Divismo vecchio e nuovo

Modelli del divismo
di Enzo Kermol

John Wayne

John Wayne in “Ombre rosse”

Il divismo sorto all’inizio del secolo, e giunto sino a noi attraverso continue trasformazioni, si basa nella sua costituzione, rispetto alle forme storicamente precedenti, soprattutto sull’elemento visivo. Anche precedentemente l’immagine costituiva un elemento fondamentale, ma rispetto all’avvento del cinema con la sua essenza visiva, i mezzi a disposizione in tal senso erano ridotti ed erano minori le occasioni di riprodurre l’effige del divo.

Conan

Arnold Schwarzenegger in “Conan il barbaro”  

Inoltre la distribuzione sommaria di disegni, e più tardi delle fotografie, non può minimamente paragonarsi alla divulgazione capillare dell’immagine cinematografica prima e televisiva poi. In ogni caso e stata proprio l’utilizzazione intensiva del vedere che ha permesso la nascita dell’archetipo del divismo. In seguito, sempre attraverso l’uso dell’immagine, la funzione sociale del divismo si e dilatata progressivamente aumentando la propria influenza, sviluppando i suoi modelli di riferimento, inserendosi nei vari settori della comunità.

L’uso di ciò che si vede per la creazione di forme d’arte non e certo una metodologia recente, infatti “l’attività creatrice di immagini sia che si tratti di arti plastiche, di musica o di tragedia, e, secondo Platone, compresa nel campo della mimetica o attività imitatrice” (1).
L’elemento visivo era dunque ben utilizzato nel mondo classico: “Le phantasiai dei Greci, che i romani designavano con il termine visiones costituivano le visioni immaginative tramite le quali le immagini delle cose assenti sono presentate all’anima in modo tale che sembra di percepirle con gli occhi e di averle presenti. Tali phantasiai si sono sviluppate da quando l’uomo e riuscito a simbolizzare e si deve ad esse la capacita umana di costruire la favola e il mito” (2). Favola e mito generano vari tipi di eroi, che si possono conoscere attraverso la letteratura classica, dalle tragedie greche fino a quella del Rinascimento. Possiamo quindi continuare in questo apprendimento, esaminando la letteratura moderna, arrivando ai modelli contemporanei, in cui le figure di eroe e divo tendono sostanzialmente a fondersi.

Il segno di Zorro

“Il segno di Zorro”

La narrazione orale prima e la carta stampata poi hanno avuto fin dalle origini il compito di trasmettere gli elementi che contribuiscono al mantenimento dello status divistico. Quest’opera fondamentale e continuata anche durante il periodo aureo del divismo cinematografico, cedendo infine il ruolo di mezzo principale della persuasione (occulta e palese) alla televisione, sul finire degli anni sessanta. Precedentemente, ad esempio i divi del teatro ottocentesco, trovavano nel medium per eccellenza della loro epoca, la stampa quotidiana e periodica – ed anche attraverso l’immagine prima disegnata e poi fotografata, su locandine, giornali e ritratti – l’elemento fondamentale per la costruzione, e quindi per la conservazione, del proprio ruolo divistico.
La recitazione, cioè la propria capacita artistica, non poteva essere utilizzare in maniera adeguata per alimentare il divismo a causa del numero relativamente basso di rappresentazioni teatrali che l’attore poteva interpretare, sia in una singola sede che in assoluto durante la propria carriera. Di conseguenza anche il pubblico aveva una possibilità ancora minore di vedere il proprio divo, sia a teatro che in altre occasioni di apparizioni mondane, rispetto alla quantità di volte in cui il fan “ideale” potrà vedere in seguito il divo preferito.

John Wayne (2)

John Wayne in “Ombre rosse”

Il fenomeno del divismo muta radicalmente con l’avvento, e la successiva ampia diffusione, del media cinematografico. Il divismo assume una nuova dimensione molto più composita, nella quale la possibilità di vedere il proprio divo diviene ripetibile per il devoto ammiratore, e quindi praticamente infinita. Nello stesso tempo la stampa specializzata si trasforma e si rafforza, contribuendo di conseguenza ad irrobustire il nascente mito del nuovo divismo.
Metz conferma questa teoria dichiarando che “il significante cinematografico e percettivo (visivo e uditivo). Lo e anche quello della letteratura, poiché occorre leggere una catena di parole scritte, ma quel significante interessa un registro percettivo più ristretto: solo dei grafemi, una scrittura. Lo e anche quello della pittura, della scultura, dell’architettura, della fotografia, ma ancora con dei limiti che sono diversi: assenze della percezione uditiva, assenza nel visivo stesso, di certe dimensioni importanti come il tempo e il movimento (c’e ovviamente il tempo dello sguardo, ma l’oggetto osservato non si iscrive in un segmento preciso del tempo, con le sue consecuzioni obbligate e esterne allo spettatore). Il cinema e più percettivo di molti altri mezzi di espressione” (3).
Grazie al momento di grande espansione del cinema, il divismo si trasforma da elemento di garanzia per la vita e lo status di un ristretto numero di beneficiari, a mezzo che supporterà un’ampia struttura economica e porterà a un grande coinvolgimento sociale strati sempre più ampi di popolazione. La cinematografia sarà lo strumento che permetterà il verificarsi di questa prima fase del “nuovo” divismo.

Maciste Alpino - Bartolomeo Pagano

Bartolomeo Pagano in “Maciste Alpino”

“L’edificazione dell’industria comincio con la produzione di film a soggetto in numero tale da consentire frequenti cambiamenti dei programmi di proiezione e, quindi, un adeguato flusso di entrate che giustificassero la costruzione di locali stabili per gli spettacoli” (4).
Visto ormai in un’ottica industriale, il divismo viene interpretato come un meccanismo soggetto alle leggi dell’economia di mercato che permette ingenti investimenti finanziari ed enormi utili. In tal modo si modifica, improvvisamente, la sua funzione originaria, adeguandola alla mutata situazione richiesta dalla società.
Il cinema diviene, dal punto di vista produttivo e distributivo, una struttura dominata da un gruppo economico e culturale vicino all’elite politica che controlla lo Stato, in maniera più palese nei regimi totalitari, meno evidente nelle democrazie liberali. L’attore (sono più frequenti i casi maschili) proclamato “divo”, grazie ai notevoli capitali ottenuti da questo status, spesso diviene successivamente anche produttore finanziario di film, raggiungendo in tal modo il controllo dei mezzi di produzione e distribuzione. Altrettanto di frequente il divo (in questo caso sono maggiori le dive) entra a far parte dell’elite politico-economica in seguito al matrimonio con un suo esponente.

L'aereo più pazzo del mondo (2)

“L’aereo più pazzo del mondo”

Anche la televisione, in seguito alle modifiche intervenute nella diffusione dei media, con il declassamento del cinema, subentra nella struttura economica informativo-spettacolare con le stesse caratteristiche del suo predecessore. Nelle strutture del divismo televisivo, l’appartenenza dei divi all’elite di potere diviene ancora più evidente ed immediata. Inoltre la televisione viene gestita prevalentemente dal potere politico, sia direttamente con la suddivisione delle reti di proprietà dello Stato fra i partiti parlamentari, sia con il controllo indiretto delle maggiori reti private nazionali (o viceversa, reti nazionali controllano movimenti politici). Nel caso dell’Italia esiste anche, da parte del gruppo di potere politico-economico, il controllo di emittenti dei paesi confinanti che trasmettono in lingua italiana sul territorio nazionale come, ad esempio, Telemontecarlo e Telecapodistria.
Questa situazione desta interesse, poiché si colloca in una posizione vicina a quella analizzata dalla teoria marxista del divismo, dove lo Stato, agenzia della classe dominante, utilizza la televisione come fonte principale delle notizie divistiche: da informazioni sulla vita privata dei divi, li presenta in tutti i modi possibili, fa nascere rubriche di pettegolezzo su di loro, li crea e li distrugge nell’arco di pochi giorni o ne mantiene la notorietà per lunghi periodi di tempo.
La terza categoria mediale del divismo, la stampa quotidiana e periodica – sul cui reale pluralismo si può esprimere più di un dubbio, come ci illustra, rimanendo nel solo ambito cinematografico, tutta la filmografia da Quarto potere (Citizen Kane, USA, 1940, di Orson Welles) in poi – non detiene piu un ruolo fondamentale nella propagazione del modello divistico, ma continua sempre ad esserne un valido supporto, soprattutto nella propagazione di indiscrezioni ed episodi biografici “originali”.
L’area del cosiddetto privato, presente in tutte le società, e quella in cui agisce il pettegolezzo collettivo. A seconda del tipo di società, cioè se in essa viene esercitata una maggiore o minore forma di controllo per individuare eventuali comportamenti devianti, avremmo o meno un’area preclusa all’osservazione collettiva. Questa suddivisione, valida per tutta la popolazione, sembra non esserlo più quando si parla di soggetti divistici. Nel caso dei divi esiste apparentemente solo un’area pubblica, con uno spazio privato praticamente nullo.
“Apparentemente” poiché noi sappiamo solo ciò che ci viene riportato dai media e non abbiamo notizie di prima mano sulla situazione nella vita “reale” dei divi. “Il divismo si può costituire solo in una grande società in cui manca la possibilità di interazione diretta prolungata col divo, ma in cui le informazioni che lo riguardano sono mediate dai mezzi di comunicazione a distanza” (5), scrive Alberoni e, per supportare tale affermazione elabora una teoria in cui “il fatto che in un sistema stazionario ogni aspirazione alla modificazione del proprio status sia vissuta come socialmente pericolosa sottende un meccanismo di pensiero per cui l’acquisizione, da parte di qualcuno, di qualcosa in più ha il significato di un danno portato agli altri … questo meccanismo tende a scomparire in un sistema economico in cui i beni sono in quantità non finita, ma addirittura accrescibile illimitatamente attraverso un certo tipo di azione individuale e collettiva, razionalmente volta ad accrescerli”.
L’errore di chi ha analizzato in questo modo il fenomeno e quello di continuare a considerare i divi solo come un’emanazione del cinema o, per estensione, del settore dello spettacolo in generale, connotando come negativa, immorale, questa categoria e di conseguenza perniciosa per i ruoli pubblici di potere, che invece sarebbero “altamente morali”, e di non prendere in considerazione l’ipotesi secondo la quale coloro che formano l’elite di potere si comportano proprio come i divi cinematografici, anche perche ricoprono dei ruoli divistici simili a quelli, ma in un’altra categoria sociale. Infatti “gli eroi e i divi forniscono ai membri di una società dei modelli di comportamento ai quali conformarsi. L’imitazione appare già nei giochi infantili, ma non e mai fine a se stessa: nel gioco si attua una forma di imitazione in cui l’assimilazione domina sull’accomodamento” (6). Ed e ovvio che i modelli ricoprono tutto lo spettro visibile delle professioni (vuoi per motivi cinematografici, letterari, televisivi, di vicinanza, ecc.). Nella teoria piaggettiana l’imitazione (che risulta utile a spiegare il valore di modello raggiunto dal divismo) deriva da tre tipi diversi di giochi.

John Wayne (3)

Nell’infanzia appaiono dapprima i giochi di esercizio che sono poco stabili perche hanno funzione vicaria: “essi sorgono insieme ad ogni nuova acquisizione e scompaiono dopo saturazione” (7). Si passa quindi ai giochi simbolici, attraverso l’acquisizione di uno schema simbolico al posto di uno schema sensorio-motore che regola i precedenti. Allorché lo schema simbolico diviene simbolismo collettivo questo “può generare la regola, donde la possibile trasformazione di giochi di finzione in giochi di regole” (8). “La vita affettiva, come quella intellettuale, e un adattamento continuo e i due adattamenti sono al tempo stesso paralleli e interdipendenti poiché i sentimenti esprimono gli interessi e i valori delle azioni di cui l’intelligenza costituisce la struttura. Il pensiero simbolico, secondo Piaget, e la sola presa di coscienza possibile dell’assimilazione tipica degli schemi affettivi: e una presa di coscienza incompleta, e di conseguenza deformante, proprio a causa della carenza di accomodamento che e insita nella natura simbolica stessa dei rapporti di gioco. Per questo il pensiero simbolico, pur traducendo gli schemi in immagini, (e non in concetti o relazioni) si modella sull’organizzazione o assimilazione di questi schemi. Il pensiero simbolico resta dunque prelogico, come il pensiero intuitivo. La condensazione, caratteristica di questi due tipi di pensiero, consiste nel costruire” (9) “un significato comune ad un certo numero di oggetti distinti, il che permette appunto di esprimere la compenetrazione di più schemi affettivi che assimilano l’una alle altre situazioni diverse e spesso lontane nel tempo” (10). In questa fase del pensiero simbolico possono essere inseriti l’epica, le arti, e soprattutto i miti, le immagini e i modelli imitativi. Il pensiero simbolico si caratterizza come una parte dello sviluppo della mente umana, che può trasformarsi in elemento stabile, provocando quei fenomeni di squilibrio tra assimilazione e accomodamento da cui deriva l’imitazione dei modelli che proprio dal pensiero simbolico traggono origine.

Chaplin

Charlie Chaplin

Posti nell’infanzia i primi elementi di imitazione dei modelli divistici, resta da vedere come si “costruiscono” in seguito. Quali sono gli elementi che permettono di “creare” un divo (ad esempio del cinema o della televisione, ma un’analisi simile puo essere compiuta per qualsiasi genere sociale che produce divi) in grado di divenire un modello sociale soggetto ad imitazione? La figura divistica deve essere composta da una serie di elementi, le qualità, che possono differenziarsi a seconda del tipo di divo richiesto (dipende dal genere cinematografico in cui agirà: comico, avventuroso, commedia brillante, pornografico) e dalla fascia di pubblico a cui e principalmente indirizzato (intellettuale, d’essai, popolare, giovanile, per famiglia).
Appaiono cosi fondamentali le categorie costitutive (le qualità) dei modelli divistici. Ne elenchiamo un buon numero, sufficienti a descrivere ogni tipo di divo, raccolte in coppia con i loro opposti che, ha seconda del ruolo sociale ricoperto saranno di volta in volta considerate valide: bellezza-forza-debolezza, simpatia-antipatia, intelligenza-stupidita, violento-pacifico, altruista-egoista, sessualmente monogamo-sessualmente promiscuo, divertente-noioso, amante della famiglia-negatore della famiglia, stabile-vagabondo, comune-straordinario, vincitore-perdente, grande-piccolo, con abilita particolari-privo di abilita, atletico-sedentario, tormentato-sereno, complicato-semplice. Questo elenco e composto dalle qualità personali, e da quelle più genericamente umane, che compongono la figura del divo. Esaminiamo, a titolo d’esempio, alcuni modelli maschili riferiti a generi prettamente cinematografici: avventura, comico, commedia.

Leslie Nielsen (2)

Leslie Nielsen in “Una pallottola spuntata”

Nell’avventura la componente fisica ha una grande importanza (anche se vi sono controfigure, modellini o effetti speciali). Che si tratti di Maciste (Bartolomeo Pagano) in Maciste alpino (1916, I, di Giovanni Pastrone), di Zorro (Douglas Fairbanks) in The Mark of Zorro (Il segno di Zorro, USA, 1920, di Fred Niblo), di Ringo (John Wayne) in Stagecoach (Ombre rosse, USA, 1939, di John Ford), o di Conan (Arnold Schwarzenegger) in Conan the Barbarian (Conan il Barbaro, 1982, USA, di John Milius), tutti questi eroi del cinema dovranno avere una corporatura atletica, muscolare, risultare vincitori, simpatici, possedere tutte le caratteristiche positive enumerate nella scala di valori con cui si costruiscono i divi e attenersi, anche nella vita “privata”, ai principi ed ai valori portati sullo schermo, con pena, altrimenti, di una riduzione di notorietà e conseguenti benefici economici.

Buster Keaton

Buster Keaton in “The General”

Il comico, proprio per la sua derivazione circense, deve apparire buffo anche nel corpo: per contrapposizione, un attore grasso e uno magro (Stan Laurel e Oliver Hardy), laido e debordante (Paolo Villaggio), maschera impassibile (Buster Keaton), ritardato mentale (Charlie Chaplin). Negli ultimi anni il cinema statunitense ha ridotto questa derivazione clownesca presentando i caratteri fisici dei protagonisti come simili a qualsiasi altro genere, accentuando invece, per saturazione, le “situazioni comiche” come in L’aereo più pazzo del mondo (Airplane Flyng Hight, USA, 1980, di David e Jerry Zucker), in Una pallottola spuntata (The Naked Gun, USA, 1988, di David Zucker), e con una minor riuscita, in Hot Shots! (id., USA, 1991, di Jim Abrahams).

Stan Laurel - Oliver Hardy

Stan Laurel e Oliver Hardy

Nella commedia ritroviamo un’attenzione inferiore per le caratteristiche del corpo, ne atletico-avventuroso, ne grottesco-comico, mentre vi e una maggiore considerazione nella scelta dei lineamenti del volto, e un’egual oculatezza riferita alla sua espressività. Un caso limite e stato quello di Danny De Vito, che non e mai sembrato cosi “piccolo” e “rotondo” come in I soldi degli altri (Other People’s Money, USA, 1991, di Norman Jewison). In alcune inquadrature i movimenti di macchina ne rivelano una corporatura bassa e tozza. Nondimeno il volto curatissimo, e le inquadrature “alte” ne fanno un eccellente interprete. Sempre nella commedia arriviamo all’altro estremo, quello della trasandatezza degli attori italiani, i meno curati, sia nel corpo che nel volto, un po’ordinari in tutte le loro manifestazioni, che appaiono in film piuttosto grossolani.

Leslie Nielsen

Leslie Nielsen in “Una pallottola spuntata”

Queste brevi considerazioni sono ovviamente valide anche per le dive. Alcuni autori tuttavia approfondiscono i loro studi nei riguardi degli stereotipi femminili. Tessarolo e Giust prendono in considerazione quattro modelli di donna: “la donna idealizzata, la donna d’azione, la donna oggetto e la donna narcisus” (11). Si tratta dei modelli, sulla cui base vengono costruite le dive, si ritrovano sia nel cinema, nelle soap-opera e nella pubblicità. La donna idealizzata rappresenta il modello classico di riferimento per la donna che si occupa dell’andamento dalla casa, dei figli, della famiglia, con una lieve connotazione sessuale. La donna d’azione decisionista, con attività lavorativa extradomestica, con caratteristiche proprie dei modelli maschili, ma per eccesso e compensazione. Sessualità media. La donna oggetto, termine un po’ abusato, per indicare il modello femminile “estroverso”, diretto cioè ad essere supporto per i prodotti che la circondano. In pubblicità carica di fascino e sessualità tutto ciò che la circonda. Nei film le movenze plastiche-feline inducono alla completa assimilazione del modello. Sessualità fortissima. Infine il modello donna “narcisus” che si riferisce ad una donna “rivolta esclusivamente a se stessa e intenta alla cura morbosa e frenetica del proprio corpo”, modello di creme e cerette per la pubblicità, di media presenza nelle soap-opera, marginale al cinema. Sessualità media ma sublimata.

modelle

Modelle

In tutte queste suddivisioni l’elemento visivo ritorna prepotentemente alla luce, facendoci riflettere sull’importanza dei modelli divistici, e sulla loro pesante influenza nella vita quotidiana. Ad esempio la modella Claudia Schiffer, una diva nel settore della moda, la più nota top-model del momento, accumula in se tutte le caratteristiche della donna più bella e quindi più desiderabile. Zigomi, occhi, altezza, dimensioni del corpo. Ma cosa indicano questi parametri? Individuano gli elementi che socialmente rappresentano la sessualità, cioè il grado di fecondità, perciò il grado (la possibilità) di riproduzione della specie. Se certi elementi sembrano universali (ad esempio gli occhi grandi) altri come colore, foggia, lunghezza dei capelli, variano da società a società, e all’interno di ognuna variano tra le diverse classi economiche. Se osserviamo la foto di una particolare diva contemporanea probabilmente ne saremmo attratti. Ma fra qualche anno la stessa immagine, soppiantata da quella di un’altra diva risulterà possedere un minor valore nella scala della bellezza, e qualche anno più tardi magari non rientrerà neppure nella graduatoria dei valori sociali. Tale esperimento lo si può compiere anche a ritroso nel tempo osservando le foto di dive ritenute come modelli di bellezza negli anni venti, quaranta e sessanta. Si noterà, nella maggior parte dei casi un notevole discostamento dai modelli contemporanei. La conclusione e abbastanza ovvia: non esiste alcun modello naturale – nel divismo e nella vita quotidiana – ma solamente il risultato di adeguati condizionamenti compiuti attraverso i media (12).

Note

(1) Vernant J.P. (1982), Nascita di immagini, Milano, Il Saggiatore.
(2) Tessarolo M., Orviati G. (1986), La percezione dell’eroe nell’adolescenza, in “Orientamenti pedagogici”, XXXIII, n. 6.
(3) Metz C. (1977), Le significat imaginaire. Psychanalyse et cinema, Paria, Union Generale d’Editions. Tr. it. (1980), Cinema e psicanalisi. Il significante immaginario, Venezia, Marsilio Editori.
(4) Jarvie I.C. (1970), Towards a Sociology of the Cinema. A Comparative Essays on the Structure and Functioning of a Major Entertainment Industry, London, U.K., Routledge & Kegan Paul. Tr. it. (1977), Una sociologia del cinema, Milano, Franco Angeli.
(5) Alberoni F. (1963), L’elite senza potere, Milano, Vita e pensiero.
(6) Tessarolo M., Orviati G. (1986), op. cit.
(7) Piaget J. (1945), La formation du symbole chez l’enfant, Neuchatel, Delachaux & Niestle. Tr. it. (1972), La formazione del simbolo nel bambino, Firenze, La Nuova Italia.
(8) Piaget J. (1945), op. cit.
(9) Tessarolo M., Orviati G. (1986), op. cit.
(10) Piaget J. (1945), op. cit.
(11) Giust F., Tessarolo M. (1985), L’immagine della donna nella pubblicità, in “Sociologia della comunicazione”, IV, n. 7.
(12) Giunge conferma alle tesi esposte nel saggio di Imbasciati A., La prospettiva psicologica, in Braga G. (1973), Cinema e scienze dell’uomo, Roma, Bianco e Nero: “I mass-media si avvalgono in larghissima parte di una comunicazione visiva attuata per immagini: le immagini sembrano aver sostituito la scrittura, e il linguaggio delle immagini la lingua codificata, scritta o parlata; si parla cosi di linguaggio iconico e di civiltà dell’immagine. In effetti i mass-media per eccellenza, la televisione, il cinema, la pubblicità, esprimono e comunicano appunto attraverso immagini: d’altra parte la stampa – un mezzo di comunicazione più tradizionale – si e in questi ultimi lustri completamente rinnovata, puntando principalmente sulla comunicazione per immagini, anziché su quella scritta; basti pensare alla diffusione del fumetto, del rotocalco, del fotoromanzo”.

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