Intervista a Gian Luigi Rondi

Gian Luigi Rondi: Domande e risposte

di Enzo Kermol

Alberto Sordi, Gianluigi Rondi e Gina Lollobrigida

Incontrai Gian Luigi Rondi nel suo studio al David di Donatello (l’Oscar italiano) circondato dalle foto delle varie edizioni di questo prestigioso riconoscimento per lo spettacolo italiano e dalle innumerevoli attestazioni di benemerenza da lui raccolte nel corso degli anni.
L’immagine che meglio descrive questo testimone del cinema, non solo italiano, e che conservo nella memoria, è quella d’anni or sono, quando alla Mostra del Cinema di Venezia venne inaugurata la nuova sala della Galileo, costruita al di sopra della vecchia arena estiva all’aperto. Nel pomeriggio, quando il maggior numero di critici si riposava lontano dalle sale, Rondi entrò con un buon anticipo sulla proiezione in programma e, quasi furtivo, sfiorò le nuove poltrone, i corrimani, guardando il vasto spazio della nuova sala con affetto, quasi un padre verso il figlio. Poi si sedette un po’ discosto osservando il pubblico, soprattutto giovani data l’ora, che entrava numeroso, e sorrise contento di vedere come l’interesse per il cinema, questa sua grande passione, continuasse a vivere nelle nuove generazioni.
Lo incontrai altre due volte. La prima all’anteprima per la critica in una saletta al secondo piano dell’Hotel Excelsior, dove al mattino si incontravano i giornalisti con gli attori e i registi, mentre alla sera vi era una proiezione solo per gli addetti ai lavori. Il film era “Aliens – Scontro finale” . Arrivò pochi minuti prima della proiezione. Non c’era più posto, la saletta era gremita all’inverosimile. Gli portarono una sedia della vicina sala che posero nel corridoio all’ingresso di una della porte. Si accomodò e da lì guardò il film. Ebbi modo di salutarlo.
La seconda in occasione della proposta di organizzare un grande festival del cinema a Trieste. Ne parlai con l’allora sindaco di Trieste Richetti e con il deputato Coloni, che in un primo momento sembrarono favorevoli, poi nascosto ai due, li sentii mormorare qualcosa sulla guerra di correnti della DC e capii che come al solito nulla si sarebbe concretizzato.
Rondi si era dimostrato disponibile all’evento, da collocare in coda alla Mostra di Venezia, in modo da sfruttare l’immagine dell’avvenimento e il flusso dei critici colà riuniti. Con rammarico gli comunicai la falsa disponibilità dei politici locali e lui, con signorilità non commentò la notizia e mi ringraziò per quanto avessi tentato.

Gianluigi Rondi con Gina Lollobrigida a Venezia

Da quando si interessa alla Biennale?

Ho legato il mio nome alla Mostra di Venezia esattamente dal 1948 quando ho cominciato ad essere presente come membro della giuria. Poi sono stato membro della commissione esperti, Commissario per la Mostra del cinema, quindi Direttore della Mostra, membro del Consiglio direttivo della Biennale, Presidente della giuria nell’ultima edizione di Guglielmo Biraghi e adesso sono stato eletto Presidente, quindi sono 45 anni dedicati, abbastanza dall’interno, all’evoluzione prima di tutto dal punto di vista cinematografico, che si esplica attraverso la Mostra del cinema poi alla Biennale come studio dei problemi dell’Ente.

Ha conosciuto molti registi, attori?

E’ chiaro che in tutti questi anni, soprattutto rimanendo a contatto della Mostra del cinema, per la Mostra viaggiando, e seguendo come critico cinematografico i maggiori festival internazionali, ho finito con il conoscere il mondo del cinema. 45 anni sono lunghi. Conoscere, ma anche avervi in mezzo degli amici. E’ una lunga lista e non sarebbe facile elencargliela. Certamente quelli che sono stati più incisivi nella mia esistenza sono, in Italia, Federico Fellini, tutt’oggi legato a me da una dimestichezza anche di abitudini molto profonde, poi agli inizi Rossellini, De Sica, Blasetti e Visconti, ciascuno per un motivo o per un’altro collegato sia alla mia professione che ai miei interessi.

Quello che ricorda di più?

Blasetti era l’unica persona che mi chiamava figliolo. Quando lo persi, ricordo di aver scritto “adesso per me comincia la vecchiaia, ero figlio fino a qualche tempo fa, papà l’avevo perso molti anni prima, e adesso non ho più nessuno che mi da un segno di giovinezza chiamandomi figliolo”.

Claudia Cardinale e Gianluigi Rondi

Altri?

De Sica. Sono stato assieme a lui in molte battaglie, soprattutto agli inizi della sua carriera, quando i produttori non sostenevano il neorealismo. Rossellini posso dire che è stata la persona di cui ho fatto per anni la mia bandiera, anche perché come cattolico Rossellini rappresentava all’interno del neorealismo quella corrente cristiana che sentivo più vicina a me e più volentieri difendevo, anche dagli attacchi di quelli che preferivano un neorealismo di impostazione marxista.

E all’estero?

Pensi un po’ quanto sono stati lunghi i rapporti, che ancora oggi rimangono, almeno con gli auguri di Natale, con Ingmar Bergman, e addirittura, in tutto un altro mondo, con Akira Kurosawa.
In Francia, che è una specie di mia seconda patria, perché sono sposato con una francese, ho figli e nipoti francesi, ho coltivato soprattutto la grande e paterna amicizia di Renè Clair.

Quando dirigevo la Mostra nel 1971-72 e dopo, nell’altro quadriennio, egli è stato sempre presente, fisicamente, oppure, morto, moralmente, con la grande retrospettiva che gli ho voluto dedicare in occasione di una delle mie Mostre. Ma metta anche Marcel Carnè, con il quale ho spesso ancor oggi delle lunghe telefonate di saluto e di simpatia e al quale ho dato di recente un premio alla carriera.

Altri?

Metta anche il compianto Clouzot e, ancor oggi, Renè Clement, poi praticamente tutti i miei legami con il cinema tedesco. Nel 1973, essendo direttore degli Incontri di Sorrento, ho dedicato al giovane cinema tedesco, di cui oggi tutti parlano, ma di cui allora non parlava nessuno, una settimana riepilogativa, dove vennero persone oggi celebri, allora ignote, come Wim Wenders, Volker Schlndorff, Werner Herzog, Alexander Kluge, che ebbero un tale successo, e da quel momento una tale possibilità di penetrare nel mercato cinematografico italiano, che qualche anno dopo Schlndorff, ricevendo la Palma d’oro al Festival di Cannes per il suo Tamburo di latta, dichiarò, incontrandomi nella Croisette assieme ad un gruppo di giornalisti: “Vedete, questa Palma d’oro la devo a Rondi. Noi registi tedeschi non eravamo nessuno e grazie al suo Festival abbiamo potuto essere conosciuti e oggi sono qui a conquistare il primo premio a uno dei maggiori festival cinematografici europei”.

Gianluigi Rondi con Ingrid Bergman

I più cari ?

Parliamo anche di amicizie più private e personali. L’amica che mi è stata più cara, e che più ho pianto quando l’ho perduta, è stata certamente Ingrid Bergman, alla quale fui vicino dal 1949, quando venne in Italia per incontrare Rossellini per Stromboli. L’ho seguita attraverso le sue vicissitudini private coniugali.
Quando lasci l’Italia la rividi tanto negli Stati Uniti quanto a Londra, dove si era ritirata a fare teatro negli ultimi anni della sua vita. Seguendola da vicino in occasione della sua malattia, e dedicandole proprio nel 1980 una lunga trasmissione televisiva, su Raiuno, di otto, nove film, che lei accettò di far precedere da una lunghissima intervista sulla sua vita. Andai a registrarla a Londra e credo le servì da pretesto, da occasione per confidarsi, e per dividere un po’ quelli che erano stati i problemi della sua vita, nelle varie categorie cronologiche in cui si erano proposti, concludendo poi a me in privato: “Gian Luigi non sono mai stata felice”. Perché, in realtà, al vertice della gloria, con dei bei figli, che l’hanno amata e che ha amato, pieni anche di successi personali, i suoi problemi e la sua necessità di esprimersi, il suo travaglio di dividersi tra la carriera e la vita privata non riuscii mai ad essere pienamente risolto, e perciò non le diede mai una vera felicità.

Qualcun altro?

Un’altra amica, Gina Lollobrigida, la cui amicizia continua tutt’ora e si intensificata in occasione di molti viaggi all’estero fatti insieme. Non perché avessimo voglia di viaggiare, ma perché a quell’epoca esisteva l’Unitalia Film, che era un organismo promozionale del cinema italiano all’estero, e fra i vari mezzi di questa promozione c’erano delle settimane all’estero di film italiani. In quelle occasioni oltre ai film si portavano registi, attori, attrici e anche critici. Ebbi modo di fare con Gina uno splendido viaggio in Asia che ci portò, dopo Bangkok, Singapore e Hong-Kong, anche a Tokio. E uno splendido viaggio in centroamerica che ci portò in Messico e poi in Sudamerica a Rio De Janeiro, dove ritornammo nuovamente perché lei aveva lasciato un così buon ricordo, in occasione della manifestazione cinematografica, che venne chiamata come “regina del carnevale”, ed io le feci da “principe consorte”. Accompagnandola, dovetti mascherarmi, tutte cose che non corrispondono al mio modo di vedere. Ho delle fotografie curiose con delle grandi piume di struzzo in testa, vicino a lei incoronata “regina del carnevale”. E’ veramente uno dei ricordi più variopinti della mia esistenza.

Gina Lollobrigida con Gianluigi Rondi, Venezia 1972

Dei più giovani cosa mi dice?

Parliamo di quelli che sono venuti dopo la generazione di Visconti, di De Sica, di Rossellini. Oggi il mio mito, tutti lo sanno, sono i fratelli Taviani. Ho approfittato della mia presenza alla Mostra di Venezia, per dare loro il Leone d’oro alla carriera. Non era mai stato dato a due autori così giovani, poi fratelli come sono, quindi due Leoni assieme. Ho sempre esaltato la loro opera e continuo ad essere considerato il loro fan. Ho il privilegio di essere sempre il primo a vedere i loro film, da solo in una saletta, con loro che, subito dopo, vengono a chiedermi il parere, dicendomi che da questo mio parere che si sentono tranquilli sulla carriera riservata al loro film.

Ci dice qualcosa dei recenti problemi alla Biennale?

Più che un’opposizione diretta alla mia nomina, tant’è vero che molti giornali, sulla qualificazione, sulla professionalità di Rondi, non hanno nulla da dire, sono scontenti del modo in cui sono stati nominati i consiglieri della Biennale. Non condivido queste critiche nei confronti dei miei colleghi.
La Biennale deve essere composta nel suo gruppo dirigente, il consiglio direttivo, da personalità che sono elette dagli enti locali veneziani, dall’assemblea del personale, e dalle confederazioni sindacali, e da tre persone nominate dal Presidente del Consiglio. Io sono nominato dal Presidente del consiglio, lo ero anche nel precedente quadriennio, quindi un’obiezione sui modi della mia nomina non è stata fatta. E’ stata fatta nei confronti di alcuni colleghi perché, si è detto, gli enti locali non hanno tenuto conto fino in fondo dello statuto della Biennale che chiede loro di nominare personalità della cultura. Di nominarle sulla base di elenchi che le associazioni culturali italiane forniscono agli enti locali. Ora questo dura dal 1973. Sono stati nominati anche dei politici, tant’è vero che alcuni sono diventati presidenti, come Ripa di Meana, come il professor Giuseppe Galasso che è uno storico, ma anche un politico, iscritto al partito repubblicano dove ha fatto una grandissima carriera.
Nell’attuale consiglio ci sono, più che dei politici puri, degli amministratori, i quali servono anche loro. Perché la mia teoria e che il consiglio direttivo della Biennale non un Comitato scientifico, un gruppo di amministratori. Ora bene che ci siano degli uomini di cultura, però, soprattutto con i difficili tempi di oggi, c’è bisogno di oculati amministratori. E’ vero che la gestione giuridico-amministrativa dell’ente del segretario generale e del direttore amministrativo, per chi vota, e risponde dell’attività dell’ente in campo amministrativo, il consiglio direttivo, il quale un vero e proprio consiglio di amministrazione.

Carla Fracci con Gianluigi Rondi

Pretendere per questo consiglio unicamente degli intellettuali puri è anche rischioso per il buon andamento dell’ente. Invece si fatta polemica che non ci fossero solo intellettuali puri, poi siccome gli enti locali sono rappresentati da consigli, provinciali, regionali, i quali, eletti dal popolo in liste di partiti politici sono, ovviamente, espressione dei partiti politici, questo per legge, si è detto, inventando questa parola tanto sgradevole oggi di moda, che queste nomine erano lottizzate, in quanto partivano, ma era per legge, da partiti politici che sedevano negli enti locali con loro rappresentanti democraticamente e legittimamente nominati. Ora io nego anche questa lottizzazione, non posso però negare che oggi anche gli intellettuali appartengono ad aree, io non sono un democristiano, però sono un cattolico, quindi riconosco l’area cattolica come quella di mia appartenenza. Allora di altri si è detto di area liberale, di area socialista, e in questo senso hanno voluto costruire tutto questo meccanismo di accuse e di critiche, scoprendo, all’improvviso, quelli che loro consideravano guasti di un sistema che dura dal 1973. Se questo sistema ha finito per rivelare dei guasti, ecco perché già dal 1988 la Biennale si era preoccupata di preparare una riforma dello statuto. Questa riforma la stanno studiando anche i due ministri competenti, che sono i Beni culturali e lo Spettacolo.
Un disegno di legge stato già mandato in Senato, una corsia preferenziale. Mi sembra che a questo punto le polemiche dovrebbero cessare, invece non cessano perché quando si agitano i polveroni poi molto difficile far scomparire la polvere. Mi auguro che di fronte alla buona volontà di tutti, anche dei ministri che hanno preparato questa riforma, di fronte ai partiti che stanno studiando a loro volta delle riforme parallele, vedi il Pds, di fronte alla stessa Biennale, che ha continuato la sua opera di riformazione, e ha preparato una serie di emendamenti da inoltrare ai due ministri – e io stesso li ho portati a nome della Biennale – insomma si vede che la volontà di cambiare c’è. Si deve per constatare, insisto, che tutto quello che accaduto non accaduto in violazione della legge, ma in stretta applicazione della legge che gestisce la Biennale.

Gianluigi Rondi con Federico Fellini

Cosa pensa del futuro del cinema italiano?

Il cinema italiano ha bisogno di una nuova legge, perché la 1213 ci regge da una ventina di anni, e abbiamo visto quante difficoltà incontra la sua applicazione. La nuova legge, che va sotto il nome di legge Boniver, ma ha cominciato ad essere predisposta con Lagorio e poi passata a Tognoli, allo studio. La situazione parlamentare italiana quella che tutti conoscono, se queste leggi non riescono ad arrivare rapidamente al traguardo perché il parlamento ha molti altri problemi. Per insisto nel dire che il cinema italiano ha bisogno di una nuova legge perché altrimenti le attuali strutture che lo governano sono le meno adatte ai tempi nuovi, soprattutto di fronte alla concorrenza televisiva, del cinema americano, alla diminuzione della capacità di mercato. E’ un dato di fatto che le sale si vuotano e si chiudono, quindi c’è da porre dei rimedi. Devo dire che il testo di legge che la Boniver ha mandato in parlamento mi sembra buono, vi hanno lavorato tutte le forze politiche, vi hanno partecipato tutte le forze culturali, autori, critici, tecnici, produttori, quindi c’è da sperare bene.

E culturalmente?

Dal punto di vista economico vi è la crisi, dal punto di vista culturale nego che vi sia mai stata una crisi nel cinema italiano perché quanto di più vitale e fertile si possa dare. Noi abbiamo i migliori autori, imprenditori, tecnici e attori, quindi non abbiamo sentito la crisi se non come contraccolpo dovuto alle complicazioni economiche cui andata soggetta la nostra industria. Non c’è film che non sia applaudito all’estero, non c’è un autore che non abbia premi, e non abbiamo solo Fellini, di cui sono felice di veder festeggiato presto un quarto Oscar, abbiamo anche autori una generazione più giovane. Ciascuno si propone con le sue qualificazioni ovviamente i Taviani, Bertolucci, Scola, ma poi arrivando ai più giovani, anche Moretti.

Note

L’anno dell’intervista credo fosse il 1980, l’articolo uscì con alcuni interventi di redazione sul quotidiano “Trieste Oggi”. Qui è riportato nella sua forma originale.

Il film che vedemmo alla Mostra del Cinema di Venezia era “Aliens – Scontro finale” (Aliens, USA, Gran Bretagna, 1986) di James Cameron. Con Michael Biehn, Sigourney Weaver, Paul Reiser, Lance Henriksen, Carrie Henn. Fantascienza, durata 132 min.

I criteri della bellezza

Le misure della bellezza
di Enzo Kermol

Volti giapponese e caucasico perfettamente simmetrici

Molti studi dimostrano che lo standard di “bellezza media” supera i criteri di appartenenza etnica e si impone a livello transculturale. Pollard (1955), utilizzando volti appartenenti a sei donne di origine etnica differente, creò un volto femminile composto dalla sintesi dei sei volti originari. Queste sette immagini furono sottoposte al giudizio di studenti nigeriani, cinesi, indiani e neozelandesi che valutarono il “volto medio” come quello maggiormente attraente.
Quale meccanismo porta a considerare un volto medio attraente?
Alcuni autori ipotizzano che la preferenza per il volto medio sia collegata alla familiarità, altri ritengono che esistano componenti universali, indipendenti dalla maggiore o minore familiarità. Grammer e il suo gruppo di ricerca (2002) costruì il volto e il corpo medio di donne americane (bianche e nere) e giapponesi. Il campione “valutatore”, composto da americani e giapponesi, giudicò l’immagine media la più attraente tra le altre componenti. I risultati di questo esperimento portarono alla conclusione che i principi di base della percezione della bellezza devono essere considerati universali. La tecnica della media digitale (Averaging) presenta alcuni artefatti da tenere in considerazione come il fatto che la media dei pixel porta alla scomparsa di ogni imperfezione della pelle, ad un colorito estremamente omogeneo e il volto risulta perfettamente simmetrico. Da questo si deduce che il volto medio è considerato attraente per l’assenza di ogni imperfezione dermatologica e non tanto per il fatto di essere medio. Inoltre, se i volti originari non sono attraenti, il volto medio non risulta un esempio di bellezza, il processo di media a volte non basta.
La teoria del volto medio presenta alcuni limiti: se il volto medio è giudicato attraente, non è detto che sia il più attraente. Forme che esulano dall’ordinario possono attrarre di più rispetto a forme ottenute da una media; analizzando volti molto attraenti ci si accorge che ciò che li contraddistingue è un tratto esagerato o enfatizzato rispetto alla media della popolazione, quindi il ruolo dell’esagerazione risulta molto importante nella determinazione della bellezza. Da questi ragionamenti si arriva al concetto di “stimolo supernormale”, ovvero, uno stimolo che supera in una dimensione uno stimolo biologicamente normale evocando una risposta maggiore. Lo stimolo supernormale accentua le caratteristiche distintive permettendo una migliore identificazione, entro certi limiti. Se, ad esempio, si accentuano troppo certe caratteristiche fisiche (grandezza degli occhi, forma delle labbra, …) non percepiamo più un volto attraente, bensì uno deforme. Prestando attenzione a non superare certe soglie, gli stimoli supernormali consentono di esprimere in maniera forte ed efficace messaggi altrimenti deboli e poco efficaci.
Un esperimento condotto da Costa e Corazza (2006) su un gruppo di studenti dell’Accademia di Belle Arti ha dimostrato l’effetto della creazione di stimoli supernormali nei ritratti artistici. Agli studenti veniva chiesto di disegnare un autoritratto a memoria e uno davanti ad uno specchio. Confrontando i ritratti con le fotografie del volto degli studenti, è risultato che i soggetti tendevano a modificare le componenti del volto per migliorarne l’aspetto estetico. Gli occhi venivano ingranditi e arrotondati, il naso assottigliato, le labbra più rotonde ed alte; la parte inferiore del volto veniva affusolata, resa più lunga e meno rotondeggiante rispetto al reale. In generale, in tutta la storia dell’arte vi è stata una tendenza degli artisti ad aumentare le dimensioni degli occhi, la carnosità delle labbra e ad affusolare la parte inferiore del volto. Anche per quanto riguarda la raffigurazione del corpo si trovano operazioni di perfezionamento che portano, nella ritrattistica femminile, al raggiungimento di quelle dimensioni che sono vicinissime alla sezione aurea, ovvero, 90:60:90.

Bellezza standard, tratti biologici comuni

Tipologie della bellezza: maschile, femminile e infantile
Il volto maschile, per essere giudicato bello, deve possedere un giusto miscuglio di tratti maschili (zigomi alti, mascella robusta, muscolatura mascolinizzata) e tratti femminili (occhi grandi, naso piccolo, labbra pronunciate).
I volti femminili si preferiscono quando i tratti femminili sono esagerati. Il volto ha un valore estetico più elevato nell’uomo piuttosto che nella donna. Questa affermazione è giustificata dal fatto che negli spot il volto dell’uomo è mostrato nel 65% dei casi, mentre per la donna si tende ad enfatizzare il corpo che compare nel 55% dei casi (Archer, 1983). Questa disparità può essere spiegata con il fenomeno del “faccismo”, termine utilizzato per tradurre l’espressione inglese “face-ism”. Tale fenomeno si riferisce all’attribuzione di qualità positive (bellezza, ambizione, dominanza, intelligenza, cultura) alle persone che sono inquadrate in primo piano, e al fatto che gli uomini vengono rappresentati dai media in tale modo molto più delle donne.
Il faccismo presenta un indice variabile da zero (l’immagine non rappresenta la faccia) ad un massimo di uno (la fotografia rappresenta solo la faccia); per quantificare il grado di faccismo, si calcola il rapporto fra altezza del volto e altezza della parte di persona che viene rappresentata. L’inquadratura stimola reazioni psicologiche: Archer (1983) ha dimostrato che individui, maschi o femmine, fotografati in primo piano sono valutati come più intelligenti, attraenti, ambiziosi, di quelli inquadrati in piani più distanti. Nella televisione d’oggi, ad esempio nei programmi di intrattenimento, l’uso del primo e del primissimo piano è frequentissimo. Ciò coinvolge emotivamente lo spettatore in maniera molto forte, come se si trovasse ad una distanza intima dalla persona inquadrata, di gran lunga maggiore di quella consentita dalle regole sociali verso un estraneo.
La figura intera, al contrario, corrisponde ad un rapporto distanziato, oggettivo. In generale, i piani ravvicinati hanno una maggiore valenza emotiva se confrontati con quelli più distanti.
Tratti infantili presenti in volti adulti possono essere valutati molto positivamente perché associati a caratteristiche di tenerezza. Dall’altra parte, volti che presentano tratti più maturi sembrano più dediti ad esercitare potere. Nel contesto di leadership, il giudizio di bellezza di un volto maschile o femminile viene effettuato in base a meccanismi differenti che chiamano in gioco tre elementi fondamentali: l’autorità (dominanza e competenza), la disponibilità (simpatia e calore) e il carisma (fascino ed influenza).
Per gli uomini, l’aspetto dominante favorisce l’assunzione di posizioni di potere e responsabilità; per le donne, invece, il carisma si può identificare sia nei lineamenti più infantili del volto, che nei lineamenti più maturi. L’importante è che aspetto e comportamento siano il più possibile coerenti. Se, per l’uomo, sono già stati identificati i tratti del volto legati alla capacità di influenzare la percezione nel campo sociale, ciò non è ancora accaduto per la donna: le strategie usate in questo campo dalla donna sono molteplici, coinvolgendo segnali di sottomissione e fragilità, come di dominanza e forza.

Le due tipologie di volto maschile preferite dalle donne in base al ciclo di ovulazione

Bibliografia
Archer D., Iritani B., Kimes D., Barrios M. (1983), “Faceism: five studies of sex-differences in facial prominence”, Journal of Personality an social Psychology, 4 (45), 725-735.
Costa M., Corazza L. (2006), Psicologia della bellezza, Giunti Editore S.p.A.
Grammer K., Thornhill R. (1994), “Human (Homo sapiens) facial attractiveness and sexual selection: The role of symmetry and averageness”, Journal of Comparative Psychology 108, 233-242.
Grammer, K., Fink, B., Juette, A., Ronzal, G., Thornhill, R. (2002), Female faces and bodies: N-dimensional feature space and attractiveness. In G. Rhodes & L. A. Zebrowitz (Eds.), Advances in visual cognition, Vol. 1. Facial attrativeness: Evolutionary, cognitive, and social perspectives (pp. 91-125).
Grammer K, Fink B, Møller A.P, Thornhill R., “Darwinian aesthetics: sexual selection and the biology of beauty”, Biol. Rev, 2003;78:385–407.
Pollard J. S. (1995), “Attractiveness of composite faces a comparative study”, International Journal of Comparative Psychology, 8, 77-83.

Il corpo bello e sano

Bellezza e Indice di Massa Corporea (IMC)

di Enzo Kermol

L’attrice Denise Richards

Mouches (1994) ha condotto una ricerca sui gusti degli uomini e delle donne in termini di silhouette femminili. Agli esaminati venivano presentati disegni di profili della stessa altezza, ma di peso variabile. L’unità di misura era l’Indice di Massa Corporea (IMC) ottenuto dividendo il peso (Kg) per il quadrato dell’altezza (m). Un IMC compreso tra 18,5 e 24,9 è considerato normale, uno inferiore a 18,5 è indice di sottopeso, uno compreso fra 25 e 29,9 indica un leggero sovrappeso, un IMC superiore a 30 segnala obesità. I risultati hanno evidenziato che gli uomini preferivano donne con IMC di 20,4, mentre le donne gradivano silhouette più minute, con IMC di 19,3 ca.
L’IMC è considerato un criterio di valutazione della bellezza corporea molto importante, ma viene applicato solo quando si tratta di corpi femminili. Per giudicare un corpo maschile invece si fa riferimento al rapporto tra la larghezza delle spalle e quella della vita (vita stretta e spalle larghe).
Singh (1993) ricercò le caratteristiche che rendono attraente un corpo femminile agli occhi dell’uomo. Su un campione di uomini tra i 18 e gli 86 anni, emerse che gli uomini preferivano donne con rapporto seno/vita e vita/fianchi attorno a 0,7, valore vicinissimo al rapporto aureo. D’altra parte, donne con rapporti disarmonici venivano considerate non attraenti, anche se dotate di seni prosperosi. Un’indagine successiva condotta da Henss (1995) giunse alla conclusione che solo donne con un rapporto vita/fianchi compreso fra 0,7 e 0,8 erano giudicate attraenti, sia nel caso di un giudice maschio che di uno femmina. Questo rapporto è massimizzato da una particolare postura che prevede il formarsi di una linea spezzata con il corpo. Ogni segmento di questa linea ha una direzione inversa rispetto al precedente: se, ad esempio, le gambe sono oblique verso destra allora il busto è inclinato verso sinistra e la testa nuovamente verso destra.

L’attrice Marilyn Monroe

Il giudizio delle donne nei confronti del proprio corpo risulta molto severo. Se fino ai 7 anni le bambine accettano il proprio aspetto fisico, più o meno serenamente, con l’avvento dell’adolescenza il giudizio di accettazione tende a deteriorarsi. In questo periodo della vita circa il 60% si considera in sovrappeso e solo il 20% si dichiara soddisfatta del proprio corpo. Con il trascorrere del tempo si nota un peggioramento di questa percezione negativa del proprio aspetto e, permanendo per lunghi periodi può causare disturbi psicologici in ambito occupazionale e sentimentale.
Per le donne il benessere del proprio corpo è sostenuto da un rapporto vita/fianchi inferiore a 0.8. Quindi abbiamo il rapporto vita/fianchi come segnale di salute fisica. Alcuni studi di Buss e Barnes (1986) hanno messo in luce come le persone attraenti vengano giudicate con una salute migliore di altre dall’aspetto meno gradevole. Tuttavia questi risultati sono la conseguenza dello stereotipo “bello e sano” e dell’effetto “alone” del quale godono le persone attraenti, piuttosto che un reale legame bellezza-salute. Una significativa e reale correlazione tra salute e bellezza si ha nel caso in cui per salute fisica si intendono caratteristiche come forza, resistenza, affaticamento ridotto come dimostrato da Cronin, Spirduso, Langlois e Freedman (1999).

L’attrice Esther Williams

Bibliografia
Buss D. M., Barnes M. (1986), “Preferences in human mate selection”, Journal of Personality and Social Psychology, 50, 559-570.
Cronin D. L., Spirduso W. W., Langlois J. H., Freedman G. (1999), Health, physical fitness, and facial attractiveness in older adults, manoscritto non pubblicato.
Henss R. (1995), “Waist-to-hip ratio and attractiveness. Replication and extension”, J. of Personality and Individual Differences, 19, 479-488.
Mouches A. (1994), “La raprésentation subjective de la silhouette fèminine”, Les Cahiers Internationaux de Psychologies Sociale, 4 (24),76-87.
Singh D. (1993), “Body shape and women’s attractiveness: The critical role of the waist-to-hip ratio”, Human Nature, 4, 297-321.
Singh D. (1993), “Adaptive Significance of Female Physical Attractiveness: Role of Waist-to-Hip Ratio, Journal of Personality and Social Psychology, 65, 293-307

Cinema e politica

La percezione del “politico” attraverso il media cinematografico

di Enzo Kermol

quarto potere

Quarto potere (Citizen Kane, Usa, 1941) di Orson Welles

Il cinema si e sempre prestato a divenire fecondo campo d’azione per l’analisi della società in cui è stato prodotto. Al suo interno qualsiasi categoria di “personaggio” può essere utilizzata per analizzare il sistema sociale descritto da quella singola opera, o meglio da quel gruppo rappresentativo di pellicole prodotto in un determinato periodo di tempo. Se osserviamo alcune figure ricorrenti all’interno dei film possiamo tracciare un percorso sia storico-filmografico che di evoluzione o cambiamento della percezione collettiva rispetto a quel determinato ruolo nel contesto sociale.

Varie categorie sono state esaminate con accuratezza (come gli psicologi[1] o i divi[2]) altre, ad esempio i gangster[3], hanno avuto minor fortuna nel divenire soggetto di studio ed altre ancora sono state volutamente o casualmente tralasciate. La categoria del “politico” e una di queste. Il termine è naturalmente estremamente generico, ma permette un primo approccio ai caratteri formativi di questo insieme di personaggi relativamente diffuso sullo schermo.

La prima suddivisione sarà di carattere geografico e temporale.  I film prodotti in ogni Stato hanno caratteristiche diverse, cosi come gli stessi personaggi che di decennio in decennio mutano le qualità specifiche intrinseche del loro essere nel cinema.

La seconda suddivisione riguarda i generi in cui si ritrova il “personaggio” esaminato, la collocazione storica del film (coevo alla pellicola, precedente di alcuni anni o spostato di secoli) e la durata di permanenza nella narrazione, cioè quale importanza riveste ai fini del soggetto originario del film. Il “politico” di per se è un personaggio di difficile definizione per la sua stessa natura di “sovrapposizione” ad altri con  caratteristiche professionali o di comportamento ben più rilevanti. Nella definizione dei caratteri delle figure tipizzanti un genere  e  possibile  isolare  le caratterizzazioni  dei personaggi dandogli connotati solidi,  che possono  mutare  nel corso degli  anni, mantenendo però una riconoscibilità immediata atta ad indicare il “ruolo” ricoperto da quella particolare “maschera”.

The Birth of a Nation

La nascita di una Nazione (The Birth of a Nation, Usa, 1915) di D.W. Griffith

Il “politicante” western

Nel  genere  western lo sceriffo, il pioniere, i soldati  a cavallo, l’indiano  rappresentano,  cosi come tanti  altri personaggi,  una struttura fondante per il genere,  difficilmente trasferibile  ad un altro contesto. Tuttavia alcune  particolari figure  possono tracciare un ideale legame con altre analoghe in generi dissimili. Cosi accade per alcune figure, come lo  sceriffo  del western  che può  avere una “parentela” con il poliziotto  del  noir, mentre altre, come il cowboy  o l’indiano, sono  indissolubilmente legate al genere specifico. Diversamente da tutte le altre figure quella  del “politico” attraversa i generi e le epoche con pochi mutamenti, anche  se permane,  proprio per questa sua duttilità, un  legittimo dubbio sulle reali caratteristiche del soggetto da definire o piuttosto, potremmo dire, sulla sua evanescenza e superficialità. Nel western viene subito  indicato come “politicante”[4] ed e perciò spesso considerato  negativamente.  Non a caso viene collocato a mezza strada fra personaggi “rudi” (come il cow-boy, il cercatore  d’oro, il  boscaiolo)  e i fuorilegge, accentuando cosi la  vaghezza  di caratteri comuni nella figura del politico da un film all’altro ad eccezione della sua stessa definizione di copertura di ruolo sociale. Tuttavia esiste una dicotomia nel modo di rappresentarlo segnata dalla posizione, antitetica,  esistente fra il politico corrotto e l’idealista. In  Alba  di  gloria (Young Mr. Lincoln, Usa, 1939,  di  John  Ford) vediamo Henry  Fonda  (il  futuro presidente Abraham Lincoln) destreggiarsi in un processo in cui trionfano i “valori” rispetto agli “interessi”. Analogamente abbiamo il  politico dal “volto umano” che si preoccupa  delle  minoranze indiane in Il grande sentiero (Cheyenne Autumn, Usa, 1964, di John Ford con Richard Widmark) Edward G. Robinson (Carl Schurz, segretario  agli interni) e ancora Kent Taylor in Far West (A  Distant Trumpet, Usa, 1964, di Raoul Walsh).

Young Mr. Lincoln

Alba di gloria (Young Mr. Lincoln, Usa, 1939) di John Ford

Alle  volte  la  dicotomia  fra libertà  e  civiltà porta il “politico” alla  rinuncia  delle cariche per lanciarsi nell’avventura, come  Glenn  Ford in Cimarron (id., Usa, 1960, di Anthony Mann) o per riaffermare il  propri valori rispetto al degenerare della società, come Don  Murray in  Il re della prateria (These Thousand Hills, Usa,  1958,  di Richard Fleisher), che abbandona la  carriera  politica  per poter affrontare in duello il suo nemico.

Molto spesso la politica ha il solo scopo di mascherare  attività svolte al  di  là  della legge, come in Texas  Express in cui David  Brian acquista a basso costo i terreni su cui transiterà la ferrovia in costruzione, o serve a giustificare antichi rancori, come in Non si può continuare  ad uccidere (The Man from Colorado, Usa, 1947, di Henry Levin) dove Glenn Ford, ottenuto il nuovo incarico di giudice, si vendica  di quanti  lo  avevano tradito passando nelle file degli avversari facendoli impiccare. Ancor peggio abbiamo Lon  Chaney yr. in Lo sperone nero (Black Spurs, Usa, 1965,  di Robert  G. Springsteen) che incarna colui che si e arricchito con  la costruzione delle ferrovie senza badare a scrupoli morali utilizzando la copertura della politica.

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Soldati a cavallo (The Horse Soldier, Usa, 1959) di John Ford

Ben delineata l’ipocrisia del politico in  Soldati  a cavallo (The Horse Soldier, Usa,  1959,  di John  Ford)  con  John Wayne al comando di una difficile missione.  Willis  Bouchey  (colonnello Phil Secord)  interpreta  un politico che riveste  temporaneamente  un grado  militare.  Il  suo unico  pensiero  durante  la  difficile operazione in territorio nemico  e  quello  delle ripercussioni  sulla campagna elettorale in cui  si presenterà per  la carica di governatore. Falsità, arroganza, pressappochismo, vigliaccheria, tutto quanto vi è di negativo nell’epopea del West lo incarna il “politico” di turno.

Ed ancora, in I ribelli del Kansas (The Jaywalkers, Usa, 1959, di  Melvin Frank) Jeff Chandler ha come desiderio primario ripetere a modo suo le gesta di  Napoleone (un illustre predecessore nella categoria dei “politici”) dapprima terrorizzando la popolazione del Kansas e quindi proponendosi come il salvatore dello Stato.

L’uomo  che uccise Liberty Valance (The Man Who  Shot  Liberty Valance,  Usa, 1962) di John Ford è un esemplare ritratto di un politico positivo, James Stewart (senatore Ransom Stoddard), della sua vita e della sua carriera dettata dalla lotta contro la brutalità e l’illegalità. Ma, come insegna Ford, dietro l’apparenza pubblica di una carriera “facile” vi è l’opera di un onesto cittadino, John Wayne (Tom Doniphon), che veglia sull’operato e ne diviene coscienza critica. Evidente simbolizzazione della visione  del regista (e non solo) sulla difficile gestione di una politica corretta. Altro esempio di scontro tra i due volti della politica lo ritroviamo nell’ambientazione elettorale di  Il giudice (Judge Priest, 1934) di John Ford con  Will Rogers (giudice William “Billy” Priest, candidato) e soprattutto nel quasi remake Il sole splende alto (The Sun Shines Bright, 1953) sempre di John Ford  con  Charles  Winniger  (giudice  William  Pittman  Priest, vincitore  delle  elezioni),  Milburn  Stone  (Horace  K.  Maydew, “politicante”) in cui attraverso lo scontro fra due opposte concezioni di vita, simboleggiate dai due protagonisti, traspare “l’abisso esistente fra i bisogni dell’individuo e la capacità della società di soddisfarli”[5].

I ribelli del Kansas

I ribelli del Kansas (The Jaywalkers, Usa, 1959) di Melvin Frank

Attraverso la storia

Dalla disamina di un unico genere, il western,  sorge prepotentemente una richiesta. Qual è l’esatta definizione di “politico” e chi sono i personaggi  che  si possono definire tali. Evidentemente si tratta di una risposta  difficile.  Non  ci  aiuta  certo  la  definizione   dal dizionario,  che  vede la politica come la “teoria e  pratica  che hanno per oggetto la costituzione,  l’organizzazione, l’amministrazione dello Stato e la direzione della vita pubblica”[6] e nel politico colui che e connesso a tali attività. Cosi diventa possibile attribuire la qualifica a qualsivoglia personaggio in senso estensivo e, al contempo, negarne altri la cui evidenza appare palese. E’  giusto dire  che è  un politico il giovane Lincoln  prima  di  divenire presidente o coloro che stanno svolgendo una campagna  elettorale di dubbio successo, cosi come i generali che conducono la  guerra esercitano  un  governo militare e quindi (da  Grant  a  Eishenawer) divengono presidenti o ricoprono altri incarichi istituzionali. E i  nobili,  re e regine (ad esempio Maria di  Scozia  (Mary  of Scotland, Usa, 1936) di John Ford con Katharine Hepburn nel ruolo della regina) o i dittatori  (Mussolini e Hitler si ritrovano  in quasi  tutti i film sulla seconda guerra mondiale,  Napoleone  in quelli sul primo ottocento). Evidentemente anche i condottieri  e i  senatori della Roma antica erano politici, ma ciò  indica  che interi   generi,  come il  “peplum” contengono tali figure. Estendendo a dismisura le caratteristiche di questo “personaggio” ci si potrebbe trovare nella stessa situazione della figura della “donna”  la cui definizione all’interno di particolari generi  ha una funzione precisa (ad  esempio  nel  western,  nel  poliziesco, nell’erotico)  ma  assunta  come  figura  generale  porterebbe semplicemente ad un lungo elenco senza significato di quasi tutti i film prodotti. Il  “politico”  ha  dunque  bisogno di  una  definizione  che  ne permetta di maneggiare la materia senza debordamenti e con facile distinguibilità.   Il   personaggio  va  dunque limitato   nel   tempo, dall’ottocento in poi per una sorta di coerenza  comportamentale, specialmente  per  il  cinema statunitense,  altrimenti  anche  i prelati (cardinali come Mazzarino e Richelieu sono “politici”) prende   in  considerazione  solo  incarichi  elettivi   che   ne caratterizzino  l’esistenza  (negli  Usa però  anche  sceriffo  e giudice  sono  eletti) e non marginali,  di  personaggi  illustri si analizzano anche  le  vite  precedenti  all’insediamento  nella  carica  più prestigiosa  (Kennedy,  Lincoln, Grant,  Eisenhawer)  ed  infine, specialmente per il cinema italiano, si focalizza l’attenzione sul periodo  di maggior  produzione di film aventi il “politico” come protagonista, ed infine si esaminano più  approfonditamente gli ultimi anni poiché in tale periodo divengono maggiormente visibili  le modifiche sociali apportate alla raffigurazione  di questo personaggio.

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Napoleone (Napoleon, Francia, 1925-27) di Abel Gance

Ovviamente come nella definizione dei generi spesso si deborda volentieri così accade anche nella definizione del personaggio politico. Come non considerare un “politico” Napoleone? Anche se, ovviamente nella filmografia risulta preponderante la parte militare di questo personaggio storico. Ricordiamo solo  Napoleone  (Napoleon, Francia, 1925-27) di Abel  Gance,  con  Albert Dieudonne (Napoleone Bonaparte), Van Daele (Robespierre), Antonin Artaud (Marat), Abel Gance (Saint-Just) per la complessa narrazione che vede però tanti altri “politici” dell’epoca come protagonisti. Ma si potrebbe continuare a lungo, basti pensare a Danton (Danton, 1982, di Andrzej Wajda), ma questo ci porterebbe lontani dal discorso di caratterizzazione del personaggio. Rimanendo invece sempre nei dintorni degli Stati Uniti non si può evitare di ricordare almeno La nascita di una Nazione (The Birth of a Nation, Usa, 1915, di D.W. Griffith) in cui è presente  Ralph  Lewis  (il deputato a  cui  e  legata  la famiglia Cameron, protagonista del film) e il profondo significato “politico” dell’intera vicenda. Non a caso si chiamerà sempre Cameron il politico corrotto protagonista di Il  club del diavolo (A Man Betrayed, Usa, 1941)  di  John  H. Auer, con John Wayne nei panni di un avvocato che vi si oppone. Delinquenza comune e politica si legano in maniera indissolubile.

Il soggetto del discorso e le avventure del “politico” americano

Il concetto di potere politico che attraversa i film menzionati si avvale spesso di figure marginali, mentre il centro dell’azione si ritrova in altri settori sociali, in ruoli diversi. Ma non è sempre così. Ciò che interessa, dopo questo primo approccio, è il tentativo di definizione di un oggetto sfuggente, come d’altra parte vuole anche il suo contenuto, di quel gruppo di pellicole in cui il “politico” risulta essere il motore stesso del film, il soggetto dell’opera e in cui ci si sofferma più approfonditamente sulle implicazioni di questa figura nel contesto sociale. L’affare della sezione speciale (Section Speciale, Fr, 1975) di Costi Costa-Gavras e soprattutto Z – L’orgia del potere (Z, Fr, 1969) sempre di Costi Costa-Gavras  con Yves  Montand (il deputato ellenico Gregorios Lambrakis) e  Jean Louis Trintignant vedono la storia ruotare attorno al “politico” che diviene elemento di riflessione e di narrazione al contempo. La storia personale serve da pretesto per l’analisi storica di un determinato periodo. Il film per eccellenza potrebbe essere Quarto  potere (Citizen Kane, Usa, 1941) di Orson  Welles con Orson Welles (Kane) candidato alla presidenza. Ma la storia ripercorre l’ascesa e la vita di un uomo che del potere e della politica hanno fatto motivo dell’esistenza stessa.

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La critica al soggetto politico viene affrontata in maniera interessante da Frank Capra che e assieme a Ford rappresenta un modello fondamentale per il “genere”. In  Mr. Smith va a Washington (Mr. Smith goes to  Washington,  Usa, 1939)  di  Frank  Capra. James  Stewart  eletto  casualmente senatore  entra  in conflitto con la potente lobby del corrotto senatore Claude   Rains.  Dopo  un  discorso  di   tre   giorni ininterrotti ottiene la vittoria. Quindi in Arriva John Doe / I dominatori della metropoli (Meet John Doe /John Doe Dynamite, Usa, 1941) di Frank Capra con Gary Cooper, amara riflessione sull’oppressione e corruzione della classe dei politici. Leint-motive  che attraversa l’universi cinematografico. In Tempesta su Washington (Advise and Consert, Usa, 1962) di  Otto Preminger con Don Murray e Henry Fonda candidato alla carica di segretario di Stato. Tratto dal romanzo di Drury è ricco di allusioni verso i politici contemporanei al film. Due anni più tardi ritroviamo Fonda nei panni di un ex segretario di Stato in corsa per la presidenza. L’amaro sapore del potere (The Best Man, 1964, di Franklin J. Schaffner è una caustica satira su una convention e su tutto ciò che ruota attorno alla politica.

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Il dottor Stranamore (Dr. Strangelove, Usa, 1963) di Stanley Kubrick

Positivi o meno i “politici” divengono improvvisamente decisionisti e pronti ad annientare il genere umano o perlomeno una parte del pianeta. Azione esecutiva (Executive Action, Usa, 1973) di David  Miller con Burt Lancaster, una sorta di thriller sull’assassinio del presidente Kennedy dovuto ad un complotto che coinvolge industriali e politici. Sette giorni a maggio (Seven Days in May, Usa, 1964)  di  John Frankheimer, con Burt Lancaster capo di stato maggiore dell’esercito), Kirk Douglas e Fredric March  (il presidente). Lancaster tenta un colpo di stato, ma il presidente e altri militari lo sventano. Ultimi  bagliori di un crepuscolo (Twilight’s  Last  Gleaming, Usa,  1976)  di  Robert Aldrich con  Burt  Lancaster  (colonnello Lawrence  Dell),  Charles Durning (presidente  degli  Usa)  Joseph Cotten  (segretario  di  stato), Melvyn  Douglas  (ministro  della difesa). Lancaster vuole costringere, con la minaccia di scatenare un conflitto atomico,  i politici a rivelare una serie di segreti di stato sulle guerre intraprese dagli Usa. In A prova di errore (Fail Safe, Usa, 1964) di Sidney  Lumet  con Henry Fonda  promosso  presidente che deve affrontare la minaccia di un conflitto atomico. Con la conseguenza di “vaporizzare” un paio di città in base alla ragion di stato. Il tutto è reso in maniera ironica in Il dottor Stranamore ovvero come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba (Dr. Strangelove: or, How I Learned to  Stop Worryng  and  Stop the Bomb, Usa, 1963) di  Stanley  Kubrick  con Peter Sellers e George C. Scott. Anche qui i politici devono decidersi fra un errore (umano…) e l’annientamento. Ovviamente sceglieranno la peggiore delle soluzioni.

A prova di errore

A prova di errore (Fail Safe, Usa, 1964) di Sidney Lumet

Anche quando sono solo dei comprimari, e di secondo piano, i politici sono rappresentati negativamente. In L’inferno di cristallo (The Towering Inferno, Usa,  1975)  di John Guillermin e Irwin Allencon con Steve McQueen e Paul Newman il politico di turno è uno speculatore e assai poco edificante, l’incendio, tutto sommato e anche colpa sua. In Nashville  (Nashville, Usa, 1975) di Robert Altman  con  Keith Karadine  serve solo per il comizio  show  finale per  le  elezioni  primarie  con attentato politico di contorno, mentre in Il vento e il leone (The Wind and the Lion, Usa, 1975) di John Milius con Sean Connery e Brian Keith  nelle vesti di un simpatico ma stravagante presidente Theodore Roosvelt dai risvolti inquietanti. In Senza via di scampo (No Way Out, Usa, 1987, di Roger Donaldson) Gene Hackman interpreta un segretario alla difesa omicida che intorbida le prove, cerca di creare un altro colpevole, oltre ai soliti comportamenti “da politico corrotto”. Stesso tipo di personaggio in Bullitt (Bullitt, Usa, 1968) di Peter Yates. L’investigatore Steve McQueen indaga su un omicidio e arriva al politico corrotto.

Una grande attenzione all’ambiente di vita dei politici la ritroviamo in La seduzione del potere (The seduction of  Joe  Tynana,  Usa, 1979) di Jerry Schatzberg. Alan Alda (senatore Joe  Tynan) è il protagonista, un politico, circondato da ogni sorta di suoi pari, da Rip Torn (senatore Kittner) a Melvyn Douglas (senatore Birney). Il contenuto del film si pone come “un lamento sui guasti che può recare al tessuto morale il distacco fra il pubblico e il privato, in particolare sui danni prodotti dall’ambizione della carriera politica”[7]. La carriera arriva al massimo vertice con la corsa(che si presume vittoriosa) verso la presidenza. Il film è una buona sintesi e “rappresenta con discreta efficacia l’ambiente dei politici, certe loro volgarità e certo loro infantilismo, il sistema di favori e di ricatti in cui si muovono e le contraddizioni fra l’immagine e la realtà”[8]. E rappresenta anche una posizione intermedia fra la critica al sistema politico, che ritroviamo nei film precedenti,  e la edulcorata “political correct” degli anni ’90.

Il dottor Stranamore

Il dottor Stranamore (Dr. Strangelove, Usa, 1963) di Stanley Kubrick

Il protagonista di Nata  ieri  (Born  Yesterdey,  Usa,  1950,  di  George  Cukor) Broderick  Crawford, non è un  “politicante” in senso stretto, tuttavia agisce come e con i  politici per corrompere ed ottenere profitti e per questo si reca a Washington, come dire la patria dei.

Citiamo solo qualche esempio tratto da un altro sottogenere, quello delle biografie romanzate dei presidenti o noti politici, che annoverano film su Kennedy, Nixon, Malcom X, ecc.. Ricordiamo  Primary  (Usa, 1960) di Richard Leacock. Il film  descrive  la campagna  elettorale  della “primarie” del  giovane  Ted  Kennedy contro  il  senatore  Hubert Humphrey  per  la  candidatura  alla presidenza degli Usa. O più recentemente Gli intrighi del potere – Nixon (Nixon, Usa, 1995) di Oliver Stone reduce dalla regia del precedente JFK – Un caso ancora aperto (JFK, Usa, 1991). Fra il dramma shakesperiano e l’agiografica.

Il sunto della visione americana del politico lo può fare un italiano, Sergio Leone, con C’era  una volta in America (1984). James Woods  (senatore Bailey) da giovane, durante il  proibizionismo, era  un  gangster,  alla fine degli  anni  sessanta  un  politico coinvolto in uno scandalo. E quest’ultimo è il volto che ricordiamo.

Critica sociale e satira all’italiana

Potrebbero chiamarsi “storie di ordinaria corruzione”. Tant’è che il politico italiano nei film prodotti dalla fine degli anni ’40 ad oggi si identifica con figure più o meno spregevoli e disoneste, con uniche eccezioni alcune bonarie ed ironiche rivisitazioni di personaggi marginali e lontani dalle vere centrali del potere.

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Mi manda Picone (1993) di Nanni Loy

Abraham Lincoln pronuncia nella prima scena del celebre film di John Ford  Alba di gloria una battuta iniziale di notevole importanza “Sapete tutti chi sono io” rivolta al pubblico nel film e a noi spettatori con un duplice significato: quello di fiducia nel ruolo ricoperto nella finzione cinematografica e quello di valore storico. Un personaggio di alto rilievo morale e sociale il cui riconoscimento delle qualità appare immediato e dovuto. La versione italiana del politico invece si presenta spesso con la frase “Lei non sa chi sono io!” sinonimo di arroganza e prevaricazione. Esempio di come la categoria del politico sia connotata negativamente nel cinema e nella società italiana. Anche Mi manda Picone (1983) di Nanni Loy con Lisa Sastri  (Luciella, la  moglie di Picone) e Giancarlo Giannini (Salvatore) presenta, anzi è costruito, su un’altra frase tipica.  Più  che “politico”  il Picone del titolo è stato un camorrista. Tuttavia la  frase stessa “mi manda…” pronunciata durante tutto il  film da Giannini, con esiti vari, ma generalmente positivi,  riconduce ad un uso proprio della “raccomandazione” politica italiana. Sulla degenerazione della vita politica incisivo risulta essere Il portaborse (1991) di Daniele Luchetti con Nanni Moretti (il ministro Cesare Bottero) e Silvio Orlando (il professore “portaborse” Luciano Sandulli). Attraverso la descrizione della vita di un politico (qui elemento centrale della narrazione) assistiamo alla disamina degli aspetti negativi (ed intrinseci) di un ruolo sociale codificato nel paese. Così come il termine assassino indica una persona che uccide il termine politico indica un individuo malvagio e corrotto. Senza alternative. Ben lontana si collocava la satira dolce-amara della serie di Don Camillo e Peppone iniziata nel 1952 con Don Camillo (Le petit monde de Don Camillo, di Julien Duvivier) con Fernandel e Gino Cervi. Qui la contrapposizione fra due teorie filosofiche (cattolicesimo e comunismo) si stemperava nella quotidianità dei problemi di una provincia in espansione.

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Don Camillo (Le petit monde de Don Camillo) di Julien Duvivier

La descrizione dei politici “marginali” rappresentava individui animati da buone intenzioni e tutt’al più vittima di circostanze sfavorevoli. Come in  Il Federale (1961) di Luciano Salce con Ugo Tognazzi e Georges Wilson commedia agrodolce in cui al fascista idealista e all’antifascista emarginato si succederà (siamo alla fine della guerra) un’inversione di ruoli. La discriminante è determinata dal potere. Il potere corrompe. Se vogliamo un gustoso cammeo pensiamo a Il  sorpasso  (1962) di Dino  Risi.  Vittorio  Gassman  (Bruno Cortona)   piccolo  faccendiere  incolla  sul  lato  destro   del parabrezza  della  sua  Lancia Aurelia Sport  un  foglio  con  la scritta “Camera Deputati” per avere libero accesso in qualsiasi luogo. L’emblema del potere. E sui deputati la cinematografia italiana si sofferma a lungo, pensiamo a  La giornata dell’onorevole (1963) episodio di I mostri di  Dino Risi  con Ugo Tognazzi. Emblematico il “ruolo” del  politico.  Un deputato  democristiano  viene  avvisato  della  presenza  di  un generale ha scoperto una truffa  organizzata da un funzionario ai danni dello Stato. Fa attendere tutto il giorno il generale prima di riceverlo per dar modo di “legalizzare” l’illecito. Rimprovera quindi il generale e lo fa pensionare.

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Il Federale (1961) di Luciano Salce

Passiamo poi, ci troviamo sempre nell’ambito della commedia anche se più greve, alle considerazioni di vendetta verso una figura, quella del politico per l’appunto, divenuta ormai l’emblema stesso del “male”. Nel film di Dino  Risi In  nome  del  popolo italiano (1971) con  Ugo Tognazzi e Vittorio Gassman si propone una scelta “giustizialista” per fermare il fenomeno del malcostume, in Vogliamo  i  colonnelli  (1973) di  Mario  Monicelli  con  Ugo Tognazzi si indica come avvenuto un golpe bianco che ha ridotto lo Stato a una dittature mascherata ed infine in Todo  Modo  (1976)  di Elio Petri con  Gian  Maria  Volonte  e Marcello Mastroianni si invoca lo sterminio di una classe, quella dei politici, rei del degrado e della distruzione del sistema sociale nazionale.

Continua tuttavia anche la commedia più classica, come in Signori e signori, buonanotte (1976) di Luigi Comencini,  Nanny Loy, Luigi Magni, Mario Monicelli, Ettore Scola o in Incensurato  provata  disonesta  carriera  assicurata  cercasi (1973) di Marcello Baldi con Gastone Moschin e Nanni Loy od ancora in Scherzo del destino in agguato dietro l’angolo come un  brigante da strada (1983, di Lina Wertmuller) con Ugo Tognazzi (on.  De Andreiis),  Gastone  Moschin  (Ministro  degli  Interni).  satira feroce contro gli uomini del Palazzo. Il ministro rimane bloccato nella  sua  auto  blindata, si reca alla  villa  di  un  deputato democristiano, non riescono ad aprirla, la moglie  del  deputato fugge con un terrorista. Per arrivare al cammeo di Giulio Andreotti (forse il politico più noto all’epoca) in  Il tassinaro (1983) di Alberto Sordi che recita se stesso.

Accanto a questi esiste tuttavia la figura del politico visto in chiave “storica”. Ad esempio gli ultimi mesi della II Guerra Mondiale in Mussolini ultimo atto (1974) di Carlo Lizzani con Rod Steiger nel ruolo del dittatore o all’opposto il soggiorno obbligato e la fuga di un giovane politico antifascista in La  villeggiatura  (1973)  di Marco Leto  con  Adolfo  Celi  e Adalberto Maria Merli o sempre l’esilio in Fontamara (1980) di Carlo Lizzani con Michele Placido e Ida  di Benedetto tratto dall’omonimo romanzo di Ignazio Silone. O ancora in Corleone  (1978) di Pasquale Squitieri. Protagonisti Stefano  Satta  Flores (deputato  Natale Calia) e Giuliano Gemma (Vito Gargano,  capo del clan mafioso). Il deputato viene eletto grazie alle complicità mafiose. Nella salita al potere (diverrà alla fine sottosegretario) uccide il capo clan suo complice per eliminare prove scottanti. Sulla stessa linea si colloca anche Le mani sulla città (1963) di Francesco Rosi con Salvo Randone e Rod Steiger.  Il crollo di un palazzo mette in luce gli  intrallazzi dell’assessore Nottola un imprenditore edile che utilizza per  il proprio profitto il piano regolatore della città.

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Attacco al potere (Olympus Has Fallen, 2013) diretto da Antoine Fuqua

L’evoluzione del modello

Se osserviamo la produzione degli ultimi anni assistiamo ad un mutamento nella descrizione del politico. Viene “umanizzato”, reso quotidiano nell’aspetto, nei sentimenti, nei modi di reagire. Non è diverso da qualsiasi altro professionista, in qualsivoglia campo lo si cerchi. Con una differenza. Riesce meglio in tutto perché è colui che gestisce il potere. Pensiamo a Il presidente – una storia d’amore (The American President, Usa, 1995, di Rob Reiner) dove Michael Douglas interpreta un presidente che si innamora. Fra qualche richiamo a Frank Capra e ai suoi film precedenti (Harry ti presento Sally) si recupera un tono da commedia in cui i meccanismi della gestione del potere appaiono allo stesso livello della gestione degli affari sentimentali. Sostanzialmente un uomo come tutti, senza neanche difetti, tutto sommato. Concetto sostenuto anche da Dave – Presidente per un giorno (Dave, Usa, 1993, di Ivan Reitman) in cui Kevin Kline sostituisce (ne è il sosia perfetto) ad un pranzo ufficiale il presidente. Poi per una serie di circostanze deve continuare a svolgere il nuovo ruolo. Facile leggere la trasposizione del concetto di comportamento quotidiano alla portata di qualsiasi cittadino con la conseguente convinzione di “comunanza” di intenti e condotta. Se poi lo vogliamo anche eroico ecco il politico per eccellenza (sempre il presidente) Bill Pullman che in Indipendence Day (id., Usa, 1996) salva l’umanità e la porta alla riscossa, nonché alla vittoria, contro gli alieni invasori. Sempre presentato come un qualsiasi cittadino che gestisce in rappresentanza della popolazione il potere. Potrebbe essere il vicino di casa.

Anche nella prosecuzione dei “sottogeneri” classici assistiamo a un cambiamento. In Riccardo III (Richard III, Gran Bretagna, 1996, di Richard Locraine), nona trasposizione cinematografica dell’opera shakespeariana, trasferisce l’azione in un’Europa degli anni ’30 in cui si contrappongono le democrazie occidentali contro il Nazismo. Con una definizione a tutto tondo del bene e del male, ed anche questo percepito in una forma simbolica. E se di politici “corrotti” si vuol parlare ecco City Hall (id., Usa, 1996, di Harold Becher) dove il sindaco di New York  deve districarsi in un universo in cui “le gradazioni dell’umanità vanno da Charles Manson a Maria Teresa di Calcutta e il resto di noi sta nel mezzo”[9]. Il sindaco incarica il suo assistente di far luce sugli affari poco puliti nella politica cittadina. Esattamente l’opposto di vent’anni prima. Non a caso il film è tratto da un romanzo di Ken Lipper, ex vicesindaco di New York. Il soggetto del discorso parla di sé.

Odiò qualche politico “cattivo”, o perlomeno ambiguo, lo troviamo ancora, anche se ormai il “genere” scivola sempre più nella fantapolitica piuttosto che nell’analisi di fatti “reali”, come in Il rapporto Pelican (The Pelican Brief, Usa, 1993, di Alan J. Pakula). Il complotto esiste e, contro ogni logica, la studentessa in legge Julia Roberts avrà facile ragione di una cospirazione che vede coinvolta la stessa Casa Bianca. Qualche complottino il politici lo architettano ancora in Attacco al potere (The Siege, Usa,  1998, di Edward Zwick), ma agiscono in maniera così “political correct” da risultare prevedibili, noiosi, e sostanzialmente poco credibili. Ci pensa sempre una donna, qui Annette Bening accompagnata, come nel precedente, da Denzel Washington (in rappresentanza delle minoranze) a personificare il comune umano che tutto risolve. Il cittadino vince in ogni campo. Specialmente in quello fantastico. Decisamente fantasiosi anche se molto divertenti i vari episodi di Attacco al potere – Olympus Has Fallen (Olympus Has Fallen), film del 2013 diretto da Antoine Fuqua con protagonista Gerard Butler. Qui il presidente degli USA è sempre in pericolo attaccato da ogni tipo di terrorista mondiale. Per fortuna c’è Butler che da solo vale un esercito, e qualcosa di più.

Attacco al potere

Attacco al potere (Olympus Has Fallen, 2013) diretto da Antoine Fuqua

 Modelli, trasferimenti e psicologie

La visione comunicataci dal media cinematografico della figura del politico, cioè del detentore di potere,  varia nella  tipologia offerta anche raffrontando solo brevi distanze temporali. Tuttavia i mutamenti non appaiono casuali o sporadici, ma avvengono all’interno di categorie codificabili come sottogeneri, pur  non rientrando ne in quelli prettamente cinematografici ne in quelli di derivazione psicosociale. La sovrapposizione stessa fra il concetto di “politica”, come sommatoria di caratteristiche ideologiche e comportamentali di un gruppo, e la figura del “politico”, per indicare un unico individuo che pratica tale attività,  all’interno del messaggio trasmesso dal cinema fa sì che non vi sia una categoria omogenea quanto ad oggetti contenuti, ma un insieme volutamente vago e indistinto. Estremizzando si potrebbe negare l’esistenza di una categoria di tal genere, ma la presenza solo di elementi di rinforzo ad altre classi di fattori. Ad esempio in Soldati a cavallo, un film a metà strada fra il western e il bellico, la figura negativa del politico presente serve solo a sottolineare la positività degli altri protagonisti principali ed è inessenziale nell’economia del racconto, che ne trae vantaggio dalla presenza, ma potrebbe facilmente sostituirla con un’altra. Non è sempre così. La furia vendicatrice del regista Petri in Todo Modo non avrebbe ragione d’essere senza il soggetto principale del film: i politici per l’appunto. Così affrontiamo la prima distinzione: elemento marginale che può divenire puro colore al racconto o punto centrale ed irrinunciabile della narrazione. Se osservassimo con attenzione tutto il cinema mondiale, per un periodo di tempo piuttosto lungo, probabilmente avremo una panoramica completa dei mutamenti politici avvenuti nei singoli stati, nello stile dei registi e nel gusto del pubblico. Tuttavia per sintesi abbiamo esaminato, e in maniera relativamente approfondita, non trascurando i passaggi cruciali delle singole cinematografie, quelle più rappresentative per il nostro paese e, in termini lati, per la società occidentale[10]. Dunque effettuando questa osservazione comparata notiamo le strutture diverse delle due società e le loro modifiche. Nel cinema statunitense una forma di critica sociale verso la figura e l’universo politico si stempera nel corso degli anni fino ad arrivare ad una sorta di acquiescente accettazione e proposizione in termini di valori positivi. Si è modificato l’universo politico o la percezione del pubblico? Propendendo per la seconda ipotesi la variazione si ritrova nella tipologia di pubblico, nel suo potere d’acquisto, nella sua collocazione sociale che hanno modificato il contenuto del messaggio richiesto. Assistiamo perciò da un lato all’adeguamento domanda – offerta da parte del mercato, dall’altro alla trasmissione di nuove informazioni da parte di un’agenzia centrale verso i riceventi periferici. Lo stato utilizza il media per ottenere consenso attraverso la presentazioni di modelli positivi del suo funzionamento, affinché essi divengano parte della conoscenza comune e vengano considerati come “naturali” dall’utente. Analogamente nel cinema italiano assistiamo alla progressiva scomparsa di film che approfondiscono il rapporto fra politico e sociale, e la stessa figura del politico tende a dissolversi. Anche qui ci troviamo di fronte a una mutata esigenza della struttura centrale di fronte ad una rinnovata situazione sociale. Se pensiamo ad alcuni modelli trasmessi attraverso i media visivi, come il colore dei capelli, certi atteggiamenti nei rapporti interpersonali, determinati canoni di valutazione del mondo che ci circonda, l’uniformazione degli elementi di riconoscimento sociale, ci possiamo rendere conto di quanto siano determinanti i messaggi e i valori di “consenso” (o meno) che li contengono rispetto alla formazione  di un tessuto sociale congruente all’agenzia centrale. Il rinforzo verso un atteggiamento porterà alla sua diffusione e approvazione sociale, con conseguente stabilità del sistema che lo ha generato.

Il vento e il leone

Il vento e il leone (The Wind and the Lion, Usa, 1975) di John Milius

Il secondo punto da affrontare è quello della percezione del messaggio ovvero per quale motivo il contenuto, cioè l’informazione, viene accettata e diviene parte del nostro bagaglio di conoscenze. L’informazione, per quanto unidirezionale, non è univoca. Anzi, in questo caso non solo deve scontrarsi con quella proveniente da altri media, la stampa, la televisione, ecc., ma sottostare al palese vincolo della componente manifesta legata alla finzione cinematografica. Tuttavia il modello suggerito dal cinema diviene più forte di quello “reale” proposto dai media delegati all’informazione. Come nel caso della realtà virtuale[11] risulta maggiormente attendibile il messaggio della fiction rispetto a quello della stampa. Il “politico” che appare sui quotidiani continua ad essere corrotto e negativo mentre quello nel cinema diviene propositivo. Ed è il secondo a imporre il modello di riferimento, tanto forte da far divenire quasi marginale il soggetto reale. O forse… la dicotomia esistente nella costruzione dei modelli di riferimento qui diviene più visibile. Pensiamo ai divi cinematografici classici[12], all’accettazione dei loro personaggi come tangibili, a discapito delle persone fisiche, la cui vita viene accettata solo se “simile” a quella dei soggetti fittizi della fiction. Ad esempio Arnold Schwarzenegger rappresenta la figura del combattente implacabile, sempre in azione, contro qualsiasi minaccia. Nella vita privata predomina la visione di un uomo sempre a bordo del suo fuoristrada corazzato, in palestra o in moto con il regista Cameron, altro “duro” dell’immaginario collettivo.  Probabilmente qualche volta avrà portato i figli a scuola, o preparato qualcosa da mangiare, o semplicemente si sarà seduto in poltrona a leggere un giornale. Ma questo tipo di “personaggio” non esiste nella raffigurazione che abbiamo di Schwarzenegger. Lo stesso può valere per Meg Ryan. Rappresenta la visione romantica della vita e quindi del rapporto di coppia. Nella sua vita privata magari sarà invece più dura di Schwarzenegger, ma questo, anche se provato, non interessa il fruitore della figura che ella rappresenta. Nella percezione comune fra una figura fantastica, ma desiderabile, ed una reale, ma negativa, la preferenza ricade sulla prima. Ecco perché il “politico” degli ultimi film prevale sul “politico” della realtà. Come diceva Edgar Morin[13] la vita desiderata non vede tempi d’attesa nella successione degli eventi, come in un film per l’appunto, ogni avvenimento deve portare emozione, e gli avvenimenti devono susseguirsi in un’unica, continua dimensione. Senza interruzioni.

Mr. Smith va a Washington

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Cheyenne Autumn

Note

[1] Nel periodo a cavallo fra il 1994-95 sono usciti ben quattro volumi che analizzavano la figura dello psicologo-psichiatra all’interno del contesto narrativo cinematografico. Il primo, di Alceo Melchiori, Lo psicologo nei film, Domenghini Editore, Padova, poi di Ignazio Senatore L’analista in celluloide. La figura dello psicoterapeuta al cinema dal 1986 al 1993, Franco Angeli, Milano, di Secchi Immagini della follia, Guaraldi, ed infine gli atti del Primo convegno cinema e psiche, Edizioni Kendall.
[2] Per i divi si va da Francesco Alberoni, L’élite senza potere, Vita e pensiero, Milano 1963, a Enzo Kermol e Mariselda Tessarolo, Divismo vecchio e nuovo. La trasformazione dei modelli di divismo, Cleup, Padova, 1998.
[3] Se osserviamo la saggistica relativa a questo soggetto essa risulta prevalentemente essere descrittiva dei film relativi, come Gangsters, di John Gabree, Pyramid Comunications, 1973, o Violent America: The Movies, 1946/1964, New York, 1971 di Lawrence Alloway.
[4] Vedi Il western. Fonti, forme, miti, registi, attori, filmografia, a cura di Raymond Bellour, Feltrinelli, Milano, 1973, p.215.
[5] J. A. Place, I film di John Ford, Gremese, Roma, 1983, pag. 156.
[6] G. Oli, G. Devoto, Dizionario della lingua italiana, Le Monier, 1984, p. 1736.
[7] G. Grazzini, Cinema ’84, Laterza, Roma, 1985, pag.19.
[8] G. Grazzini, Cinema ’84, Laterza, Roma, 1985, pag.20.
[9] M. Lastrucci, City Hall, Ciak n. 4, aprile 1996, pag. 62.
[10] I titoli citati sono solo alcuni di quelli ritrovati. Per evitare elenchi inutili, in quanto ripetitivi di situazioni, registi, avvenimenti narrati, ecc. ci si è limitati a quelli giudicati come più rappresentativi. La scelta della cinematografia statunitense, quella che copre la maggior produzione e distribuzione planetaria, è, e rimarrà, obbligatoria per qualsiasi analisi dell’argomento. La cinematografia italiana dell’argomento “politici” nel contesto nazionale può, specialmente fino ai primi anni ottanta, essere considerata di buona distribuzione. Alcuni altri titoli (francesi, inglesi, ecc.) sono stati citati, pur non esaminando completamente tali cinematografie, in quanto essenziali ai fini del discorso.
[11] E. Kermol, Elementi di metacomunicazione: dal cinema alla realtà virtuale, in E. Kermol, Le strategie della comunicazione, Cleup, Padova, 1999, pag. 149.
[12] E. Kermol, M. Tessarolo, Divismo vecchio e nuovo, Cleup, Padova, 1998.
[13] E. Morin, I divi, Mondadori, Milano, 1963.

 

Applicazioni della psicologia alla sicurezza

Una metodologia appropriata per affrontare soggetti fonte di pericolo

Premessa

Inizialmente ci poniamo due domande cioè se sono identificabili i “soggetti pericolosi” prima di compiere un’azione e se si possono prevedere le loro intenzioni osservandone movimenti ed espressioni.

Vari psicologi e agenzie di sicurezza credono sia possibile. Si possono leggere sottili indizi nell’aspetto di una persona. Possono sembrare insignificanti per un neofita, ma sono significativi per una persona ben preparata. Questi piccoli dettagli possono diventare visibili a tutti dopo una formazione adeguata. Mentre è difficile riuscire a sopprimerli.  Possono essere eseguiti inconsciamente da un “soggetto pericoloso”, anche se molto abile. Può inconsciamente tradire il suo intento, mostrando questi segnali, nonostante l’esperienza e  l’addestramento.

Diversi studi suggeriscono che l’atto di commettere un delitto è associato a certe emozioni. Nel corso di un reato, o nella preparazione dello stesso, alcuni processi emotivi hanno probabilità di essere presenti in “soggetti pericolosi”, ad esempio le emozioni di eccitazione, ansia o rabbia (Cusson, 1993; Canter e Ioannou, 2004 , Katz, 1988). Le risposte emotive del colpevole di un reato sono influenzate da diversi fattori, tra cui la sorveglianza, allarmi, e le conseguenze di tale atto. Pensando a questi fattori un “soggetto pericoloso”  può diventare timoroso o eccitato, e di conseguenza cambiare il proprio comportamento fisico e facciale.

 Un altro fattore influente che può causare un cambiamento dello stato emotivo del “soggetto pericoloso”  è l’esperienza di possedere un’arma. Una ricerca condotta in Inghilterra, commissionata dal Ministero degli Interni,  mostra che i trasgressori tendono a subire diversi stati emotivi quando trasportano un’arma da fuoco illegale (Hales, Lewis e Silverstone, 2006). Attraverso le interviste, gli autori hanno raccoltole le tipologie delle risposte emotive di “soggetti pericolosi”  durante il porto di un’arma da fuoco. Questo studio fornisce la prova che il trasporto di un’arma illegale è associato ad una serie di emozioni, sentimenti di sicurezza, empowerment, e paura, che possono essere valutati coscientemente e riportati dal trasgressore nella verbalizzazione. La valutazione cognitiva di fattori come la presenza di sorveglianza e le possibili conseguenti sanzioni può, ad esempio, indurre la sensazione di paura di essere scoperti. Secondo alcuni il possesso dell’arma spesso attiva una combinazione di emozioni come la paura di essere scoperti e il potenziamento, o sensazione di sicurezza derivante dall’idea che nessuno può aggredirci. Inoltre, in letteratura è dimostrato che le emozioni possono avere effetti che non sono valutati consapevolmente, ma possono avere evidenti forme motorio gestuali ed espressive. Le emozioni influiscono notevolmente sui mutamenti del linguaggio del corpo (Ekman e Friesen, 1967). Tale comportamento non verbale (CNV) può essere più difficile da nascondere di un’arma e può tradire una persona quando tenta di nascondere queste emozioni.

Secondo diversi ricercatori, il linguaggio del corpo (ad esempio, l’andatura o la modifica della postura) potrebbe riflettere rilevanti tendenze all’azione, e sono strettamente collegati con gli stati emotivi (Montepare, Goldstein, e Clausen, 1987; de Meijer, 1989; Wallbott, 1998; Hadjikhani e de Gelder, 2003).

Osservando il comportamento non verbale si possono ottenere utili conoscenze relative alle intenzioni degli altri, e quindi prendere decisioni in merito alle azioni necessarie. Secondo Meier-Faust (2002) il linguaggio del corpo umano può essere diviso in due categorie: informazioni strutturali (ad esempio, i tratti del viso, corpo a costruire) e le informazioni cinetiche (ad esempio le espressioni facciali, gesti, movimenti del corpo, o la postura). Le informazioni strutturali possono dirci il tipo di emozione provato. Mentre i movimenti del corpo e la postura indicano l’intensità delle emozioni. Questa ipotesi si basa sulle ricerche dello psicologo Paul Ekman, pioniere nello studio delle emozioni e delle espressioni facciali. Ekman e Friesen (1969) hanno studiato la relazione fra espressioni facciali ed emozioni. Hanno dimostrato come sopprimendo l’emozione provata appaiono sul volto, micro-espressioni della vera emozione completa ad alta intensità da 1/5 a 1/25 di secondo, espressioni soffocale (solo parte dell’espressione dell’emozione, ed espressioni fini (espressione completa ma di intensità molto bassa). Queste espressioni sfuggono al controllo cosciente, smascherano la menzogna.

Applicazioni alla sicurezza dei trasporti

Attualmente Ekman, uno dei maggiori esperti nella lettura facciale delle emozioni, svolge il ruolo di consulente nella formazione del personale del Transportation Security Administration (TSA) negli Stati Uniti. Questo tipo di formazione è diventata una necessità evidente, ed ha recentemente ricevuto l’attenzione da parte del mondo della sicurezza, a causa dell’intensificata minaccia del terrorismo. Un esempio di come queste tecniche sono state messe in pratica nel controllo dei passeggeri è il programma “Screening of Passengers by Observation Techniques (SPOT)[1]”, che viene utilizzato in aviazione e nel trasporto di sicurezza. Si basa sul rilevamento di individui che mostrano un comportamento potenzialmente minaccioso. Vi è una forte convinzione che, piuttosto di trovare l’oggetto fonte di minaccia (per esempio un’arma nascosta), è meglio l’identificazione del singolo comportamento non verbale di minaccia. Negli aeroporti negli Stati Uniti, ed anche in alcuni della Gran Bretagna, vi sono delle squadre di sicurezza il cui compito è guardare i viaggiatori mentre stanno entrando in aeroporto, al controllo bagagli, o in fila ai controlli di sicurezza. Essi monitorano i segni apparenti di potenziale minaccia, come l’abbigliamento appropriato (ad esempio, un cappotto pesante in una giornata calda), così come i segni più sottili che comprendono i gesti, le conversazioni, e le espressioni facciali dei viaggiatori.

Nella formazione  viene insegnato loro come eseguire la scansione dei passeggeri per individuare le reazioni fisiche e psicologiche involontarie che, secondo gli scienziati del comportamento, possono indicare lo stress, la paura o l’inganno. Il personale di sicurezza viene  addestrato a riconoscere le emozioni nascoste che possono manifestarsi nel movimento del corpo, nell’andatura, o nelle espressioni facciali.

Altri specialisti, che lavorano per il servizio segreto degli Stati Uniti che protegge il presidente, utilizzano tecniche simili per individuare chi porta un’arma prima che colpisca (Remsberg, 2007). Gli individui armati mostrano modelli comportamentali comuni che li distinguono dai soggetti disarmati.

Queste emozioni possono provocare un cambiamento nel movimento del corpo e nelle espressioni del viso. Possono essere individuati attraverso un’attenta osservazione dei segni fisici o dei segnali emozionali veicolati dal corpo e viso. In termini di sicurezza vale la pena di migliorare le proprie capacità di osservazione per essere in grado di prevedere le situazioni dove esistano le possibilità di pericolo. Essere consapevoli dei segnali di pericolo elimina l’effetto sorpresa e permette un intervento efficace precedente al verificarsi dell’evento dannoso.

Screening of Passengers by Observation Techniques (SPOT)

Il programma di controllo dei passeggeri con Tecniche di Osservazione (SPOT) ha percorso una lunga strada da quando è apparso nel 2008. A partire dal maggio 2010, circa 3.000 Behavior Detection Officers (BDO) sono stati dispiegati in 161 aeroporti a livello nazionale negli Stati Uniti. I BDO sono addestrati a rilevare i comportamenti di risposta alla paura di essere scoperti. I BDO cercano i comportamenti che mostrano coloro che stanno facendo qualcosa di illecito. I BDO impostano una “baseline” sul comportamento normale in aeroporto e cercano i comportamenti che si differenziano da questo. Paul Ekman (PhD) ha studiato analisi comportamentale negli ultimi 40 anni e ha insegnato a varie agenzie federali, TSA, Customs and Border Protection, CIA, FBI, come guardare le espressioni facciali di tensione, paura e inganno.  Il programma SPOT è un derivato di altri programmi di analisi comportamentali che sono state impiegate con successo dalle forze dell’ordine e dal personale di sicurezza negli Stati Uniti. TSA effettivamente consultato e ancora si consulta regolarmente con diversi scienziati del comportamento di tutto rispetto nello sviluppo di SPOT.

La TSA ha applicato il programma SPOT come un ulteriore livello di sicurezza per contribuire a scoraggiare e individuare i terroristi che tentano di superare o aggirare il sistema di sicurezza dell’aviazione. I BDO hanno identificato le attività illegali che hanno portato ad oltre 1.800 arresti nei sistemi di trasporto degli Stati Uniti, compresi soggetti con esplosivi. La cifra dell’investimento statunitense per l’applicazione del progetto SPOT è stata di un miliardo e 300 milioni di dollari in cinque anni.

 Progetto proposto

Il progetto prevede la creazione di un protocollo adattato alla realtà italiana. Il gruppo di  ricercatori che vi sta già lavorando è da anni l’espressione di punta del settore in Italia ed ha collaborato con i ricercatori statunitensi e francesi. Inoltre da lungo tempo formano il personale di varie forze di sicurezza italiane.

L’attuazione del progetto prevede varie fasi:

  1. la formazione di personale addetto al rilevamento di comportamenti anomali. Non è necessariamente limitato a personale dedicato ma può essere esteso a personale di bordo delle compagnie, al personale di terra, ecc. con costi a carico delle singole realtà economiche.
  2. La formazione di supervisori. Temporaneamente tale ruolo può essere svolto dai formatori del personale di sicurezza.
  3. La consulenza relativa alle applicazioni del prodotto nelle singole realtà differenziandolo in base a caratteristiche geografiche e sociali.
  4. La creazione di un database centrale che permetta di classificare la casistica incontrata, la tipologia, i soggetti a rischio le modalità di intervento e impiego. Tale database permette un più rapido intervento e di seguire i casi sospetti per un lungo periodo
  5. Sviluppare ed aggiornare il sistema di riconoscimento implementando a livello di UE la ricerca mirata in tale direzione attraverso l’utilizzo di fondi europei dedicati alla sicurezza.

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[1]  “Screening of Passengers by Observation Techniques (SPOT)” è il programma di formazione sviluppato dal professor Ekman in collaborazione con Rafi Ron, responsabile della formazione degli operatori della sicurezza dell’ Israeli Airport Authority. E ‘stato introdotto dal Transportation Safety Authority (TSA) negli Stati Uniti e dal British Aircrafts Authority (BAA) in Inghilterra. Il programma si propone di utilizzare tecniche di osservazione per individuare le persone che necessitano un controllo supplementare sulla base di comportamenti insoliti, ansiosi o spaventati espressi da passeggeri ai punti di controllo.