrice, il fronte, o il corpo di ballo, la musica, le canzoni, infine il detective, la pistola, il delitto, ecc.) che non sono necessari esplicitare nelle loro caratteristiche in quanto già appresi e condivisi.
Per Bellour è il gioco che, anche quando viene negato rimanda a un’emozione. Il genere stimola automaticamente una reazione. Infine per Sobchack T. e Sobchack V. possiamo considerare due elementi fondamentali per definire un genere cinematografico, “la formula”, cioè l’insieme delle azioni che formano un film (la storia e le caratteristiche dei personaggi), e la “convenzione” che riguarda “l’unità d’azione” che si ripete in ogni film (ad esempio nei film di spionaggio la presentazione dell’agente segreto).
Il genere secondo Gola è sostanzialmente una standardizzazione industriale che crea film linguisticamente omogenei, con elementi comuni come i temi, le narrazioni, i fattori tecnici. Questo ne facilita la comprensione secondo determinate partizioni. Se comprendiamo il genere, e il suo continuo mutare ed evolversi, comprendiamo anche la società che lo ha prodotto, ne diviene un elemento significativo dei rapporti interni e dei messaggi trasmessi. Il genere, in sintesi, come indicatore delle variazioni che avvengono nel corpo sociale.

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Robert De Niro e Jean Reno in “Ronin”

Bibliografia indicativa

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Intervista a Fanny Ardant regista di “Cenere e sangue”

L’intervista venne rilasciata nel 2010 a Trieste

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Fanny Ardant

Come mai al Trieste film Festival?

I festival sono un piacere. Il film è come una bottiglia gettata nel mare. Una porta aperta sul mondo. Ecco la bottiglia è arrivata a Trieste.

Sono arrivata ieri sera. Mi piace Svevo, in particolare “La coscienza di Zeno”, perché è capace di evitare il melodramma.

E’ la prima volta che passa dietro la macchina da presa. Come mai?

Voglia di regia. Penso che i profondi desideri hanno spesso motivi oscuri. Non ero frustrata dal ruolo di attrice. L’occasione è arrivata con la scrittura. Poi l’ho trasformata in immagini. Sono stata felice, ho vissuto intensamente questa esperienza e quindi la considero positivamente.

Il tempo della scrittura era al Théatre de la Madeleine di Parigi, durante le prove di “La bestia nella giungla”, di Henry James, nell’adattamento di Marguerite Duras, con Depardieu. Ci sono lunghe pause e vi era il tempo per scrivere.

Subito dopo avere girato il film sono tornata sul palcoscenico a Parigi, poi alle riprese, come attrice, nel film “Visages” di Tsai Ming-liang.

Come ha pensato il soggetto del film?

L’idea è partita dal libro “Eschilo il gran perdente”, un saggio di Ismail Kadarè.

Nel nord dell’Albania non è cambiato nulla dal tempo di Eschilo. Sono arrivati i turchi, i fascisti, i comunisti, ma nulla è cambiato nello stile di vita.

Ho voluto utilizzare la tragedia per descrivere la situazione, non ambientandola in città per i troppi segni della modernità. Volevo anche evitare il mare, non indicare l’epoca e un luogo preciso. Ho stilizzato, potrebbe essere in qualsiasi luogo del Mediterraneo. L’amore per la terra è molto importante. La natura continua a essere bella anche quando si è tristi o abbattuti.

Non credo che uno possa delimitare le proprie influenze. Sono molto impressionata dal cinema italiano, russo e dall’opera teatrale lirica. Vedo il dramma di sangue come operistico.

Ho detto molto di me con questo film. La mia autobiografia è poco importante. Il cinema e il teatro sono un modo di esprimersi e porre in luce ciò che si prova.

Ma non vi dirò cosa volevo raccontare di me.

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Difficoltà durante la lavorazione del film?

Con la coreografa si coloravano le case con la carta sottile per farle sembrare diverse. Il cinema e l’arte del trucco.

Gli dei del cinema mi hanno aiutato, non ha piovuto durate le riprese, mentre volevo

avere la nebbia. Ed è arrivata come un regalo del tempo.

Mi sono piaciuti gli animali nel film, i cavalli e i lupi. L’addestratore ungherese guidava i lupi con pezzi di carne tenuti in mano. Lo seguivano e poi se li mangiavano.

Nell’ultima scena ero sdraiata con la carne in mano a fianco dell’attrice per far venire i lupi. Dovevo rassicurarla e stare attenta agli animali.

Come valuta un film?

L’emozione mi colpisce nei film. Deve esserci una buona storia, dove posso identificarmi. Il cinema ha permesso ai popoli di unirsi più dei beni materiali, entrare nell’animo delle cose, delle persone.

Non guardo la TV. Mi piace il film in DVD, è il bello della tecnologia. Apprezzo il serial statunitense, in cui l’autore è molto più libero che al cinema e può dire più cose.

Inoltre a Parigi vivo in un quartiere in cui il film circolano molto in pellicola.

Come regista cosa pensa degli attori?

Come diceva l’attore, regista e direttore di teatro Jean Villar: un palco, tende nere, bravi attori e la forza creativa.

Si impara di più dai registi passionali. Le qualità sono l’entusiasmo, l’energia, la passione di fare le cose, l’energia fisica positiva. Il non rimandare a domani.

È importante entrare in sintonia con gli attori che devono essere malleabili.

Ammiro molto gli attori inglesi perché sanno controllare tutto.

Mi fanno paura gli attori che non sanno fare. Bravissima Olga Tudorache, un monumento a Bucarest, una grande attrice. Non occorreva dirle nulla. Non occorre spiegare per ore a un buon attore.

Enzo Kermol